Quando domandavano a Madre Teresa perché fosse rimasta a Calcutta, lei rispondeva: c’è sempre un posto dove puoi essere straordinario, devi solo lasciare che quel posto ti trovi. A scorrere le storie dell’incredibile squadra di calcio che ha fatto l’impresa di vincere, per la prima volta, la Premier League, il Leicester, si capisce che quello era il posto, per calciatori e allenatore. Scarti, freak, carriere al tramonto, e un normalizzatore: tutti erano entrati e usciti rapidamente dal grande calcio, erano stati bruciati o non visti, figurine sfocate di una storia che non si era realizzata, una armata Brancaleone, guidata da un cavaliero che funziona al meglio fuori dai grandi circuiti, dove pure è stato ma sempre a un punto dai campioni.
Dopo aver a lungo girato (5 campionati diversi e 14 squadre), consumato tutto il bonus della sfiga, Claudio Ranieri è tornato in Inghilterra, fuori da Londra dove aveva allenato il Chelsea, facendo storcere il naso a Gary Lineker – che è l’aforista calcistico da citare a cena – nato a Leicester e che come tutti noi giudicava la scelta di Ranieri poco ispirata, visto il disastro di aver guidato la nazionale Greca fino a schiantarla contro le isole Far Oer. Poi man mano che la squadra vinceva, Ranieri sembrava sempre più Chance il giardiniere di “Oltre il giardino”, film con Peter Sellers, spiegava l’impossibile che si andava accumulando settimana dopo settimana con la normalità, dal campanello alla pizza, dal palla lunga e pedalare, ma soprattutto dalla prima regola del calcio italiano: non prenderle. Ora come e più di Rocky non gli resta che urlare: «Adriana!»
La storia di Ranieri calciatore
Per capire Ranieri, prima ancora della sua squadra tocca sapere che lui da calciatore era partito come attaccante ma non segnava, poi Luciano Tessari, vice di Liedholm, lo mise in difesa: «Da dietro vedi tutto, capisci meglio le cose, il gioco e il calcio». Questo passo da gambero che lo porta da una area di rigore all’altra, aggiunto al triangolo tutto marinaro: Lamezia, Pozzuoli, Cagliari, sono alla base della semplicità calcistica e biografica di Ranieri, un timido riflessivo che ammira in silenzio gli estrosi in campo e fuori, arrivando persino a soccombere sotto le offese di questi (pensate a Mourinho, che poi viene esonerato proprio dopo una sconfitta col Leicester di Ranieri), il resto è stato un viaggio da ulisside fino al posto che lo rendesse straordinario, bastava vedere la sua meraviglia in conferenza stampa, che l’inglese imparato in tarda età esportava in modo ancora più elementare sui tabloid. Ranieri è un uomo paziente, o forse sa che prima o poi, e più o meno tutti, siamo il grande sogno di qualcuno, il mezzo per realizzarlo. Ha saputo sopportare l’inquietudine dei presidenti e le bizze dei campioni, i fallimenti delle società e gli esoneri di piazza, continuando sempre a rimanere se stesso, un uomo capace di correre l’azzardo di farsi dimenticare, senza farsene una malattia. E per questo ora è tra gli indimenticabili, nonostante il Tottenham di Pochettino giocasse un calcio superiore a quello del suo Leicester. Ma la squadra di Ranieri, la sua vittoria, è quello che Nassim Taleb chiama “cigno nero”, un evento altamente improbabile, con tre caratteristiche: è isolato e imprevedibile; ha un impatto enorme; ci chiama a ad architettare giustificazioni per renderlo meno casuale.
