![Antonio Conte in panchina nella gara amichevole Germania-Italia](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/03/12924398_10153595037173831_2385207162498992361_n-310x234.jpg)
C’è qualcuno che è rimasto sorpreso dalla pessima prova della Nazionale italiana contro la Germania all’Allianz Arena di Monaco martedì scorso? Non credo. La mediocre partita disputata qualche giorno prima con la Spagna, nella quale gli Azzurri avevano raccolto un ben misero pareggio a fronte di una formazione rimaneggiata per due terzi e, comunque, conscia che il suo “siglo de oro” si è chiuso in Brasile due anni fa, aveva fatto fare i salti di gioia ai soliti noti che di calcio capiscono poco, ma quanto a compiacere il potere se ne intendono parecchio. E così, dopo il gol di Insigne, si è fatto credere che Antonio Conte (in procinto di sbarcare al Chelsea: ma dove si è visto mai che un c.t. lasci prima della conclusione di un sia pur piccolo ciclo?) avesse fatto il miracolo.
I tedeschi hanno riportato tutti con i piedi sulla terra. E ci hanno ricordato che la nostra Nazionale, probabilmente la peggiore del dopoguerra, non può funzionare semplicemente perché non dispone di giocatori in grado di competere con i migliori del mondo, manca dei fuoriclasse che facevano una volta la differenza. Può disputare qualche abbordabile gara, anche dignitosamente, ma le aspirazioni di ripetere i successi del 1982 o del 2006 non sono neppure da prendere in considerazione. In campo c’erano numerosi campioni in grado di esprimere un gioco, allora. Oggi schieriamo alcuni buoni giocatori che nelle nazionali più titolate non starebbero forse neppure in panchina, tranne qualcuno ovviamente. Se si pensa che il centravanti italiano utilizzato da Conte è soltanto il quarto nella sua squadra di club, si capisce come e perché siamo destinati a soccombere agli europei francesi ed oltre.
Il problema è che nella nostra serie maggiore non ci sono molti giocatori italiani. Si compra di tutto all’estero e non si fanno crescere i nostri ragazzi. Ma dove si vuole che la Nazionale si formi, da dove qualsivoglia c.t. dovrebbe attingere i talenti e costruire un complesso tale da poter sfidare chiunque, come non raramente è avvenuto nel passato?
Insomma, a quanti giovani e giovanissimi italiani si toglie la possibilità di mettersi in evidenza se la politica di importazione impone squadre apolidi, tra le quali spesso non risuona neppure un cognome “familiare”?
Il problema della nostra nazionale è tutto qui. Nel Campionato di serie A 2014-2015 hanno giocato 588 calciatori dei quali 309 stranieri: più del 50%, dunque, è arrivato da campionati esteri. Non diversamente nella stagione che volge al termine, con insignificanti spostamenti. Costano poco, si dice. E nella maggior parte dei casi è vero.
La Nazionale azzurra può contare al massimo su poco più di trenta calciatori di buon livello, qualcuno decisamente dotato, tra i quali tirar fuori una formazione decente, comprese le riserve. I club sembrano disinteressati ai destini della Nazionale, ogni partita in calendario diventa un dramma per i dirigenti delle società: non si dimostra, insomma, da parte del movimento calcistico italiano quell’entusiasmo che pure in un passato ormai piuttosto lontano c’è stato per la massima rappresentativa.
Conte, che ha ereditato una squadra piena di contraddizioni e priva di coesione, ha superato il turno di qualificazione agli europei non tanto agevolmente, pur non incontrando formazioni irresistibili. L’Italia è al tredicesimo posto nel ranking della FIFA dietro Germania, Argentina, Colombia, Olanda, Belgio, Brasile, Uruguay, Spagna, Francia, Svizzera, Portogallo e Cile. Non è esaltante. Soprattutto in considerazione della nostra storia con quattro Mondiali vinti.
La ricetta tedesca – che ci è tornata in mente vedendo la Germania umiliarci – potrebbe essere la soluzione. Ma non sembra che le società calcistiche italiane riconoscano la priorità della Nazionale e adeguino strutture, impianti, limitino l’accaparramento degli stranieri (ci vorrebbe una disposizione che impedisca di mandarne in campo più di un certo numero, come in altri Paesi europei) e siano disponibili ad assecondare il Commissario tecnico, quale che sia, e la Figc.
Una grande Nazionale di calcio non è soltanto un investimento sportivo, ma anche politico-comunitario. E nel football globalizzato vale la stessa verità che viene in evidenza quando si discute di economia e sovranità: gli Stati-nazione sono gli unici antidoti all’indifferenziazione, all’omologazione culturale, alla uniformità. Un calcio “differente”, espressione di una cultura che ha le sue caratteristiche e i suoi “fondamentali”, come da tempo riconosciuto, non può sottrarsi a un ripensamento radicale. Se le frontiere sono cadute, non è detto che non si possano valorizzare le risorse interne che si hanno, senza respingere nessuno, ovviamente a patto che non si privilegino brocchi che tolgano il posto a risorse nazionali soltanto per convenienza o per rifilare bidoni ai tifosi.
La Germania l’ha capito dalle sconfitte subite dopo il trionfo italiano del 1990. Immaginavamo che l’Italia lo comprendesse dopo la catastrofe in Brasile. Ci illudevamo. Le logiche mercantili sono più forti di qualsivoglia altra considerazione.
Alla fine del secolo scorso Vladimir Dimitrijevic, nel suggestivo La vita è un pallone rotondo, scriveva: «I calciatori valgono dieci, venti, cento miliardi, c’è un’inflazione che tende all’astrazione. Pochi affari sono più redditizi del calcio. I finanzieri, i procuratori, gli intermediari mica si occupano di calcio solo per passione, perché il calcio ha assunto una tale importanza mediatica che le imprese ne hanno fatto un volano pubblicitario strategico. È meglio di uno spot televisivo! Si gioca quindi per giustificare gli investimenti delle grandi multinazionali”. Oggi aggiungeremmo le ambizioni degli oligarchi russi e degli sceicchi arabi, ma non solo, a conferma di una mondializzazione finanziaria che non risparmia il calcio, così come gli altri sport del resto, e ne fa un mezzo di potere riducendolo a bene di consumo (sempre più scadente) privo dei connotati dell’appartenenza comunitaria che una volta erano ben visibili.
È infatti lontano il tempo in cui il mecenatismo calcistico era una sorta di esplicitazione del sentimento di aderenza ad un aggregato popolare che manifestava chi aveva la capacità di spendere i soldi in eccesso per soddisfare la propria passione coincidente con quella collettiva.
Temiamo che ci voglia del tempo, tanto tempo per rivedere la Nazionale azzurra che sogniamo. Le mentalità e le abitudini (soprattutto quelle cattive) non si cambiano da un giorno all’altro. Ora ci tocca temere il Belgio, primo “cliente” scomodissimo agli Europei francesi…