Sembrava di rivedere quella scena del film “L’uomo dell’anno”, in cui l’improbabile candidato alla presidenza Usa Tom Dobb, interpretato da Robin Williams, fa saltare tutti gli schemi e trasforma il dibattito con gli avversari nel proprio show personale. Solo che, stavolta, stava succedendo davvero.
Improvvisamente, il confronto fra i principali dieci candidati alle primarie del GOP, andato in onda pochi giorni fa, è diventato il Donald Trump show, con tutti gli avversari ed i giornalisti contemporaneamente coalizzati contro di lui, ed il magnate americano padrone prepotente della ribalta, fra gli applausi ed i fischi di un pubblico spaccato in due tifoserie. Ha esordito promettendo provocatoriamente, in caso di vittoria, di non candidarsi come indipendente, precisando di non poter sostenere nessun candidato che non sia lui stesso e sentendo la salva di “buh!” che salutava queste affermazioni, gli osservatori più disincantati hanno subito capito a cosa puntava il magnate e, soprattutto, hanno capito che ci stava riuscendo perfettamente.
L’apice si è raggiunto al momento in cui la moderatrice Megyn Kelly gli ha chiesto conto dell’aver definito le donne “grasse scrofe, animali disgustosi, sciattone, cagnacce”. Lui ha prima limitato la parole come dette all’indirizzo della presentatrice liberal Rosie O’Donnell, con cui si è spesso scontrato poi, all’incalzare della Kelly, ha sbottato: “Ho detto ciò che ho detto, e se non ti piace, Megyn, non so cosa farci. Sono stato molto gentile con te, e forse non avrei dovuto esserlo, considerato come tu mi hai trattato”. E poi ha colto finalmente il nucleo del problema: “Penso che il grosso problema di questo paese sia quello di essere politicamente corretto. Sono stato sfidato da così tante persone e sinceramente non ho tempo per tutta questa correttezza politica”. No, quella che stava offrendo non era solo una brillante performance di infotainment. Dietro alla sua sfida apparentemente folle c’è una battaglia culturale e civile contro l’ideologia che, a sua detta, sta uccidendo l’America.
E pensare che le primarie del GOP sembravano destinate a risolversi anche stavolta in una kermesse sottotono, destinata a designare nient’altro che il candidato a perdere contro la corazzata mediatico-finanziario-lobbystica Hillary Clinton.
Fra i candidati diversi hanno storie interessanti da raccontare. Per primo quel Rand Paul, figlio ed erede politico di Ron che, pur avendo smussato alcune delle posizioni paterne, resta l’araldo di un’America libertaria sempre più eclissata dal dibattito pubblico, con le sue idee in politica estera solo in parte smarcatesi dal rigido isolazionismo paterno, e la sua battaglia dura contro gli abusi della NSA, assai atipica per un repubblicano. A contendere a quest’ultimo le preferenze dei turbo-liberisti dei Tea Parties, sempre più forti tra i banchi del Congresso e nell’America “profonda”, c’è poi Jack Rubio, il senatore di origini cubane strenuo oppositore dell’appeasement con il regime dell’Havana e delle politiche economiche interventiste da parte di Obama, il primo presidente USA nella storia che ha avuto l’ardire di additare le socialdemocrazie europee come esempio positivo. E poi c’è quel Jeb Bush, figlio e fratello di due presidenti fra i più amati-odiati che, seppur spinto dall’opportunità politica ad una parziale critica delle scelte del fratello, fra cui la guerra in Iraq, rappresenterebbe comunque, col perpetuarsi dell’unica, vera, dinastia politica americana, anche il ritorno di un’idea dell’America e del suo ruolo nel mondo il cui eclissarsi, con la presidenza Obama, è considerato da molti una jattura.
Eppure, nessuno di questi aveva davvero le caratteristiche di contrapporsi alla Signora, sul piano dell’immagine e, ancor di più, su quello della narrazione, del “mito”. La Clinton è l’emblema delle élites della costa orientale, progressiste e super ricche, sempre schierate dalla parte “giusta” secondo i diktat delle lobbies del potere culturale, sempre impeccabili, sempre perfette, che mai incappano in una gaffe anche piccola. Allo stesso tempo, però, proprio per questo, per molti simbolo di freddezza, falsità, cinismo.
Ora arriva Donald Trump, capace, con una sola dichiarazione adeguatamente naïf, di demolire tutte le sovrastrutture progressiste allestite nell’ultimo mezzo secolo e, soprattutto, di negare con tutta la sua presenza scenica quell’odioso modo di stare al mondo. Potrebbe essere lui “l’uomo dell’anno”?