Il ricordo della Thatcher, ovvero dell’Iron Lady, è inevitabilmente connesso con la vicenda del poeta e combattente dell’Ira Bobby Sand, morto il 5 Maggio 1981 in carcere, a seguito di un lunghissimo sciopero della fame iniziato per il riconoscimento del proprio status di prigioniero politico. Fabrizio Ghilardi, nel romanzo giunto ormai alla terza edizione, “Wembley in una stanza” (Minerva edizioni), racconta a suo modo quei tragici momenti: guardandoli dal punto di vista di un bambino che ama il subbuteo, che non conosce ancora le dinamiche della politica, ma che sente lo stesso il valore di una lotta per la libertà e la pesantezza di una ingiustizia. Per gentile concessione dell’autore, Barbadillo offre ai propri lettori quelle stesse pagine, sia per riderci sopra , ma anche per rammentare come nel curriculum della Thatcher vi fu tanta, irremovibile, durezza. FMA
Capitolo diciottesimo. In cui si racconta di come le squadre inglesi vennero bandite per un certo tempo dai tornei di Subbuteo.
8 maggio 1981
[…] “Preparati!” – grido a mio fratello – “e prendi Eire e Irlanda del Nord”. Oggi giochiamo a casa di Ale. Da qualche giorno si è deciso di fare un mini-torneo tra squadre inglesi di club. Ma i recenti fatti di cronaca mi hanno fatto cambiare idea. Tre giorni fa è morto Bobby Sands, nazionalista cattolico, membro dell’Esercito Repubblicano Irlandese e membro del Parlamento di Westminster. Con papà, ho seguito la vicenda. Nella prigione di Long Kesh, Bobby Sands ha guidato lo sciopero della fame di altri membri dell’IRA Provisional per ottenere dal governo conservatore britannico della Thatcher lo status di prigionieri politici e non essere soggetti alle normali regole carcerarie. Non ce l’ha fatta. Ieri a Belfast oltre centomila persone hanno accompagnato il feretro di Bobby Sands sfilando in silenzio. Lascia i genitori, i fratelli e un figlio piccolo.
“Non prendiamo Aston Villa e Everton?” – mi chiede mio fratello.
“No. Portiamo Eire e Irlanda del Nord, o quello che sia. Marco e Ale giocheranno con Scozia e Galles. Il Liverpool ha la stessa maglia del Galles, non c’è problema, Ale ce l’ha. Dobbiamo dare anche noi un segnale a Margareth Thatcher”.
“E chi è?”.
“Tu non ti stare a preoccupare. L’Inghilterra e le squadre inglesi saranno squalificate dal nostro Subbuteo a tempo indeterminato. Nulla di personale contro i tifosi o le squadre inglesi. È qualcosa che facciamo contro il governo. Capisci?”.
“Mica tanto”.
“Sai quella storia che ti dicevo dell’irlandese, dello sciopero della fame?”.
“Boh, se me lo dicevi…”.
“L’annuncio della morte di Bobby Sands ha dato il via a una serie di rivolte; noi ci ribelliamo giocando la Freedom Cup. Nulla in contrario?”.
Arriviamo da Ale con le due nazionali irlandesi. Apre lui. Ci accoglie all’ingresso.
“Non si fa il torneo inglese” – spiego senza indugi – “si gioca la Freedom Cup, in memoria di Bobby Sands”. Mi guarda insospettito. Pensa a qualche scherzo.
“E chi è ‘sto Bobby?” – domanda Ale.
“Vedi perché poi uno dice che sei ignorante?” – gli fa mio fratello.
“Come non lo sai” – aggiungo io – “è l’irlandese che è morto in carcere facendo lo sciopero della fame”. L’occhio liquido di Ale guarda lontano come a cercare la notizia alle nostre spalle.
“Boh, non ne so niente. Ma è un calciatore?”.
“Lascia perdere, poi casomai ti spiego”.
“Ad ogni modo, niente squadre inglesi” – ribadisce mio fratello.
“Marco non viene, però chissene frega” – Ale è sbrigativo.
“Pazienza!” – interviene saggiamente mio fratello – “Bisogna ricordare Bobby Sands e quindi sotto con le partite”. Resta da decidere il nome dello stadio in cui si disputerà il trofeo.
“Chi conosce qualche nome di stadio scozzese, gallese, irlandese del nord o del sud?” – chiedo.
Ale con la scusa di andare a chiedere alla madre se ci prepara la merenda, sparisce. Ottima scusa per non manifestare la propria ignoranza in materia. Rimaniamo all’ingresso a chiacchierare.
“Giochiamo a Dublino, va bene?” – domando a mio fratello – “mi pare meno rischioso di finire a giocare a Belfast. In questi giorni non è proprio il massimo”. Mio fratello annuisce. Capisce che a Belfast in questi giorni hanno altro a cui pensare. Non è il momento di dedicarsi al calcio, anche se a molti farebbe piacere sapere che stiamo disputando un torneo in memoria di un nazionalista irlandese, per di più senza gli inglesi.
