Quando si tratta di commemorare la scomparsa di un monarca o di un erede ad uno dei troni abbattuti nel corso del XX secolo, difficilmente ci si picca di evitare quel dotto florilegio di nomi, genealogie e parentele, florilegio che spesso rivela una sì magra conoscenza del Gotha, così come espressioni di puro nostalgismo, il cui rischio inevitabile è quello di cadere nel folklore. La poesia che pervade il gioco di specchi e cristalli della memoria è e deve rimanere tale: poesia. Potrà adattarsi a uomini che il tempo ha ormai consegnato al passato, forse anche alla leggenda, ma solo in parte a coloro che hanno agito nella contemporaneità con tutto lo slancio degli uomini del loro tempo, senza guardare al passato con occhio malinconico. Ciò valga a maggior ragione nel ricordare la figura di Otto von Habsburg, un uomo che, delle funeree nostalgie di chi, come scrisse Claudio Magris, non ha conosciuto ma solo orecchiato quel mondo di ieri[1], disse di conoscere nemmeno il significato. È infatti nostra intenzione ricordare Otto von Habsburg non in quanto ultimo epigono di un’epoca ed erede al trono asburgico, bensì in quanto uomo e in quanto europeo, in conformità con ciò che egli volle essere considerato in vita.
Otto nacque a Villa Wartholz, Reichenau an der Rax, il 20 novembre 1912, primogenito della principessa Zita di Borbone-Parma e dell’arciduca Carlo, ed è scomparso, all’età di novantotto anni, il 4 luglio 2011 a Pöcking, in Baviera. La sua vita terrena percorse tutto un secolo, il più travagliato nella storia dell’umanità: vide all’età di sei anni il crollo dell’Impero, a dieci la morte di suo padre, oggi Beato della Chiesa Cattolica, e poi l’Anschluss, il secondo conflitto mondiale, gli anni della ricostruzione e della guerra fredda, il crollo delle ideologie e la più radicale rivoluzione che abbia mai coinvolto la scienza e le tecnologie. Al momento della sua venuta al mondo ogni litania veniva pronunciata in latino, e l’Imperatore riceveva la triplice benedizione dei capi delle comunità religiose dei suoi popoli: prelati, rabbì di Israele, muftì di Sarajevo, le foreste si estendevano oltre il Danubio, sui Carpazi, ancora ampie, più folte e arcane di quanto siano oggi, e tutto ciò era semplicemente Austria. Austria e Ungheria, Cisleithania e Transleithania. Quando chiuse gli occhi, oltre il Danubio si estendeva ormai da quasi un secolo una miriade di piccoli stati nazionali, la cui attuale condizione è stata frutto di esperimenti politici fin troppo sanguinosi, mentre Dio, allora ancora così presente in ogni aspetto del vivere sociale, pare confinato in quell’angusta riserva di caccia che è l’etica, linfa per lo spirito, ma non certo per l’anima. Tuttavia Otto von Habsburg non rifiutò la modernità né il destino che la sorte ha riservato alla sua casata. Al contrario, egli interpretò la propria missione esistenziale alla luce della profonda devozione nei confronti delle tradizioni del suo casato: gli Asburgo avevano, e conservano, dichiarò in un’intervista a cura di Franco Cardini e Luigi G. de Anna, una tradizione familiare che educava al servizio politico nei confronti dello Stato. Siamo, in questo senso, una “famiglia politica” e di conseguenza sentiamo che il nostro dovere nell’ora attuale è di agire nella vita pubblica[2]. Otto ritenne il ruolo imperiale detenuto dagli Asburgo per secoli come un fattore determinante per la formazione di un moderno spirito europeo, nonché le istituzioni dell’imperialregia monarchia come un possibile modello per il federalismo europeo che auspicava.
La visione politica di Otto von Habsburg, tra le più lucide e coerenti del secolo trascorso, non fu infatti improntata ad egoismi, nostalgie o tentazioni revanchiste. Vi fu, è vero, per lungo tempo il miraggio di una restaurazione monarchica in Austria, in particolare negli anni in cui la Prima Repubblica austriaca fu retta da Kurt von Schuschnigg, successo al cancelliere Dolfuss, il quale era stato assassinato dai nazionalsocialisti austriaci durante un tentativo di putsch. La piccola Austria, Staat ohne Nation e Republik ohne Republikaner, abbandonata dall’alleato italiano e stremata dalla minaccia dell’annessione al Reich così come dall’implosione di un conflitto sociale da sempre latente, sembrava di aver perso ogni raison d’etre, e che l’unica forza in grado di rivitalizzarne l’identità fosse il legittimismo. Tuttavia, nonostante l’impegno profuso dal giovane arciduca in esilio, la simpatia dei cristiano-sociali al potere nei confronti della restaurazione asburgica non trovò sbocco pratico. Sfumata in seguito alla Seconda guerra mondiale ogni possibilità di restaurazione, Otto profuse ogni suo sforzo nel rivitalizzare il ruolo dell’Austria, paese natale al quale non ebbe diritto d’accesso fino alla completa rinuncia di ogni pretesa sul trono, in Europa, ma, soprattutto, nella costruzione di una comune identità europea.
