La meravigliosa unione della Duse con D’Annunzio rosicchiata dal quotidiano precipita nel forse. La loro passione è come un mare in burrasca, fascinoso, poi la risacca e l’inventario dei detriti. Nella convivenza a La Capponcina, villa a Settignano, affiorano le angherie dell’uno e dell’altro.
La Duse è costretta a tournèes stressanti per racimolare guadagni a fronte degli sperperi di una vita principesca. Oltre tutto la poveretta è minata dal mal sottile. Non rinfaccia gli esborsi ma sotto sotto si fa forte di quelli, assieme ai costosi doni li considera un’arma per tenerlo prigioniero. “Ciò che avevo diedi,” dirà poi lei. Così Eleonora è sovente assente, in giro per il mondo, Gabriele se la spassa. Si consola con gli innumerevoli suoi amorazzi, frequenta persino i bordelli. “Le mie passioni, i miei vizi sono estremi,” confessa.
Ci sono lacerazioni, rattoppi e dopo nove anni, nel 1904, la rottura. Sai la novità, gli amori si usurano, finiscono. Gli amori passeggiano, vanno. Per me nell’amore cerchi nell’altro una parte di te e non la trovi. Nelle motivazioni del “guasto d’amore” ci sono anche meschine cose di bottega. La Duse rifiuta di produrre “La figlia di Iorio” convinta che Gabriele faccia il doppio gioco, congiuri con la Sarah Bernhardt. Infatti le ha offerto la parte ne “La città morta”. Eleonora giace stremata, malata, nell’hotel Eden Palace di Genova. La tubercolosi incombe, sputa sangue. “Ah misero! Miseri tutti. Dove andrò, cosa farò,” si lamenta e D’Annunzio compie la vendetta. Per il ruolo della selvaggia Mila di Codro scrittura la rivale Irma Gramatica, che tra l’altro è stata l’amante del marito della Duse, il Cafiero. Manda un fattorino dalla Duse a ritirare il costume di scena!
Si fantastica un’ultima scenata di gelosia, la Duse sbatte la porta della Capponcina dietro di sé, colma di risentimento. Per il suo Gabri diventerà “la divina scomparsa.” Della pioggia nel pineto a lei dedicata rimangono solo le gocce, ora lacrime a bagnarle il viso. Il piacere non c’è più. Si comporta alla stregua di una popolana. Impartisce alla figlia la disposizione di bruciare tutte le lettere di Gabriele malgrado le sue proteste. Gli scrive: “Ti auguro oblio nell’arte.” Una specie di malocchio. Acquista una rivoltella che per fortuna non userà. È la resa dei conti.
Indossa compiaciuta la veste della vittima. Tutte le donne lacrimano con lei, tutti gli uomini coprono di fango il Poeta. Eleonora declama: “Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché l’ho amato.” Accuse giuste?
Interviene Tom Antongini. È il segretario di D’Annunzio quindi prezzolato ma pur sempre un testimone: “Ignobile calunnia, è andato in Francia povero e nudo.” E ancora: “Ha dovuto mettere all’asta gli arredi della Capponcina, anche il cavallo purosangue, mentre la Duse è andata via tranquilla. Gli smeraldi sono un dono.” Alla domanda: “Il poeta l’ha sfruttata?” Rispondeva: “No, mi ha fatto di peggio.” Mi ha fatto soffrire, ecco la spiegazione. Denuncia un danno sentimentale non finanziario.
E Gabriele? Nelle battute di caccia alla volpe attorno a Roma scopre un miracolo biondo dagli occhi celesti, una bellezza folgorante. È la marchesa Alessandra di Rudinì, figlia del Presidente del Consiglio. “Ho fame e sete di voi,” lei gli scrive e occupa il posto della Duse. Lui la chiama Nikè, allora non scarpe ma divinità greca. “Fortissima a cavallo e sgozza feroce i cervi.” Il racconto di cavalcate temerarie e ruzzoloni. L’ammira e pensa di sposarla, dal notaio si donano con atto corpo e cervello. La sua permanenza alla Capponcina dura quattro anni. Mario, il figlio maggiore di D’Annunzio, scriverà di una vacanza fatta insieme con un seguito di 15 camerieri e una quarantina di cani. Un tumore all’utero placa la favola. Spento il gran ardore al distacco prende il velo, diventa suor Maria di Gesù, carmelitana. Fonda un monastero. Orio Vergani sul “Corriere della sera” alla sua morte così titolerà: “Come è morta in convento la dama del Garda.”
Dopo Nikè è il turno della Giuseppina Mancini, Amaranta. “Io per te, tu per me.” Il resoconto è monotono: estasi, estasi… Per i rimorsi di aver tradito il marito finirà in manicomio.