“Bene, allora! Giochiamo tutti gli incontri al Croke Park di Dublino” – la mia è una sentenza definitiva. Mio fratello mi guarda a bocca aperta. Sapevo che sarebbe rimasto di stucco. Non poteva immaginare che mi fossi informato così velocemente. Ho cercato sull’enciclopedia qualche nota e proprio al volo ho letto che c’è uno stadio con quel nome. È ancora lì che mi guarda a bocca aperta. Faccio cenno di avvicinare la mia mano al suo mento. Mi lascia fare. Gli chiudo la bocca che era
rimasta incastrata.
“Stai scherzando, vero?” – mi dice, recuperando una forma più umana.
“Dai non ti preoccupare non fa niente!” – dico con aria saccente.
“Non è il caso di farmi i complimenti perché conosco lo stadio di Dublino!” – aggiungo.
“No, dicevo stai scherzando!?” – ribatte mio fratello –
“Sarebbe la prima volta che al Croke Park, lo stadio del
calcio gaelico fanno giocare un incontro di football! E la ‘Regola 42’ del regolamento?”. Lo guardo senza capire molto. “Questa norma vieta l’ospitalità agli sport ‘inglesi’ tipo il calcio e il rugby. L’approvazione di questa regola fu determinata dalla famosa domenica di sangue del 12 novembre
1920 quando, durante la gara tra Dublino e Tipperary, furono uccise dodici persone tra tifosi e giocatori per mano delle truppe inglesi. Ma come, niente inglesi e poi vuoi profanare il tempio dello sport gaelico?”. Sono perplesso. Entra Ale. Fischietta “Maledetta primavera” di Loretta Goggi.
“Allora dove si gioca, in quale stadio?” – chiede l’ignorante inopportuno. Poi, dopo una brevissima pausa, proprio prima che mio fratello potesse spiegargli la storia di tutti gli stadi del mondo, prosegue: “Ah, non v’ho detto: mio padre mi ha regalato lo stadio del Subbuteo. Tribune, spettatori
eccetera eccetera…”. Apre la porta della sua cameretta. Ai nostri occhi si offre
uno spettacolo meraviglioso. “Altro che Croke Park” – faccio io. Ale mi guarda senza capire il riferimento. Non è uno stadio normale. Nemmeno uno di quelli che si vedono sul catalogo Subbuteo. Dieci tribune coperte a due piani. Cinque per lato a comporre i due lati lunghi. Gradinate
basse nei due settori alle spalle delle porte. Non mancano nemmeno i cartelloni pubblicitari. È uno stadio fantastico. Così non ce l’ha nemmeno il figlio di Peter Adolph. Nella mia testa è tutto un turbinio di nomi di tadi inglesi. Penso all’Edgeley Park dello Stockport, al Turf Moor del Burnley, al Bloomfield Road del Blackpool. E oggi in campo non ci sono i bianchi d’Inghilterra.
Tutto per colpa della signora Thatcher.
“Bene, questo impianto oggi sarà” – mio fratello fa una pausa – “sarà il Landsdowne Road di Dublino, lo stadio dove solitamente si gioca a rugby. Anche se da qualche anno ci si gioca pure a calcio. E chiudi la bocca che è rimasta spalancata; ti si è bloccata?” – dice rivolto a me– “Avremmo potuto fare che si giocava al Dalymount Park, dove generalmente si sono disputate le partite della
nazionale irlandese, però è già qualche anno che la federazione preferisce far giocare gli incontri internazionali al Landsdowne Road!”. Ma io dico! Ma che ne sa? Sull’enciclopedia tutte ‘ste
notizie non c’erano. O almeno mi pare. Per non farmi beccare, forse ho letto troppo velocemente. Tocca ricontrollare sull’enciclopedia e se la notizia non è lì, mitoccherà torturarlo per sapere dove l’ha letto. Analfabeta! Saputello! Deve avere qualche dono strano. Un mezzo mago. Ecco perché era tanto bravo con il Manuale di Silvan a fare quegli stupidi numeri di magia. Torno a contemplare lo stadio: ci saranno almeno duemila spettatori. Forse tremila! Considerato che vengono venduti in bustine da dieci spettatori ciascuna, il costo dello stadio è circa quello di uno vero. Roba da tredici
al Totocalcio!
“Ma quando te l’ha regalato?” – chiedo ancora intontito. “Tipo tre giorni fa. Sai, i miei si sono separati da poco e io approfitto della situazione. È il senso di colpa. Loro sanno di essere in difetto; sanno perfettamente che sono diventato un bambino a rischio. Uno di quelli che può finire male. Già sono viziato come figlio unico, figuratevi che meraviglia adesso che finalmente si sono separati! Che fortuna che non sono poveri i miei genitori! E che fortuna che si siano separati. Mi riempiono di regali, pensando di comprare il mio affetto. Mamma mi ha regalato già quattro nuove squadre!”.