Otto von Habsburg infatti fu, prima d’ogni altra cosa, un cittadino europeo. Nato in Austria, fu educato in Spagna da benedettini ungheresi, si laureò presso l’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, si sposò a Nancy, antica capitale dei duchi di Lorena e di Bar, con una principessa tedesca, Regina di Sassonia-Meiningen, e trascorse gran parte della sua vita tra la Baviera, la Spagna e Strasburgo. Principe cosmopolita, questo suo tratto sembra rievocare quello di un grande avo, l’ultimo sovrano della res publica christiana Carlo V. Eppure, a differenza di questi, egli non fu l’ultimo baluardo di una rocca antica ormai in procinto di cadere in rovina, ma rappresentò le forze più vive e pulsanti del suo tempo. Il suo convinto europeismo deve essere fatto risalire al moto di protesta a causa delle condizioni dell’Austria all’indomani del secondo dopoguerra, in particolare alla bozza degli accordi del 1947, e all’incontro con il conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi. Questi, tra i più atipici frutti del cosmopolitismo dell’aristocrazia danubiana, aveva avanzato, già nel 1923, l’illuminato progetto per una confederazione europea, la Pan-Europa appunto, che si contrapponesse tanto alla minaccia sovietica o, più in generale, a quella russa, così come all’influenza anglosassone e, in particolare, statunitense, nell’ottica di una politica di grandi spazi. Otto, successo a Coudenhove-Kalergi alla guida dell’Unione Paneuropea, un organismo con funzioni di elaborazione politica e culturale estraneo ad ogni partito, fu protagonista di quella che è stata la stagione più felice dell’Unione.
Innanzitutto occorrerà ricordare che egli, nel momento in cui giunse alla direzione della
società, non era affatto nuovo da esperienze politiche e diplomatiche di ordine internazionale. Durante la Seconda Guerra Mondiale Otto aveva de facto rappresentato presso il governo statunitense l’Ungheria, con la quale erano state rotte le relazioni diplomatiche, e l’attività con la Pan-Europa rappresentò un’ulteriore occasione per l’Asburgo di cimentarsi con le problematiche del suo tempo. Innanzitutto vennero riconosciute, nello statuto dell’unione, il Cristianesimo e la lotta nei confronti di tutte quelle tendenze che hanno causato il crollo morale dell’Europa, quali l’Ateismo, il Nichilismo e l’immorale consumismo, accentuando l’aspirazione conservatrice dell’Unione, cui avevano aderito anche personalità di spicco quali Thomas Mann, Franz Werfel, Salvador de Madariaga, Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Decisivo e sostanziale fu l’impegno nei confronti dell’unificazione completa dell’Europa, ed in particolare nei riguardi di quei paesi che rimanevano, oltre la cortina di ferro, sotto l’egemonia sovietica, oltre che dei rifugiati dall’Est. Non dobbiamo dimenticare che l’ultima tappa che ha portato al termine del dominio sovietico fu proprio quell’innocente “pic-nic paneuropeo” organizzato a Sopron, al confine tra l’Austria e l’Ungheria, nel 1989. A breve, il crollo dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia avrebbero causato alcune delle peggiori catastrofi internazionali degli ultimi decenni, i cui effetti sono oggi più vivi che mai. Otto von Habsburg, che rifiutò l’offerta dei cristiano-democratici ungheresi di porsi come candidato alla residenza del paese alle prime libere elezioni sostenendo di poter risultare più utile al paese dal suo seggio di Strasburgo, avrebbe auspicato una libera federazione danubiana, secondo il modello che era stato dell’Impero austro-unagarico. Nell’ora presente dovremmo chiederci quali effetti avrebbe potuto avere l’attuazione di una simile proposta e, seppur tentando un’analisi nel mondo delle nebulose, forse si sarebbe trattato di qualcosa di preferibile rispetto allo scenario balcanico e mitteleuropeo che ci viene presentato.
