Iniziamo subito con lo spoiler: Southpaw finisce esattamente come tutti si aspettano che finisca. Peccato, perché alcuni momenti forti e molti (forse troppi) momenti sopra le righe avrebbero potuto costruire un finale diverso e colmo significato. Invece, tutto come previsto: basta questo a rendere mediocre un film che non si discosta di una virgola dalla tradizione dei film sulla boxe. Partendo dalla classica struttura “sconfitta/caduta – redenzione/vittoria”.
Hope, il pugile scemo interpretato dal bravo Jake Gyllenhaal, è campione del mondo, ma cade in un angoscioso vortice autodistruttivo dopo la morte dell’adorata moglie, l’ottima Rachel McAdams, colpita da un proiettile vagante durante una lite. Dopo la moglie, Hope perde lavoro, soldi, manager, amici, casa, affidamento della figlia e finisce a pulire i gabinetti in una palestra di periferia. Il tutto, parrebbe, in poche settimane. Da questa tempesta di sfighe e buchi narrativi il lottatore infine riemerge, fino alla prevedibilissima vittoria nell’incontro finale contro l’antipatico antagonista. Ma è qui che si poteva e si doveva fare una scelta coraggiosa: far perdere il buono, ma scemo, in un incontro truccato. Dando così una vera lezione a tutti. Perché? Anzitutto perché non si può per tutto un film raccontare quanto marcio e corrotto sia il mondo dello sport-intrattenimento e poi finire a tarallucci e vino. Quanto immensamente superiore sarebbe stato, in termini di realismo e significato etico, un pugile sconfitto dalla corruzione, ma felice? Non più un fenomeno da baraccone, ma un uomo maturo. Un padre che comprende la falsità del mondo nel quale ha vissuto e che anche perdendo ne ricava ciò che realmente conta per lui, ovvero il denaro per vivere dignitosamente assieme alla figlia. Questa è la vera vittoria, non un pataccone da campione del mondo di un sistema corrotto.
Ma il vero fallimento del film sta nel voler far passare per cruda epica popolare una storia che è in realtà ultraborghese. Come ogni storia di redenzione hollywoodiana, nella quale l’outsider-povero-sfigato diventa un insider-ricco-campione. Il significato sotteso a ognuno di questi racconti è: tutti, anche i campioni, possono essere o diventare degli outsider e tutti gli outsider possono diventare ricchi e famosi (per un po’) a patto che rispettino le regole e seguano le procedure dello status quo. Un pugile di periferia, un uomo del popolo, un affaticato e sfruttato, dovrebbe incazzarsi nel vedere film del genere.
Lo sfigato-estromesso-povero che alla fine vince non è infatti la celebrazione degli sfigati-estromessi-poveri, ma l’autocelebrazione di un establishment che sembra dire “vedi, tutti hanno una possibilità: se resti sfigato è colpa tua“, con ciò autoassolvendosi ed evitando di fornire reali opportunità.
Nell’America vera Hope sarebbe finito pieno di droga in un cassonetto. Senza valore perché senza soldi, white trash, sarebbe stato vampirizzato dai media entusiasti di celebrarne l’autodistruzione e infine dimenticato. Il vero eroe popolare invece avrebbe perso l’incontro finale, anzi avrebbe preteso di perderlo, l’avrebbe perso apposta, perché truccato. L’avrebbe saputo fin dal principio, o si sarebbe comunque prestato alla truffa, ma avrebbe almeno potuto dire: “Io non vi appartengo. Non mi interessate voi, ladri e sfruttatori. Mi interessano solo i vostri soldi: ora che vi ho fregati tutti, andate al diavolo.”
Invece no. Hope, vincendo, si presta a diventare l’outsider che ce l’ha fatta (quel giorno e per quel giorno), ovvero il manifesto pubblicitario del sistema che l’aveva sfruttato e abbattuto, una bella storia da raccontare che però copre le storie di quelli veri¸che non ce la faranno mai, quelli che non hanno mai avuto una possibilità. Il gioco è semplice, crudele ed efficace: premiarne (per finta) uno, per convincerne un milione a omologarsi e arrendersi.