“Comunque è uno spettacolo. Hai già provato a giocare con le tribune così alte attorno?” – mio fratello non vede l’ora di giocare.
“Assolutamente no! Aspettavo voi!”.
Scegliamo le rappresentative che disputeranno il triangolare. Mio fratello sceglie l’Eire; Ale la Scozia, e io l’Irlanda del Nord. Il primo incontro per dovere di ospitalità viene disputato da Scozia e Irlanda delNord. I blu mandano in campo: Rough, Stewart, Gray, Mc-Grain con i gradi di capitano, McLeish, Miller, Provan, Archibald, Jordan, Hartford e Robertson. Rispondono i verdi nordirlandesi: Jennings, J. Nicholl, Donaghy, C. Nicholl, O’Neill, Cassidy, McIllroy con la fascia di capitano, Hamilton, Armstrong, Finney, Brotherson. In panchina, convocato nonostante stia disputando il campionato della North American Soccer League con la maglia dei San Jose
Earthquakes, il grande George Best, ex stella del Manchester United. Pronti, via. L’inizio è tutto per la rappresentativa dei Norn Iron. Mentre gioco, però, penso che l’Irlanda del Nord e la Scozia hanno calciatori cattolici e calciatori protestanti; come dire, filo irlandesi e filo inglesi. Non è un problema
facile. Peraltro, tra i ventidue in campo, ben sei scozzesi e tutti e undici gli irlandesi giocano in diverse squadre nel campionato inglese. Stravinco tanto a zero, ma senza nessun piacere.
La vincente incontra la Repubblica d’Irlanda che nell’occasione gioca in maglia bianca, pantaloncini e calzettoni bianchi, base – inner e outer – bianca. Anche il portiere è completamente bianco. Mio fratello tira fuori dalla tasca un foglietto e studia la formazione. Dopo breve pensare annuncia i giocatori che manda in campo: Peyton tra i pali, Hughton e Grimes terzini, Lawrenson mediano, O’Leary stopper, a centrocampo con il numero 6 sulle spalle il capitano Liam Brady,
Daly sulla destra, Grealish al centro assieme a Heighway, Stapleton e O’Brien attaccanti.
Anche questa nazionale schiera 10 calciatori che giocano in Inghilterra e uno, O’Brien, nel Philadelphia Fury, la squadra che qualche anno prima ha accolto nella Lega Americana Alan Ball, ex dell’Everton. Insomma, ben poco di Irlanda e di Repubblicano. Sono sempre più convinto che la Freedom Cup non serva a niente. L’Irlanda del Nord schiera gli stessi effettivi con l’unica differenza di Best in campo dal primo minuto con il sette sulle spalle, al posto di Brotherson. Il capitano McIllroy spostato sulla sinistra ha la maglia numero undici. Squilla il telefono. Chissà perché immagino che sia Anastasia che mi cerca.
“Ragazzi c’è vostra madre al telefono, dice se potete venire, dai, avanti sbrigatevi!”.
“Uffah, che vuole adesso. Abbiamo anche fatto i compiti”
– mio fratello va a rispondere.
“Ciao mamma! Dimmi. Sì, ma papà… Ho capito, ma papà aveva detto che andava bene! Perché? Nooo, non mi va. Aveva detto che non dovevamo andare oggi a comprare i pantaloni. No, ma non possiamo andare domani?”. Mio fratello attacca il telefono.
“Ha detto che dobbiamo tornare subito a casa!”.
“Perché?” – chiediamo insieme Ale ed io.
“Perché? Perché ha litigato con papà e adesso noi dobbiamo tornare a casa, quindi nessun motivo. Come sempre!” – spiega mio fratello – “Lo sai ogni volta che litigano è la stessa cosa. Alla fine è colpa nostra o se la prendono con noi!”.
“Vabbè, raccogliamo le squadre. Non era proprio aria di disputare la Freedom Cup. Tanto giocano tutti in Inghilterra. Era come giocare Fulham-West Ham o Liverpool-Tottenham! Identico. Di Bobby Sands e dell’Irlanda se ne fregano tutti. È proprio inutile.” – gli dico. Mio fratello è pensieroso. Ha smesso di rimettere i giocatori nella scatola. Mi fissa. Certo, le sorti di un popolo
devono stare a cuore anche a un ragazzino di undici anni che, in più di un’occasione, ha dimostrato di essere più grande dell’età che ha.
“Lo so che ti dispiace. Anche a me dispiace che non ci sia pace in Irlanda!” – faccio, commosso.
Mio fratello si fa ancora più cupo. Ancora più profondo.
“No, stavo pensando a mamma e papà che litigano sempre. Che dici, se si separano pure loro, ce lo regalano lo stadio del Subbuteo?”.