Se non avesse incontrato una maledetta pallottola vagante laggiù, in Mozambico, oggi avrebbe compiuto sessant’anni. E probabilmente sarebbe stato in giro per il mondo con un taccuino, una videocamera e una macchina fotografica. Difficile immaginare Almerigo Grilz dietro una scrivania… Il reportage di guerra era diventato il suo lavoro, ma rimaneva soprattutto una grande passione.
Nato a Trieste l’11 aprile del 1953, militante e dirigente del locale Fronte della Gioventù e dell’Msi, nonché consigliere comunale triestino e vicesegretario del FdG nazionale, Almerigo muove i suoi primi passi da giornalista sul quindicinale Dissenso, organo del Fronte della Gioventù. Quella che inizialmente era nata come una naturale conseguenze della sua passione politica, pian piano si trasforma in una professione. Una professione, anche in questo caso, fuori dal coro. Perché sui giornali “normali” non c’è posto per un reporter free-lance fascista, anche se bravo e coraggioso.
Grilz infatti ama documentare le guerre dimenticate, quelle trascurate dai giornali e dalle televisioni italiane, in Paesi lontani dove gli inviati a cinque stelle non mettono neanche piede. Con due amici-camerati della sezione triestina del FdG, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fonda nel 1983 la Albatross Press Agency, un’agenzia di stampa specializzata in reportage giornalistici scritti, fotografati e filmati dai fronti caldi di mezzo mondo: Libano, Afghanistan, Iran, Iraq, Cambogia, Etiopia, Filippine, Angola. «Per raccogliere il primo gruzzolo e partire per l’Afghanistan, invaso dai sovietici – racconta Biloslavo – Almerigo vendeva libri di Ciarrapico, Gian trasportava carta igienica ed io alzavo la sbarra d’ingresso in un campeggio a Grado. Il nostro inno divenne ben presto “Vita spericolata” di Vasco Rossi».
Almerigo Grilz è sempre in prima linea. Con macchina fotografica e videocamera documenta l’orrore delle guerre civili, le crudeltà delle battaglie che nessuno vede, il pugno di ferro dell’imperialismo sovietico. Ma anche singoli atti di eroismo, la speranza di chi non si arrende, la solidarietà. In Italia è semi sconosciuto, così come la sua agenzia giornalistica, ma all’estero Grilz comincia a farsi un nome. Acquistano i suoi reportage le reti americaneCbs e Nbc, la televisione statale tedesca, il Sunday Times, l’Express. Da noi l’Albatross fa fatica a ottenere contratti: il marchio di fascista pesa ancora troppo. Solo il Tg1, Panoramae soprattutto il settimanale ciellino Il Sabato rompono in fronte “antifascista”.
Nella tarda primavera del 1987 parte per il suo ultimo reportage. Il 19 maggio un proiettile vagante lo colpisce in Mozambico, mentre sta filmando uno scontro a fuoco fra i ribelli della Renamo e le forze governative. E’ il primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma sui giornali la notizia viene data in scarni trafiletti. C’è persino chi aggiunge infamia all’indifferenza: «Ucciso un mercenario» titola un quotidiano di sinistra, mentre altri insinuano che si tratti di una spia o di un mercante d’armi. Aveva 34 anni e secondo le sue volontà viene sepolto in Mozambico. Quindici anni più tardi l’amico Micalessin realizzerà un documentario filmato sui luoghi della sua morte, montando, insieme alle sue, proprio le immagini girate da Almerigo fino all’istante stesso della morte.
Il suo nome è inciso sul monumento che Reporters sans frontières ha voluto dedicare a tutti i giornalisti caduti sul campo sulle spiagge della Normandia, dove il mitico fotografo Robert Capa sbarcò nel 1944 con la prima ondata di truppe alleate. E la sua Trieste gli ha dedicato una via sul lungomare cittadino. Ma non c’è posto per il nome di Grilz sulla facciata del palazzo che ospita la sede dell’Ordine dei giornalisti e dell’Associazione della stampa di Trieste, dove sono collocate le lapidi che ricordano i giornalisti giuliani caduti nell’esercizio della loro professione: Marco Luchetta, Sasha Ota e Dario D’Angelo, della Rai, morti a Mostar durante la guerra civile nell’ex Jugoslavia; e Miran Hrovatin, ammazzato a Mogadiscio assieme a Ilaria Alpi.
Lo denunciava, in un lungo articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano del 19 maggio 2007, proprio Fausto Biloslavo, che di Grilz fu amico, collega e “camerata”. «Nonostante le ripetute richieste, dei suoi amici e colleghi, l’ultima in occasione del ventennale (della morte, ndr) – scrive Biloslavo – non c’è verso di aggiungere una targa per Almerigo, il giornalista dimenticato. Nel 2002 il Comune di Trieste, conquistato dal centrodestra, gli dedicò una via sollevando la levata di scudi del quotidiano locale e di tanti benpensanti. A vent’anni dalla sua morte, solo l’Ordine dei giornalisti sembra aver iniziato a passare il guado, con un timido patrocinio delle iniziative che ricordano Grilz, come “Gli occhi della guerra”. La targa, però, è un tabù difeso a spada tratta dal sindacato unico dei giornalisti, che in passato riuscì a giustificare il suo niet sostenendo che una nuova lapide renderebbe la facciata dello stabile una sorta di orto lapidario».
Insomma, sulla facciata della sede dei giornalisti triestini non c’è posto per Almerigo Grilz. Neanche da morto. Fuori dal coro anche in memoriam, verrebbe da dire. Forse non gli sarebbe spiaciuto poi tanto, visto che “Ruga” – come lo chiamavano gli amici – ha sempre amato remare controcorrente.