(A cinque anni dalla scomparsa, Barbadillo ricorda Giano Accame, scrittore e giornalista, intellettuale eretico secondo la definizione di Drieu e soprattutto maestro di carattere per generazioni e generazioni di giovani cresciuti con il sogno di un patriottismo senza nostalgie. Riproponiamo l’intervista che Accame rilasciò a Claudio Sabelli Fioretti sul magazine del Corriere della Sera, “Sette”, il 26 febbraio 2004: un documento di dieci anni fa, dal quale emergono nitide le cause della crisi di rappresentanza dell’area postfascista italiana. mdf)
Quando Gianfranco Fini, segretario di An, a Gerusalemme ha detto che la Repubblica Sociale di Salò era il Male Assoluto, Giano Accame, intellettuale «storico» della destra italiana, ex direttore del Secolo d’Italia, è stato uno dei più violenti a reagire. Al convegno organizzato da Storace all’Hotel Hilton di Roma ha detto che il grosso problema di Fini è l’intelligenza che gli manca. Accame, uno dei pochi esponenti della destra stimato dagli intellettuali della sinistra, è ormai un vecchio signore fuori dai giochi politici (fu anche braccio destro di Randolfo Pacciardi nell’effimero movimento di Nuova Repubblica). Dalla sua bella casa affacciata sul Tevere, manda articoli e saggi a quotidiani e riviste di area concedendosi ogni tanto a qualche comparsata televisiva. Rispetto ai tempi in cui, da eretico e da anarchico, combatteva la sua battaglia a destra (giovanissimo, partì volontario repubblichino proprio l’ultimo giorno di guerra) ha attenuato la sua militanza politica. Ma sulla svolta di Gerusalemme si infiamma. Mi dice: «Sei davanti al Male Assoluto».
Male Assoluto per un giorno solo.
«Solo il 25 aprile del 1945».
Agli sgoccioli.
«Ero un ragazzino obbediente. Avevo concordato con i miei di partire finita la seconda liceo, a giugno. Ma le cose precipitavano e preso dall’angoscia che la guerra finisse prima di potervi partecipare, partii, proprio il 25 aprile. Mio padre non si oppose. Anche lui era rimasto amareggiato per non essere arrivato a tempo a prendere parte alla prima guerra mondiale».
Che cosa hai fatto quel giorno?
«Ho tentato di andare da Brescia a Milano su una Topolino. Mi hanno arrestato subito».
Quanto è durata la prigionia?
«Una dozzina di giorni. Poi sono scappato».
Avventuroso.
«Mah, diciamo che durante un trasferimento, nella confusione, me ne sono andato. E nessuno mi è corso dietro».
Non è stata una grande esperienza di guerra.
«Ho sparato un caricatore, visto che tutti sparavano, non sapevo bene a chi».
Bravo a salire sul carro del perdente.
«Volevo partecipare al canto del cigno, alla fine eroica della Repubblica Sociale».
Eri fascista anche da ragazzino?
«Sono stato balilla e avanguardista, ma non mi sentivo molto fascista fino all’otto settembre, quando ho visto il tradimento, la gente che si rallegrava per la sconfitta».
La fine di una dittatura è un sollievo.
«Ma non si può gioire per la sconfitta. Noi avevamo sentito, sui banchi delle elementari, che il Duce ci aveva dato un impero, che dovevamo tornare, un po’ come gli antichi romani, ad essere importanti. Da ragazzini noi amavamo la guerra e aspettavamo il momento di dimostrare il nostro valore».
Fini non ti piace più.
«Un tempo dicevo di lui: “Fini non sa un cazzo ma lo dice benissimo”».
In fondo la destra ha fatto quello che aveva già fatto la sinistra.
«La destra dalla storia e dal passato trae vantaggi anche elettorali. Nel bagaglio dei ricordi le famiglie si tramandano rancori, dolori, orgogli, anche errori da riconoscere. Adesso che cosa è Fini? Un trovatello della storia».
Ha avuto la sua convenienza.
«È come dire: ho scaricato quella vecchia matta di mia madre, ma acchiappo altrove una mezza dozzina di vecchiette più ragionevoli. Il calcolo elettorale è ripugnante».
Anche la sinistra ha rinnegato i suoi padri.