Nel 1910 D’Annunzio parte per la Francia accompagnato dalla cantante russa Nathalie de Goloubeff. È una fuga per sottarsi all’assedio dei creditori. Negli anni 1905-1909 ha accumulato debiti per un milione di lire. Una cifra immensa. Rientrerà in Italia nel Maggio del 1915 “interventista”, propugnatore della prossima guerra.
Antongini rimprovera la Duse di usare con Gabriele toni aulici che non adopera neppure in teatro. Lo chiama figlietto, figlioletto, finge di essere materna invece lo sminuisce. Pimpinella, perché? Lo ridicolizza.
Nel 1900 D’Annunzio pubblica il romanzo “Il fuoco”. La protagonista è la Foscarina, un’attrice vecchia e tradita. Si grida all’autobiografia: c’è crudelmente specchiata la Duse in decadenza fisica e attanagliata dalla paura di perdere l’amato. Un coro di critiche investe l’autore in difesa della Duse. “Ingrato, infame,” gli epiteti. L’Antongini: “Storie. Il testo lo ha corretto lei.” A riprova racconta che si è opposta a togliere le rondini dalla “Francesca da Rimini”. D’altronde D’Annunzio non sempre è lirico con le donne: “Nelle vie di Vienna s’incontrano donne bionde e grasse che trascinano per il lastrico le loro groppe potenti.”
Nel 1922 D’Annunzio incontra la Duse all’Hotel Cavour di Milano. Il poeta ha perduto l’occhio destro dopo un’incursione aerea su Trieste a causa di un ammaraggio violento. Il buio obbligato della degenza gli ha suggerito il “Notturno”. Ormai è l’Eroe. Il volo su Vienna, la beffa di Buccari, l’avventura di Fiume. È stato un guerriero amante, ha trattato la guerra come una bella donna avversa con la sua consueta foga e l’ha stuprata. Per lui violare il cielo di Vienna era come andare a letto con la Giusina e il marito, Testone, nell’altra stanza. A Eleonora ha scritto che in quell’occhio vede solo lei, la sua immagine.
Questa volta è lui a recitare. Si inginocchia ma invano, per lei tutto è: “Orrore!” Ha ritrovato la fede e nel cammino spirituale la pace. Spinta dalle necessità parte ancora una volta per l’America. Anche D’Annunzio ha una spinta, si ipotizza una spinta galante, e cade dal balcone della Villa Cargnacco, il Vittoriale. Definirà l’incidente il volo dell’arcangelo.
Il mondo di D’Annunzio? Un cenacolo con lui unico commensale maschio, un gineceo affollato di vestali pronte al sacrificio. Un alveare pazzo che lui, ape regina, tiene in pugno. Nella sua galassia vagano come meteoriti i pagamenti, i debiti, i tentativi di suicidio delle cortigiane, i fischi, le folle in delirio per il Vate. Una mente eccelsa e un primordiale influencer. Il marchese Alessandro Guiccioli vocifera che mature matrone, suggestionate dalle sue prose erotiche, arrapate, infoiate, si aggirano nei boschi del lago di Albano: “vecchie ninfe con vecchi fauni.”
Due anni dopo, nell’aprile, giunge la notizia della morte della Duse a Pittsburgh. Si era imbarcata a Cherbourg, 65 anni, il respiro affannoso e il teatro dei suoi sogni lo definisce “ecatomba”. Nella sua ultima recita sfibrata dalla febbre è frettolosa: “Tagliate, tagliate!” La voce un sussurro, il mormorio di un’acqua che si asciuga. Poi si attarda in camerino, un atteggiamento insolito per lei. Gli elettricisti spengono le luci, Eleonora se ne lamenta, rimane alla luce di una candela. Sembra non voler abbandonare il teatro, forse un presagio! Il decesso cagionato da una polmonite.
“È morta quella che non meritai,” D’Annunzio. E a Mussolini chiede il rientro della “salma adorabile”. Quelli che gli sono accanto testimoniano che è più preso dagli impegni letterari che dall’evento luttuoso. Molto più occupato con la stampa delle “Faville al maglio” e della raccolta dei suoi articoli al “Corriere”. Sui giornali vasta crestomazia di “coccodrilli” in memoriam.
È l’epilogo di una grande storia d’amore forse mai esistita. La Duse e D’Annunzio erano troppo amanti di se stessi per abbassarsi ad amare un altro. Un amore, tanto favoleggiato, volatile come una poesia, una recita. Un qualcosa che ti tocca l’anima, ti grazia, e vola via. Un non fermarsi per mantenere la sua purezza, evitare contaminazioni umane.
Al solito D’Annunzio ne esce male. Personaggio alquanto sgradevole.