Intenso fu anche il rapporto con il mondo tedesco, vero centro propulsore dell’attività di Otto: nel 1979 fu candidato ed eletto al Parlamento Europeo come indipendente nelle liste della CSU bavarese, cui aderì successivamente su interessamento di Franz Josef Strauss, al quale lo accomunava una chiara convergenza di opinioni in materia di europeismo. Tra i promontori della Mont Pélerin Sociey e della meno rilevante esperienza del Centre européen de documentation et d’information (CEDI), un organismo che voleva porsi come controaltare conservatore ai gruppi di pressione liberal, si distinse anche tra i promotori del dialogo ecumenico tra le tre grandi religioni monoteiste. Egli fu uno di quegli europei convinti dell’importanza vitale di fondare l’identità della federazione sulle comuni radici cristiane e sul principio di sussidiarietà, più che sulla burocrazia ed un comune sistema monetario, pur senza mettere in discussione la vitale importanza di questi ultimi.
Dunque, cinque anni fa scompariva Otto von Habsburg, un uomo che fu tutto ciò: ultimo epigono delle tradizioni millenarie del suo casato, diplomatico, uomo della Mitteleuropa, grand seigneur, uno dei padri del federalismo europeo.
Nel primo pomeriggio del 16 luglio 2011 un corteo immenso attraversò l’Innere Stadt di Vienna: membri della famiglia, teste coronate, esponenti delle istituzioni europee e nazionali, ecclesiastici, cavalieri di Malta e del Santo Sepolcro, rappresentanti e vessilliferi per ogni antica provincia dell’Imperialregia monarchia, gente comune, popolo di Vienna e della Mitteleuropa. La corte funebre si diresse verso lo Stephansdom, dove l’anima di Otto von Habsburg accolse l’ultimo Requiem dinnanzi all’altare maggiore. A tenere l’omelia fu il cardinale Schönborn: il discendente dei principi-vescovi di Wurzburg e Bamberg accanto al feretro dell’ultimo erede degli Asburgo. Tramite loro il sacro e profano, spirituale e secolare, intrecciatisi nei secoli lungo i tortuosi sentieri della storia tempo e poi separati con la forza, ancora una volta l’uno accanto all’altro. Scandite le ultime parole dell’omelia, vennero reclinate sul feretro le bandiere giallo-oro dell’Austria-Ungheria e, allora come per cent’anni in passato, riecheggiò, per le navate di Santo Stefano, il Gott erhalte sulle note di Haydn. Infine la processione seguitò fino alla Cripta dei Cappuccini, secondo l’antico rituale. È qui che Otto riposa accanto a sua moglie e ai suoi avi, mentre il suo cuore giace oltre il Danubio, a Pannonhalba, presso un’antica abazia benedettina. Ed ora, a dispetto d’ogni nostalgia e d’ogni sentimentalismo, che siano infine le commosse parole di un poeta, un poeta austriaco quale fu Rainer Maria Rilke, a concludere il nostro ricordo di Otto von Habsburg:
Und bin doch manch eines Erbe
Mit drei Zweigen hat mein Geschlecht gebluht
auf sieben Schlossern in Wald,
und wurde seines Wappens mud
und war schon viel zu alt;
und was sie mir liessen und was ich erwerbe
zum alten Besitze,
ist heimatlos
…
Denn was ich fortstelle,
hinein ind die Welt,
fallt,
ist wie auf eine Welle
gestellt[3].
1 Claudio Magris in Conversazione fra due ex, prefazione a Gregor von Rezzori, Memorie di un antisemita, Guanda Editrice, Parma, 2010; il testo introduttivo di Magris è stato pubblicato per la prima volta sul Corriere della Sera del 3 giugno 1990 con il titolo: Rezzori. La memoria salvata.
[2] Otto d’Asburgo: intervista sull’Europa, a cura di Franco Cardini e Luigi G. de Anna in Coudenhove-Kalergi, Richard Pan-Europa. Un garnde progetto per l’Europa unita, Il Cerchio editore, Rimini, 1997.
[3] Ma pure, l’Erede io mi sento\di qualcosa che l’oggi trascende;\Con tre rami fiorì la mia gente\per sette manieri silvani\ E fu stanca, assai presto, del vecchio blasone\Piegò sotto il peso degli anni\L’Antico retaggio degli avi,\tutto ciò ch’io conquisto e gli apporto,\sono ormai senza patria, nel mondo […]\Tutto ciò ch’io proseguo nel mondo,\sempre più, nel più folto,\sprofonda\sovra il labile effimero gioco\di un’onda, Rainer Maria Rilke, Liriche scelte tradotte da V. Errante, Sansoni, Firenze, 1947