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Barbadillo
Home Foglie e pietre

Da Lawrence d’Arabia al bluff della Primavera araba: intervista con Franco Cardini

by George Best
22 Febbraio 2012
in Foglie e pietre
0

La presenza del professor Franco Cardini al Politecnico di Torino è un ottimo motivo per oltrepassare la soglia di quello che fino a pochi mesi fa è stato il regno dell’attuale ministro montiano Francesco Profumo, ex rettore del secondo ateneo subalpino. Ma cosa ci fa un tipo poco conformista come Cardini nella tana dei tecnocrati in loden verde? Parla di Lawrence d’Arabia (di cui ha scritto una biografia), di rapporti con la “quarta sponda” del Mediterraneo, di relazioni con la cultura arabo-islamica, di storia, di rivolte e di sogni. Niente spread? Né debito pubblico, crisi dell’euro o riforma dell’articolo 18? Okay, allora vale la pena di penetrare nell’antro dei tecnocrati filo-bancari e di stare ad ascoltare il saggio professore fiorentino. Anzi, magari di fargli anche un paio di domande.

Ma chi era davvero questo Lawrence: un eroe, come ce lo ha presentato Hollywood, oppure una spia inglese, o ancora un traditore, come sostengono gli arabi?

«Come sempre accade il cinema banalizza, però a volte è utile. Che nella guerra civile americana i nordisti non fossero quei campioni di tolleranza e democrazia che ci hanno presentato nei libri di storia, molti l’hanno scoperto vedendo “Via col vento”.  Anche nel caso di Lawrence Hollywood ha un po’ ritoccato la sua figura, oltre a migliorarla da un punto di vista estetico: il vero Lawrence era molto meno bello di Peter O’Toole, sembrava un cammello… Però lo ha reso famoso e lo ha descritto in modo abbastanza fedele. Non è vero che sia stato un traditore della causa araba: ha svolto fino in fondo il suo ruolo di agente segreto, servendo il suo Paese, però ha anche aderito in buona fede alla ribellione delle tribù arabe e alla fine possiamo dire che è rimasto vittima dei suoi sogni».

C’è persino chi lo considera una specie di Che Guevara ante litteram.

«Anche questo ci può stare. Non era uno sprovveduto, conosceva la natura intrinsecamente imperialista del suo governo, ma era un idealista e sperava davvero di poter contribuire alla nascita di uno Stato arabo unito e moderno, magari all’interno del Commonwealth. Alla fine si è rivelato un avventuriero ottocentesco e se dobbiamo fargli un appunto è di esser stato, caso mai, troppo poco realista».

Ha ancora senso parlare di Lawrence d’Arabia, a quasi cent’anni dalla sua impresa e a 77 dalla sua morte misteriosa?

«Perché no? Anche dopo un secolo i rapporti fra l’Europa e il vicino Oriente sono rimasti poco chiari, tutto per colpa della cattiva pace di Versailles, che fra le tante cose negative ci ha regalato anche un’area a sud del Mediterraneo ingovernabile. I risultati della politica demenziale di Francia e Gran Bretagna dopo la Prima guerra mondiale  li vediamo ancor oggi».

Ritorna di moda la teoria dello «scontro di civiltà»?

«Al contrario. Dal mio punto di vista, invece, si ripresenta l’occasione per riallacciare un dialogo con l’altra sponda del Mediterraneo, soprattutto con il mondo arabo. È il momento di domandarci se esistono punti di contatto e valori condivisi, oppure se dobbiamo rassegnarci alla reciproca volontà di sopraffazione. Io sostengo che il Mediterraneo è come un grosso lago e che tra gli abitanti delle due sponde ci sono più affinità che non fra un siciliano e uno svedese. Ma io direi anche fra un milanese e uno svedese».

Le «primavere arabe» faciliteranno questo dialogo?

«Le “primavere arabe” sono una fregatura. O per meglio dire, sono un’etichetta fasulla adottata dai nostri mass-media per descrivere un fenomeno che stentano a comprendere. Certo, tunisini, libici ed egiziani hanno voluto abbattere i loro tiranni, ottusi e corrotti, ma solo un ingenuo poteva pensare che lo facessero in nome della liberal-democrazia occidentale. Il solito vizio di applicare a tutto categorie e modelli occidentali, salvo poi stupirsi se alle elezioni vincono i partiti legati al fondamentalismo islamico. E allora, davanti alla complessità, si reagisce con solito il riflesso condizionato, la sindrome della lavagna: di qua i buoni, di là i cattivi. Di qui gli studenti filo-occidentali, di là i cattivi sunniti e gli ancor più cattivi salafiti. Fra l’altro non si è ancora capito che queste ribellioni hanno abbattuto governi molto più filo-occidentali di quelli che li hanno seguiti».

Ci saranno altre rivolte nel mondo islamico?

«Ci sono state, ma in molti casi sono state soffocate e in Occidente non si è detto nulla. Sui nostri mass-media si parla solo di Siria, con informazioni non soltanto frammentarie, ma il più delle volte anonime e provenienti dalla cosiddetta opposizione, cui si dà credito assoluto. Invece non ci si è mai occupati delle ribellioni represse in Algeria, Yemen e Bahrein, dove l’Arabia Saudita, alleata dei governi occidentali, ha avuto un peso fondamentale».

Nelle ultime settimane l’attenzione si è spostata sulle tensioni Israele-Iran…

«Già, ma certe cose sui giornali non si possono scrivere. Ad esempio che a dar fastidio in realtà non è che Teheran si possa costruire una bomba atomica, ipotesi piuttosto improbabile, ma che sia diventato il terzo fornitore di petrolio alla Cina. Così come non si dice che gli Stati Uniti e Israele stanno cercando di far salire la tensione nell’area del Golfo Persico usando la solita vecchia tattica: quando si vuole aggredire un Paese lo si logora e lo si esaspera con manovre di vario tipo – diplomatiche, economiche, militari – fino a provocarne una reazione. Così si ha l’alibi per fargli guerra. Gli Usa lo fanno da tempo, cominciarono nel 1894 con Cuba, quando era ancora una colonia spagnola, e poi hanno proseguito nel corso del Novecento. La loro intenzione è di provocare la chiusura dello Stretto di Hormuz, per avere il pretesto di intervenire. Ma forse non si rendono conto che l’Iran non è un piccolo Paese come l’Iraq e l’Afghanistan. E soprattutto che dietro a Teheran stanno la Russia e la Cina, qui si rischia davvero la Terza guerra mondiale».

George Best

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