«Non mi piace un’Italia che si rinnovi attraverso i rinnegamenti e una destra che incalza la sinistra vantandosi: noi abbiamo rinnegato più di voi. Rischiamo di diventare un popolo di rinnegati. Chi rinnega la Dc, chi Craxi. Indecente».
Chi è voltagabbana a sinistra?
«Quelli che erano iscritti al Pci ma dicono che non sono mai stati comunisti. Quelli alla Veltroni che fanno i congressi con gli slogan americani, I care, e fanno venire a cantare Sting, in un Paese dove la sinistra ha un patrimonio sconfinato di cantautori».
Dopo la guerra molti fascisti scomparvero e ricomparvero nelle fila della sinistra.
«Ricordo il mio maestro di quinta. Lo adoravo. Era ufficiale della milizia. Finì prigioniero negli Stati Uniti. Lo rincontrai antifascista e pieno di rancore contro chi lo aveva portato alla sconfitta. Voltagabbana erano anche tutti quegli intellettuali che pigliavano soldi dal ministero della Cultura Popolare e poi, nei quarantacinque giorni di Badoglio, si riciclarono velocemente. Venivano chiamati “i canguri giganti”. Col tempo però ho capito la dignità e le motivazioni del cambiare idea. Se ti ha affascinato un partito che nasce dalla vittoria ma ti porta alla sconfitta, hai diritto di voltargli le spalle e cercare altre soluzioni».
Un nome di voltagabbana?
«Qualcuno considera voltagabbana Dini. Ma lì c’è la presunzione del banchiere di essere al di sopra di qualunque posizione partitica».
La presunzione del banchiere?
«Nei momenti di crisi spesso ci si rivolge ai militari. In Italia ci si è rivolti ai banchieri. Sono tanti i banchieri chiamati in politica senza aver mai preso un voto. Rainer Masera, Piero Barucci, Paolo Baratta, Paolo Savona. Almeno Dini poi si è fatto eleggere. Ma Ciampi no. Questo è il vero voltagabbanesimo della sinistra: aver messo negli anni Novanta il Paese nelle mani dei banchieri che vediamo adesso, con il caso Parmalat, che razza di imbecilli sono».
Banche e comunismo.
«Un esempio di voltagabbana? Massimo D’Alema. Senza cambiare partito, ha cambiato concezione di vita. Pensa al servizio fotografico sulla sua barca. Lui che è arrogante di natura, spocchioso, primo della classe, con quelle foto voleva accreditarsi di fronte ai padroni, mostrarsi tranquillizzante, proprio come uno di loro».
Che cosa pensi dell’adulazione?
«È pericolosa e insidiosa. Pensa alle recenti lodi che hanno sommerso Fini. Un mio amico, Antonio Pantano, grande cultore di Ezra Pound, dice che ormai il suo nome va pronunciato alla francese, “Finì”, finito, seppellito dalle lodi degli avversari».
Alla festa di Forza Italia c’era adulazione?
«Come in tutte le grandi convention di vendita. Dove si premia chi ha ottenuto i maggiori profitti. Marketing».
E quando Berlusconi faceva quelle domande retoriche a cui tutti quanti dovevano rispondere sì o no?
«Era la parodia del discorso alle folle di Mussolini dal balcone di piazza Venezia».
Gli intellettuali di destra sono sempre stati poco organici rispetto al Msi. Cardini, Tarchi, Veneziani, Gianfranceschi, De Turris, Lanna, Guerri. Tutti eretici, tutti anarchici.
«Alcuni sono stati trattati male. Marco Tarchi, per esempio, divenne anarchico per offesa ricevuta. Vinse il congresso giovanile e Almirante fece segretario nazionale Fini che era arrivato quarto».
In compenso sono corteggiati dalla sinistra. Come Veneziani.
«È il più produttivo, dotato e scrive cose intelligenti. È il Prezzolini della nuova generazione».
Aveva ragione Donna Assunta Almirante quando diceva che Fini era un vassallo di Berlusconi?
«No. Una volta Fini era l’alleato imbarazzante nel Polo. Oggi imbarazzanti sono Berlusconi e Bossi mentre lui rappresenta la parte ragionevole e si sbraccia per farlo notare. Aver rovesciato questo pregiudizio è stato un grande successo. E anche il personale politico di An è di buon livello: Alemanno, Urso, Matteoli, Storace».
