Quando si tratta di affrontare l’opera letteraria di Ernst Junger, morto nel 1998 a quasi 103 anni dopo aver passato in rassegna “a cuore avventuroso” il secolo più pericoloso, le muraglie salgono, inespugnabili al chiacchiericcio mondano degli scribacchini di regime e dei loro mediocri lettori. Fortificazioni necessarie, forse inevitabili nell’ottica di eludere il tritacarne culturale contemporaneo, il ripetitore martellante che ci dona così magnanimo null’altro che scarti liofilizzati di pensiero. Intellettuale soldato – meglio sarebbe definirlo “cavaliere moderno” – rivoluzionario e conservatore, Junger è sommariamente conosciuto per due libri discretamente distribuiti, ovvero Nelle tempeste d’acciaio (1920), edito come molti altri volumi da Guanda, e Il trattato del ribelle (1952), pubblicato da Adelphi con elegante copertina pastello azzurra. Testi d’indubbio valore, per altro funzionali nel delineare la figura dell’Anarca – e non dell’anarchico, sottigliezze fondamentali – attraverso l’esposizione di due aspetti peculiari, apparentemente contrapposti ed inconciliabili; da un lato l’elitario senso di disciplina del combattente calato nelle trincee della prima guerra mondiale, così intriso di valori tradizionali ancora cavallereschi, mentre dall’altro la vocazione ribelle fortemente individualista, tesa a prendere “la via del bosco”, ovvero l’abbandono della livellante mondanità tecnocratica. Tra questi due cardini resta sullo sfondo come convitato di pietra, il punto zero raggiunto dalla civiltà europea, il teatro meccanico/apocalittico del secondo conflitto mondiale.
Dalla cospicua produzione letteraria del pensatore tedesco, per altro estremamente eclettica, emerge una sottile filigrana, un tratto peculiare in grado di collegare fra loro alcuni episodi letterari forse poco noti al grande pubblico, certamente meno letti rispetto ai due esempi citati in precedenza. Trattiamo quindi di Heliopolis (1949), Le api di vetro (1957) ed Eumeswil (1977), facendoli risalire per linea diretta al capolavoro iconico ed esoterico di Junger, Sulle scogliere di marmo (1939). Qui, accanto all’incantata descrizione di un microcosmo “mediterraneo” situato nella Marina e detto Eremo della Ruta, si palesa la nera nube minacciosa, il cinereo velo, lo stendardo lugubre del Forestaro. Scrive Quirino Principe, al quale queste riflessioni sono debitrici, nell’introduzione al testo: “Bello, nobile, prezioso è tutto ciò che è piccolo, racchiuso nel minimo spazio: il diamante, la sfaccettatura della gemma, la venatura della foglia, la macchia sulle elitre di un insetto”, con ciò cogliendo perfettamente l’ambivalenza della poetica jungeriana; quell’affascinante dialettica imbastita fra elementi scientifici, tecnici e futuristici (pensiamo a Metropolis di Fritz Lang come calzante richiamo cinematografico) declinati in minacciosa epifania e, d’altro canto, il costante riferimento ad un immaginario araldico, monacale e cavalleresco (sono molti i punti in comune “estetici” con Il signore degli anelli di Tolkien) peculiare ad una realtà minacciata, preziosa proprio in quanto delicata. Un romitaggio atemporale fatto di simbologie, codici tramandati, archivi ordinati, catalogazioni botaniche si dischiude per l’ultima volta, prima dell’estirpazione brutale ad opera dell’apparato scientista. L’atavico equilibrio umanista, caratterizzato da un nostalgico senso della misura e da una ritualistica virtuosa rispetto al creato – oseremmo dire certosina, richiamando il motto Stat crux dum volvitur orbis – sta per tramontare sotto i colpi della tirannide. Poco più in là c’è il bosco, dapprima inquietante reame del malvagio, poi salvifico riparo mimetico per i nuovi apolidi.
Sulle scogliere di marmo si pone indubbiamente come vertice di un realismo magico non degradato in evasivo intrattenimento, sovrastando così per capacità espositive e strutturali, qualsiasi altro testo più o meno riconducibile a tale categoria. Tant’è che gli altri libri di Junger menzionati e a questo riconducibili, non fanno che rielaborarne sapientemente la vivida matrice. Heliopolis, caratterizzato da un’epica faustiana e dalle implicazioni annichilenti del dominio tecnico sulla sapienza ancestrale. Scrive Junger a metà del tomo: “Di qui il chiaroscuro d’anarchia e di ordine che illumina le nostre regioni di una luce crepuscolare. Esse sono simili a un dominio che il Signore ha abbandonato, ma sul quale può ricomparire per giudicare”. Eumeswil, con le sue serrate impalcature claustrofobiche – l’alienante labirinto totalitario dove muove enigmi irrisolti l’Anarca – quasi progettate dallo scrittore con veggenza: “I tribuni erano dei ridistributori; rincararono ai poveri il pane per renderli felici con le loro idee – ad esempio, costruendo dispendiose università, i cui diplomati disoccupati risultarono di peso all’assistenza pubblica, cioè a loro volta ai poveri, e si rifiutarono di prendere più in mano un martello”. Infine Le api di vetro, fantascientifico incubo ben più che ipotizzabile se riletto ai giorni nostri. Inquadrabile nella narrativa neo-apocalittica ed assai prossimo a 1984 di George Orwell, il romanzo riprende la prosa sobria, asciutta ed elegante dei precedenti, tuttavia marginalizzando sostanzialmente l’elemento “mitico” in favore di una severa quanto lucidissima analisi del connubio tecnologia/potere: “non era l’azzurro del cielo, non era l’azzurro del mare, non era l’azzurro delle pietre: era un azzurro sintetico, escogitato in luoghi molto lontani da un maestro che voleva superare la natura”. Siamo quindi noi, le api di vetro? Racchiuse nelle nostre celle virtuali, inchiodate ai social network per millantare una tangibilità effimera dinnanzi a milioni di altri automi lobotomizzati? Ernst Junger non esiterebbe a riguardo, nemmeno sul fatto che avremmo trovato la situazione, così degenerata, di nostro masochistico gradimento. Fu così che il passaggio che portò il progresso da speranza collettiva a tirannide esclusiva, trovò il suo narratore principe.