La classe operaia ovvero la rosa del Leicester
E ad analizzare chi ha fatto l’impresa con Ranieri, viene fuori una classe operaia calcistica che ha nel caporeparto Jamie Vardy – operaio vero, lavorava in azienda di prodotti ortopedici – la sua centralità prima ancora della straordinarietà. È lui il simbolo, anche se è mancato nelle ultime partite – causa espulsione –, ma è a casa sua che si è consumata la festa improvvisa dovuta al pareggio del Chelsea col Tottenham grazie al gol di Hazard. Vardy gioca il suo primo campionato da professionista a 25 anni, ora ne ha 28, e la sua prima stagione allo Stocksbridge, la squadra degli operai, va ricordata più per una rissa in un pub, era intervenuto a difesa di un amico con un apparecchio acustico che veniva preso in giro. Sei mesi di coprifuoco dalle 6 di sera alle 6 del mattino, con il braccialetto elettronico, che lo costringeva a giocare solo un tempo delle partite e poi a correre a casa per non essere fuori nelle ore stabilite dalla condanna. Scontata la pena passò all’Halifax – sesta serie – 29 gol in 41 partite non erano male e così arrivò il Fleetwood Town e la possibilità di lasciare la fabbrica. Gli servono due stagioni per rivelarsi, alla seconda segna 34 gol in 40 partite e il Leicester, lo prende per un milione di sterline. Prima stagione cannata solo 5 gol in 29 partite, a salvarlo dal prestito è Nigel Pearson l’allenatore che porta la squadra in Premier. Il resto, invece, è merito di Ranieri, il suo gioco basato sul contropiede lo ha valorizzato, anche perché Vardy è il calciatore più veloce del campionato inglese con i 35,44 km/h, quest’anno in 34 presenze ha segnato 22 gol, può migliorarsi nelle prossime partite. Con lui in un ipotetico podio ci sono Riyad Mahrez e N’Golo Kanté. Il primo è figlio della pallastrada, rabbia e banlieue, unica squadra prima del Leicester, il Le Havre, nel campionato amatoriale francese. Un algerino capace di borseggiare gli avversari col pallone: rubando tempo e spazio, capace di grandi dribbling e di rigori sbagliati. Luce e buio, 35 presenze e 17 gol, ma più di quelli ci son gli assist per Vardy: 10; porta a casa anche il titolo di calciatore dell’anno. La parte della perfezione a centrocampo invece è stata interpretata da N’Golo Kanté: recupera palloni togliendoli persino a Yaya Touré che è un po’ come togliere la chitarra a Keith Richards, è Abebe Bikila più Gattuso, ora lo vogliono tutti. In porta c’è l’unico figlio di papà non fighetto: Kasper Schmeichel che all’Old Trafford ha superato la zona d’ombra, e ad ogni partita regala – oltre alle parate e ai rilanci – un gesto da romanzo: ancora sbatte i tacchetti dei suoi scarpini sul palo. Prima il portiere era il pazzo, l’estraneo, lui è il romantico. Davanti ha Wes Morgan un teppista di Nottingham salvato dal pallone (il primo giamaicano a vincere la Premier sarà contento Usain Bolt), e Danny Simpson al quale il pallone non è bastato a togliergli la puzza della strada ma ci son volute 300 ore di servizi sociali; e poi il tedesco squadrato Robert Huth e l’austriaco essenziale Christian Fuchs, due soldati che sarebbero piaciuti a Joseph Roth. A centrocampo hanno giocato e lottato: Danny Drinkwater orfano/scarto del Manchester United; Marc Albrighton uno che dal campo esce consumato; il veterano Andy King che da bravo gallese è rimasto fedele alla linea nella League One come nella Premier League: buona e cattiva sorte; il ghanese Jeff Schlupp e il subentrante Demarai Gray – il ragazzino promettente – che ha rischiato di essere decapitato da un elicottero.
Davanti a fare il Pelé che segna in rovesciata – contro il Newcastle – c’è Shinji Okazaki, che non segna molto ma ha fatto un gran lavoro da gregario, lui che è la faccia della nazionale giapponese. Infine Leonardo Ulloa, saltato fuori dalle pagine di Osvaldo Soriano: polvere, bus sgangherati e campi di periferia, un picaro nato in Patagonia, che ha fatto il vice Vardy, segnando la rete decisiva della stagione, contro il West Ham su rigore al 95’ e non era Totti. Ci sono voluti centotrentadue anni e una squadra che sembra un equipaggio da mercantile per sovvertire la cima del calcio. E probabile che ci vorrà un altro secolo o che non accada più. Godetevela e non chiedete per chi suona la campanella di Ranieri.