Una volta dicevi: dietro Fini ci sono dei miracolati, dei colonnelli che sembrano caporali, gente che non legge… Ti riferivi proprio a Storace, a La Russa, a Gasparri.
«Era un giudizio forse eccessivo».
Di Gasparri dicono che non legge nemmeno le leggi che scrive.
«Sì, i maligni dicono che la legge sulla tv gliel’ha consegnata l’ufficio legale di Berlusconi. Però Gasparri è un grande lavoratore, un culo di piombo. Mentre Fini è pigro, si stanca facilmente».
Raccontami la tua giovinezza.
«Madre tedesca, padre ufficiale di marina. Infanzia a Monfalcone. Scuole quasi tutte alla Spezia. Poi Spalato».
Ricordi qualche amico?
«Il mio compagno di banco di Spalato, Enzo Bettiza. Ma lui non ricorda me. Mi ha rimosso. Si è costruito uno scenario alla Buddenbrock, con la sua straordinaria famiglia circondata da uno stuolo di servitori croati, bosniaci e serbi. In questo scenario io non ci sto e lui ha dimenticato anche quando lo andavo a trovare nella sua cameretta da ammalato».
Il tuo mito?
«La decima Mas».
Le canzoni?
«Vieni, c’è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu. E poi tutte le canzoni patriottiche. Tranne Vincere che portava jella».
La carriera politica?
«Ho fondato la sezione di Loano del Fronte degli Italiani, una formazione antecedente al Msi. Dopo un paio di mesi confluimmo nel Msi».
Poi la politica universitaria a Milano.
«Il Fuan. A Roma si chiamava Caravella, a Milano Carroccio. Erano tempi in cui destra e sinistra si parlavano. I comunisti ci invitavano ai loro convegni. A Roma Rauti parlava con Berlinguer. Io incontrai il figlio di Longo. Ricordo anche una bella ragazza, Lu Leone».
Poi arriva il ’68.
«Ruppi col Borghese proprio per questo. Eravamo contro il sistema ben prima del movimento studentesco. Molti dei nostri ragazzi si avvicinarono alla contestazione. Io capivo meglio questo fenomeno perché avevo aderito a Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi dove erano molto forti gli universitari di Primula Goliardica, Enzo Maria Dantini, Franco Papitto, Franco Oliva».
Con voi c’era anche Baget Bozzo.
«Sì. Disse che la Madonna lo aveva mandato da noi».
In Forza Italia l’ha mandato lo Spirito Santo.
«Don Gianni è un grande cappellano di corte portato ogni volta a sinceri e sconfinati entusiasmi».
Quando vennero fuori i documenti del «golpe bianco» di Sogno tu risultasti ministro della Pubblica Istruzione.
«Vanterie di una persona anziana che voleva stupire. Sogno era intelligente, simpatico, coraggioso. Ma era il birichino di mammà».
Il governo del golpe bianco esisteva o no?
«Secondo l’elenco di Sogno c’erano quelli informati del golpe, come Pacciardi e Brosio, che guarda caso erano tutti morti. Poi quelli ancora viventi che si supponeva avrebbero aderito, ma non ne sapevano niente, segnati con l’asterischetto».
Tu eri con l’asterischetto?
«Certo. Ma non mi dava fastidio essere indicato come golpista. Semmai mi seccò essere indicato come ministro della Pubblica Istruzione e non degli Interni».
Hai mai sognato un golpe?
«Una certa spinta poteva anche avvenire. Ma Pacciardi sosteneva sempre che non ci si può sedere sulle baionette. E quindi offriva a un’eventuale iniziativa militare una soluzione politica. Tipo De Gaulle, e non come Praga o il Cile».
Ne parlavate?
«Certo che ne parlavamo. Dovevamo in continuazione difenderci dalle accuse di golpismo. Il sistema partitocratico aveva paura di Pacciardi perché rompeva dal di dentro. Era stato il miglior ministro della Difesa e godeva di grande prestigio negli ambienti militari».
Avete mai pensato seriamente a un golpe?
«Siamo stati molto più impegnati a difenderci dalle accuse».
Diciamo 90 per cento a difendervi e 10 per cento a pensarci?
«Odio i velleitarismi. Uno le cose le fa oppure non se ne vanta».
Ma voi ci pensavate?
«Non l’abbiamo fatto».
