Spulciando le recensioni al tonitruante reboot della saga postatomica di “Mad Max” firmato dal potentissimo settantenne George Miller, a parte qualche geniale commentatore – come Antonio Severo su “Il primato nazionale” – gli altri hanno scritto solo boiate di maniera e superficiali. Se poi il discorso cade sul tema (inedito per quella saga) del “femminismo”, allora si arriva a una fiera delle banalità che l’Expò in confronto è la sagra della cicerchia di Roccatronca.
Il fatto è che chi scrive queste recensioni spesso e volentieri è un maschio Beta. Ovvero uno di quelli che riaccompagna a casa la sera le ragazze, fa loro il trasloco, paga sempre da bere, al liceo passava il compito in classe di trigonometria e poi finisce regolarmente in bianco, a tutto vantaggio dell’Alfa, il capobranco, il figo di turno, il “bello e stronzo”. Il Beta è tipico maschio che supporta il femminismo in quanto estremo tentativo di compiacere la ragazza dei sogni nella speranza – del tutto illusoria – che compiacerla sia una forma di corteggiamento con una qualche possibilità di successo.
Per cui può capitare di leggere recensioni che riescono a difendere l’indifendibile come il femminismo nella sceneggiatura di questo film d’azione. Che invece è probabilmente l’unica cosa non riuscita della pellicola.
Fra i consulenti nella produzione del film compare Eve Ensler, militante femminista famosa per la sua piece “I dialoghi della Vagina” e per essere approdata alla sua ideologia con un curriculum di disagio che pone la sempiterna domanda sul perché se uno ha problemi non si rivolge a uno specialista anziché darsi alla militanza.
Tuttavia, la consulenza o è stata poco ascoltata oppure ha dato frutti marci, poiché “Mad Max fury road” passerà alla storia oltre che come un filmone d’avventura senza se e senza anche per un caso da manuale di eterogenesi dei fini. Se infatti l’obbiettivo voleva essere ribaltare i cliché machisti anni Ottanta e inaugurare un nuovo filone in linea con i dogmi del femminismo “terza ondata”, il bersaglio è stato mancato nemmeno se a mirare fosse stato Ray Charles.
Ma poi ne sentivamo davvero il bisogno? Forse nell’Occidente senza idee. In Giappone è dalla fine degli anni Settanta che maestri come Masamune Shirow e soprattutto Hayao Miyazaki ci riempiono di eroine emancipate, forti, guerriere ma realmente tridimensionali, consapevoli che la lotta non è contro “il maschio” e “il patriarcato” ma contro le avversità dell’esistenza.
Anche in “Mad Max” i personaggi femminili dovevano essere la colonna portante del film. Imperatrice Furiosa (la Theron) col braccio protesi e i capelli versione “soldato Jane”, decisionista e combattiva, ovviamente camionista (tipico stereotipo…) oltre che ribelle verso il suo deforme marito-padrone Immortan Joe; le altre giovanissime Mogli ribelli, più o meno convinte di “non essere cose” e non dover obbedire a Immortan; la tribù di amazzoni misantrope Vuvalini (si scrive così, non ho dimenticato la “l”)… Avrebbero dovuto tutte rubare la scena a Max, ridotto a un randagio flippato dai traumi della guerra nucleare e della morte della famiglia, taciturno e a tutta prima costretto a dar retta a Furiosa. In realtà, nonostante quanto troverete scritto nelle recensioni dei Beta innamorati della Theron e delle militanti femministe si tratta di meno che altrettanti cliché privi di qualunque spessore. E destinati a sbiadire davanti alla spettacolarità della pellicola.
Un’analisi della trama (scarna ma tutt’altro che azzerata ai soli inseguimenti) fa uscire questo femminismo con le ossa rotte: Furiosa fa tanto la furiosa, ma alla fine ha bisogno di Max molto più di quanto lui abbia bisogno di lei. Tant’è che è lui a salvarle la vita e a fornirle il “piano B” dopo che la sua ricerca di Eldorado fallisce miseramente. Questo Eldorado, per l’appunto, un’oasi verde tenuta dalle Vuvalini, non esiste più. Tanto funziona bene la sorellanza matriarcale che mentre le cittadelle patriarcali di Immortan e dei suoi mostruosi sodali sono efficienti e bene o male tengono in vita migliaia di sopravvissuti all’olocausto nucleare, loro invece si sono ridotte a quattro megere in un deserto inospitale, in menopausa e rinsecchite (tranne la controfigura di Megan Gale), la cui attività si riduce a sfruttare nuda la citata controfigura di Megan Gale come esca per attirare qualche maschio (Beta, ovvio) per ucciderlo e depredarlo. Un trucco alquanto puerile, tant’è che Max dichiara che è una trappola un decimo di secondo dopo che l’ha capito anche lo spettatore più distratto. Lo stesso Figlio della Guerra che passa dalla parte dei fuggitivi, alla fine preferisce all’amorevole abbraccio di una delle ragazze la morte eroica in battaglia: “donna, guarda come sa morire un vero uomo”. Meglio morto che maschio Beta.
E infine le Mogli. Cinque, stupende ragazzine caratterizzate per essere state scelte in un casting per miss Maglietta Bagnata Postatomica (clip all’interno del film), ma che Max, se avesse potuto, avrebbe abbandonato in pieno deserto perché è inutile dividere acqua e cibo con chi non sa combattere e non ha forza fisica per spingere un camion impantanato. E soprattutto lui non è un Beta rattuso. In ogni caso, Furiosa s’è guardata bene dal caricarsi anche le altre Mogli di Immortan, quelle brutte, sfatte e vecchie, ma ha scelto solo quelle perfettamente coerenti coi modelli “maschilisti” di ragazza carina, nonché così ben assortite da sembrare un elenco di generi porno: redhead, asian, skinny, brunette, pregnant… ovvero una lista perfetta dell’immaginario più biecamente fallocentrico della donna-oggetto, che poi è quello dello spettatore medio che si bea di questi film.
Marketing 1, femminismo 0
Il dettaglio del passaggio di consegne fra l’anziana fattucchiera Vuvalini che conserva semi in una borsetta e la giovane Moglie-wannabbe sacerdotessa della Dea dai tratti ultra-nordici si riduce a un banalissimo ammiccamento al wiccanesimo d’accatto e manca solo un “tremate tremate le streghe son tornate” come sbadiglio finale. Le ridicole cinture di castità dentate, tagliate con la tronchese e prese a calci sono un altrettanto ingenuo ammiccamento. Gli slogan femministi gridati con scarsa convinzione dalle coprotagoniste un irritante ammiccamento. E di ammiccamento in ammiccamento al femminismo, lo spettatore medio sta là a godersi solo lo spettacolo delle scene d’azione, la colonna sonora incalzante, le trovate scenografiche delle macchine e dei costumi, senza alcuna partecipazione emotiva per i buoni (anzi, magari con qualche simpatia per i coloritissimi cattivi) e solo infastidito dagli squittii delle scenografiche “Mogli fuggitive”, per le quali non c’è altro che un continuo “t’azzitti un attimo e mi fai vedere il film?”. “Bitch, please”, insomma.