Ci fosse una Bauhaus del pallone, allora Gian Piero Gasperini sarebbe Walter Gropius. Uno che disegna e ridisegna il calcio con la matita, modella squadre, che adatta, aggiusta, rifinisce, cercando la perfezione, provando ad andare oltre il presente, partendo dal 3-4-3: «A metà degli anni Novanta allenavo le giovanili della Juve. Usavo il 4-3-3 ma in Italia il 90% era 4-4-2, era tutto uno scimmiottare Sacchi. In Europa invece l’Ajax era fantastico, giocava 3-4-3 e i calciatori ballavano. Dopo averli visti, mi sono stufato e mi sono messo anche io a tre dietro. I due attaccanti avversari non vedevano palla, avevamo il possesso del gioco». E quando non riesce ad avere quel possesso del gioco, cambia, come raccontò José Mourinho: «Gasperini è l’allenatore che mi ha messo più in difficoltà. Io cambiavo, lui si adattava». È come se avesse un politeismo febbrile che applica al calcio, mostrando uno spirito superiore rispetto alle sciocchezze che lo circondano e agli sciocchi che lo sporcano. Per questo, solo lui, poteva spiegare pacatamente che il tifo può anche uscire dalla volgarità ossessiva che lo governa: «posso dire che ho un concetto dei tifosi del Genoa molto più alto che di tre, quattro elementi che contestano. Io sono uno che sta male quando perde il Genoa, invece evidentemente c’è gente come Traverso, Cobra, Leopizzi, che è contenta se il Genoa perde e queste sono cose che mi fanno arrabbiare. Non posso andare ad allenare con la scorta della Polizia». Ma a Genova ha fatto anche altro – oltre a mostrare il bel gioco – inaugurando l’anno accademico con una lezione sulla simmetria dal campo di pallone alle legioni romane che partiva dalla maglia del Genoa: «Non esiste nel calcio niente di più simmetrico. Due metà perfette, una rossa e una blu. Non a caso, è la maglia più bella di tutte»; passava per la battaglia di Canne: «Una partita di calcio non è una guerra, ma anche in questo caso ci sono una fase difensiva ed una d’attacco. E dunque l’arte della guerra certamente qualcosa agli allenatori ha insegnato»; e che finiva col tradimento proprio della simmetria che è «una garanzia per difendersi ma sei vuoi vincere le partite devi attaccare, se non scompigli un po’ il campo rischi di diventare prevedibile e facilmente neutralizzabile. Io per carattere alle mie squadre chiedo di essere poco simmetriche e molto imprevedibili». E imprevedibile è il suo stare in panchina, nonostante passi per secchione e dica di ripetersi da anni: «Oltre l’80 per cento del lavoro che faccio oggi è lo stesso che facevo coi ragazzini. Cambiano solo dosi e difficoltà», si vede che quel 20% di innovazione ogni anno lo porta fuori dalla preferibilità. Possiamo dire che il suo rimpianto come calciatore – quando giocava al Pescara – fu colpire involontariamente Maradona sul labbro, e quello come allenatore – che divide con gente di lusso – è l’Inter, dove non ha avuto il tempo di passare il prevedibile perché l’imprevedibile ha preso il sopravvento e somigliava a una disfatta. Era la sua occasione, la grande squadra che non si aspettava – lui voleva la Juventus, dove è cresciuto –, in mezzo può raccontare di aver trovato il posto che tutti cerchiamo e che ci rende speciali. Anche a Palermo non è andata bene, ma brucia di meno. Sembra che lontano da Genova, il gasperinisimo non funzioni, e venga aggredito da grossolanità, avversato, non creduto e soprattutto non aspettato. La difesa a tre diventa un onanismo calcistico, il suo chiedere di pressare sempre una ossessione effimera. E il Genoa, una squadra lontanissima, dove ha creato gioco, estetica e ali offensive che, quasi per una legge fisica, lasciata la maglia del Genoa non funzionano, o comunque in assenza dell’architetto Gasperini perdono geometria, forza, velocità; durante le due parabole gasperiniane, abbiamo visto apparire e sparire Giuseppe Sculli, Rodrigo Palacio, Iago Falque e Diego Perotti – prima devono imparare a difendere. Ora Cerci si è sottoposto alla cura nella speranza di ritrovar se stesso. Perché Gasperini è così: un rigeneratore prima ancora di essere un creatore. «Gasperini è stato il mio maestro. All’inizio non è stato facile, giocavo da esterno e non mi piaceva. Poi mi ha insegnato a marcare meglio, a correre sulla fascia e poi attaccare. Tutte cose che non avevo mai fatto in carriera», dice Rodrigo Palacio. Tutta l’architettura calcistica di Gasperini passa per l’esterno. È dall’esterno che costruisce squadre e giocate, azioni e vittorie. «Col pressing che ti impone di uscire dalla propria linea difensiva per andare a caccia del pallone. Un allenatore deve fare delle scelte: aspettare il nemico chiuso dentro il castello oppure uscire con un’azione di disturbo e poi rientrare velocemente dentro le mura. Io dico sempre che se sai difendere non perdi, ma per vincere bisogna attaccare», ovviamente dall’ultima frase si capisce che ha letto “L’arte della guerra” di Sun Tzu: «un libro sulla guerra, ma anche qualcosa in più. Interpretando questa filosofia orientale ci si accorge subito che insegna ad affrontare le situazioni della vita di tutti i giorni e pure, spesso, quelle che offre una squadra di calcio». Quando era al Crotone in serie B, proprio queste competenze tattico-guerriere lo portarono a insegnare nel corso per allenatori della FIGC. Nessuno mette in dubbio il suo metodo, il suo modulo, e la sua grandezza, ed è quasi sempre bello da vedere il suo Genoa, anche quando perde. Però è costretto a sfuggire dal pregiudizio che il suo mondo cominci e finisca al Luigi Ferraris.