Sei un’anguilla. Non l’avete fatto solo perché non eravate in grado? Oppure eravate contrari?
«Eravamo contrari ad essere accusati per queste cose».
Insomma non mi vuoi rispondere.
«No».
Tu vieni definito terzomondista, anticapitalista, antiamericano. Dovresti iscriverti a Rifondazione Comunista.
«Sono solo venature».
Sei antiamericano?
«No. Ma mi dispiace che ci abbiano battuti. E che adesso pretendano di rifare l’impero romano. Trovo Bush persino fisicamente ridicolo. Quando si muove sembra un cow boy uscito da Mezzogiorno di fuoco. Il fatto che piaccia agli americani mi fa temere per le sorti del genere umano».
Da qualche settimana facciamo il gioco del governo trasversale. Chi prenderesti di sinistra?
«Gianni Borgna, assessore alla cultura qui a Roma. Lo farei ministro della Pubblica Istruzione. Fausto Bertinotti anche se è così retrò nel suo antifascismo. È un soldatino che combatte ancora battaglie vinte sessant’anni fa e fa di tutto per piacere alle signore. Ministro del Lavoro».
Come dare benzina a un pompiere.
«Quando vanno al governo si moderano, diventano responsabili. Giampiero Mughini, ministro dello Sport. È juventino fazioso, ma in fondo è buono. Massimo Cacciari. È stato il primo a sinistra a parlare bene di me. Pochi in Italia conoscono come lui la cultura tedesca di destra. Ministro dei rapporti con l’Europa. E alla Difesa Marco Minniti, che mi ha confessato la sua emozione perché da sottosegretario all’Aeronautica usava l’ufficio di Italo Balbo».
Il saluto romano, chiamarsi camerata, la camicia nera, il pellegrinaggio a Predappio. Come sei messo con queste cose?
«La fedeltà è come la verginità. A vent’anni può avere un sapore. Sessant’anni dopo un po’ meno. Le testimonianze di fedeltà si esauriscono coi ricambi di generazione. Ma il fascismo è stato un periodo di una creatività tale che ti fa anche sopportare il ridicolo di alcuni riti».
Vi chiamate ancora camerata fra voi?
«Qualche volta».
La camicia nera ce l’hai?
«L’ho comprata tre anni fa».
Perché?
«Tutti hanno una camicia nera».
Il saluto romano?
«Ai tempi l’ho fatto. Ora non più».
Sei andato a Predappio?
«Molti anni fa. Ecco, se dovessi tornare a Predappio farei il saluto romano».
Con la camicia nera?
«No. Per pudore».
Facciamo il gioco della torre. Vespa o Costanzo?
«Butto Vespa. Se uno cerca l’immagine del cortigiano di regime, eccolo, è lui. Un vero adulatore. Di chiunque conti. È uno che sa misurare chi sale e chi scende».
Bossi o Fini?
«Bossi, che voleva usare la bandiera come carta igienica».
Gasparri o La Russa?
«Gasparri è talmente antipatico che per buttarlo giù c’è la fila. Allora butto La Russa».
Perché?
«Per il suo accanimento contro la grazia a Sofri e contro l’indulto. Chi ha fatto parte di una destra perseguitata dovrebbe aver maturato maggior comprensione per i vinti, per chi sta in prigione».
Fassino o D’Alema?
«Fassino mi sembra un po’ troppo cortigiano verso la Fiat e i poteri forti».
Feltri o Belpietro?
«Feltri carica troppo le dosi in un periodo di passioni spente. Crede di essere ancora al 18 aprile del 1948».
Mussolini o Santanché?
«Butto subito la Santanché».
Fascismo salottiero?
«Solo sguaiato esibizionismo mondano. Di questo passo La Russa candiderà per An anche Marta Marzotto».
Se uno non ti conoscesse e ti sentisse solo parlare, capirebbe che sei di destra?
«Una sera ero a cena da Mughini. C’erano Paolo Mieli, Fiamma Nierenstein, Andrea Marcenaro e sua moglie Franca Fossati. La Fossati commentò con il marito: “Bravo quel compagno!” Sembra a volte che gli estremi si tocchino».
Come voterai alle prossime elezioni?
«Quando ho votato (non sempre) ho votato per i camerati. Ma Fini il mio voto se lo sogna».