Il colonnello Lionel Messi, che promosse quattro finali e le perse tutte, segnò più gol di Batistuta ma non vinse mai una Copa America o un Mundial, che dribblò più calciatori di Maradona senza mai riuscire ad entrare nel cuore degli argentini, si è arreso, e con lui, si è arresa la sua generazione “zero tituli”: Higuain, Mascherano, Di Maria, Lavezzi, Aguero, Lamela, Biglia, Otamendi, Banega, l’escluso Tevez, giù giù fino alla panchina del Tata Martino. Una intera nazion(al)e che produce calciatori fuori dal comune – pensate a Dybala e Icardi che verranno – è ancora ferma ai piedi, anzi al piede sinistro, di Maradona. Nella sua ombra sguazzano fior di campioni decisivi con i club – Higuain per tutti – ma incapaci di fare la differenza nel momento della finale, con la Selección. Vivono nelle partite del farsi, segnano, stupiscono, trascinano, per poi rimanere a una tacca dal sogno nella partita dell’essere. Maradona è il Giulio Cesare che li ha allevati e che loro non riescono ad uccidere, mentre lui – allegro tiranno a proclami: “Se perdono, meglio che non tornino” – li irride, dando dello svedese a Messi, con il tempo dalla sua parte che passando gli rende gli onori, in un enunciato calcistico che dice: più cresce il tasso tecnico della nazionale argentina, maggiore è lo splendore dell’impresa maradoniana. Messi non ha più retto l’oscillazione tra i desideri calcistici e l’impresa mancata e, spedendo baggianamente un rigore alle stelle nella finale di Copa America contro il Cile (con lui ha sbagliato anche Biglia), ha deciso di lasciare la nazionale, inaugurando le parziali dimissioni da campione e da se stesso. Prima dei rigori anche Higuain – sostituito alla fine del secondo tempo da Aguero – aveva sprecato la sua parte di gloria, rimandando la rivincita con se stesso, con la sua nazionale e soprattutto con il Cile.
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Un tiro al lato, di poco al lato del palo alla destra di Bravo, dopo aver rubato il pallone a Medel, che ricorda un altro gol mancato: quello col Real Madrid, nella Champions League del 2010, quella che aveva la finale al Bernabéu, quella del tutto calcolato: vinciamo noi, della partita col Lione, il tiro di Higuain finì sul palo, dopo che aveva scartato il portiere Hugo Lloris ed essersi bevuto i difensori Cris e Boumsong. Non si sa ancora se anche Higuain lascerà la Selección, rimane un dato che lo separa dagli altri, da una generazione del calcio che trasversalmente allaccia il mondo e va oltre i campi, lui – forse per tradizione familiare – non molla, fino alla disperazione. Non mostra quell’atteggiamento che è evidente in Messi, un distacco, un disinteresse – che abbiam visto anche l’altro giorno in Pogba – che Romario risolse superficialmente con la diagnosi di autismo. È qualcosa di diverso e che appartiene a una trasformazione antropologica, dove la vittoria con la Nazionale è secondaria, al punto che dopo pochi tentativi si può anche smettere di lottare, perché si ha il paracadute di un club titolato che macina vittorie o perché anche il calcio è stritolato nel nichilismo dello spettacolo fine a se stesso e ai profitti in borsa. L’Argentina ha una mancanza di carisma a dispetto di un parco giocatori che non schiera nessuno, ha una mancanza di tattica dovuta all’impossibilità di fare orchestra per sovraffollamento di solisti, ed è rimasta stritolata nel “date la palla a Messi”, per due volte in due anni, a dispetto di un Cile che invece dice: giochiamola tutti, dando ad Edu Vargas per due volte di seguito la possibilità di essere capocannoniere. Il calcio si gioca in undici, e quegli undici scarsi o meno devono ricoprire spazi, avere un ruolo preciso, a meno che tu non abbia Maradona.
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È questo il nodo. Serve una “cholizzazione” dell’Argentina, bisogna chiedere a Diego Simeone – non a caso faceva parte dell’ultima Selección che vinse la Copa America – se non di allenare, almeno di passare quella fame pugilistica che lo nutre e che a sua volta nutre le sue squadre (sì, ha perso due finali di Champions League, ma ha vinto la Liga, e il suo metodo funziona). Ed è curioso che il metodo Bielsa (che quest’anno vedremo da vicino con la Lazio) in Cile sia fiorito e in Argentina no. Quasi che a Buenos Aires o Rosario, dopo Maradona, debbano nascere e crescere campioni incapaci di staccarsi dall’ombra della sua gloria.
*Da Il Mattino
@barbadilloit