Milano ha aperto – in questo maggio di crisi profonda – l’Expo e con essa spera di risorgere, poiché ormai è solo un mercato. La Milano di un secolo fa, il “radioso maggio” 1915, era invece soprattutto una fabbrica, con pochi ricchi e molti poveri, memori di un altro maggio, quello del 1898, e delle cannonate sulla folla sparate su ordine di un re che la stampa allineata chiamava “buono”: Umberto I.
Anche gli anni ’10 del ‘900, quando il re era ormai Vittorio Emanuele III, erano anni di crisi economica. A leggere oggi i romanzi scritti allora, o a vedere i film girati dopo ma ambientati allora, si percepisce quanto amara fosse la vita quotidiana. Inoltre, in caso di entrata in guerra, la Lombardia di allora sarebbe stata, come Veneto e Friuli, in prima linea sulle Alpi, almeno; e anche sui laghi, se il conflitto si fosse esteso alla Svizzera.
Se ci vollero pochi mesi per ri-orientare il Regno d’Italia secondo i voleri di Londra e Parigi dopo trentatré anni nella Triplice Alleanza con Berlino e Vienna, fu anche perché erano rimaste vive sottotraccia le ambizioni irredentiste. Si gridava: “Trento e Trieste”. In apparenza è per queste città che il Regno d’Italia si scaglia contro l’Impero Austro-ungarico il 24 maggio 1915. Un mese prima il patto di Londra aveva stabilito a quali condizioni Roma sarebbe uscita dalla neutralità proclamata nell’agosto 1914.
“Trento e Trieste” è uno slogan che che cela un clamoroso capovolgimento di alleanze, tanto più che nel 1912 il trattato della Triplice Alleanza era stato rinnovato anticipatamente su richiesta italiana, onde guardarsi le spalle dopo l’infelice impresa di Libia. Comunque, nel novembre 1918, Trieste diventava italiana. Ma era questa una sovranità fragile. Nel maggio 1945 Trieste veniva occupata dagli jugoslavi e i giorni delle foibe indicavano quanto odio il Regno d’Italia avesse generato contro di sé in poco più di un quarto di secolo.
Nel novembre 1953 una manifestazione di studenti italiani, per lo più missini, veniva stroncata dalla polizia del “Territorio libero di Trieste” – sotto controllo inglese – che sparava sui dimostranti… Tra estate 1953 e autunno 1954 la crisi di Trieste aveva raggiunto un nuovo acme. Il cinema italiano, ora di osservanza democristiana, rispondeva all’appello di mobilitare il nostro popolo nell’eventualità di una nuova guerra proprio quando stava finendo quella di Corea, cui l’Italia si era sottratta per miracolo.
L’appello partiva, discretamente, dalla Dc e con la non-ostilità del Pci, che nella Jugoslavia di Tito non vedeva più l’alleato di Mosca, ma il primo nemico (e a ragione). Davanti al nemico diventato comune, un popolo che pareva irrimediabilmente diviso ritrovava unità e slancio. Uno dei gioielli d’epoca della Cineteca del Friuli, il film di Max Calandri, Trieste cantico d’amore – proiettato lunedì 4 maggio, ore 18,30 a palazzo Cusani, via del Carmine, nella rassegna “Il grigioverde in bianco e nero” curata da Maurizio Cabona, sponsorizzata dalla Elior – veniva girato in questo periodo di tensione.
Le sue prime immagini sono tratte dai cinegiornali del novembre 1953, con gli scontri di piazza a Trieste: una giovane patriota è sottratta alle violenze della polizia da un sottufficiale statunitense d’origine italiana. Il padre del giovane militare, un cantante, tra estate 1914 e primavera 1915 s’era infiltrato nella Trieste ancora asburgica per coagulare l’irredentismo italiano. A inviarlo era Cesare Battisti. Durante la missione, il cantante/cospiratore aveva conosciuto una nobile triestina, innamorandosene. Ma la repressione austro-ungarica dell’irredentismo e lo scoppio delle ostilità avevano diviso i due giovani. Il cantante era poi emigrato negli Stati Uniti, trovando il successo, ma non aveva dimenticato il suo amore a Trieste.
Dettato dall’esigenza di giustificare che gli Stati Uniti erano diventati, dal 1943, l’alleato di riferimento, mentre la Gran Bretagna restava, nonostante la comune appartenenza Nato, un nemico camuffato da alleato, Trieste cantico d’amore è fantasioso nel ricostruire il periodo 1914-15. Ma, come per ogni film, non è l’attendibilità storica a contare, ma l’influenza sulle vicende del presente nel quale esso appare. E, in questo caso, anche la sua capacità di raggiungere e stimolare il pubblico femminile.
C’è infine un risvolto che riguarda la realtà storica, non la finzione scenica. Il regista Calandri aveva cominciato a dirigere film nel Cine-villaggio di Venezia nel 1944 della Repubblica Sociale. Invece l’attore principale, Antonio Basurto, era stato ufficiale del Regio Esercito ed era passato, tra 1943 e 1945, per i campi di prigionia tedeschi. L’unità nazionale ritrovata emergeva anche da questi più concreti dettagli. (dal blog del Giornale)