Dario Fertilio è un redattore delle pagine culturali del “Corriere”. Come giornalista non è forse salito molto in alto nelle gerarchie interne del quotidiano. In compenso è salito molto nella considerazione dei lettori, per i suoi articoli ma soprattutto per i suoi libri, in cui ha affrontato alcuni argomenti scabrosi nella memoria del Novecento. I suoi ultimi volumi sono romanzi con una solida base storica o, se si preferisce, saggi storici che indossano l’abito del romanzo per affrancarsi dalla tirannia delle note a piè di pagina e dalla precettistica dello “storicamente corretto”.
La formula può suscitare qualche perplessità, perché in certi casi lo spartiacque fra storia romanzata e romanzo storico risulta friabile. Nel caso di Fertilio, però, funziona e i suoi ultimi due libri lo confermano. Il penultimo, L’ultima notte dei fratelli Cervi(Premio Acqui Storia 2013), ha insinuato il tarlo del dubbio nella ricostruzione di un mitico (e mitizzato) episodio della Resistenza, suscitando, come prevedibile, lo sdegno dei custodi di una memoria a senso unico. L’ultimo, L’anima del Führer. Il vescovo Hudal e la fuga dei nazisti in Sud America (Marsilio), potrebbe guadagnargli ostilità ancora maggiori, anche se di segno diverso, perché tocca un altro nervo scoperto nella storia del secolo scorso: il rapporto fra Chiesa cattolica e nazionalsocialismo e il soccorso recato da organizzazioni cattoliche ed eminenti prelati a politici e militari tedeschi ricercati dopo la guerra dagli Alleati.
L’anima del Führer è monsignor Alois Hudal, nato a Gratz nel 1885, dal 1923 rettore di Santa Maria dell’Anima, chiesa nazionale tedesca in Roma, oltre che padre confessore della comunità tedesca di Roma. Simpatizzante del partito di Hitler, pubblicò nel 1937 un saggio, I fondamenti del nazionalsocialismo, in cui azzardava una conciliazione fra quest’ultimo e il cattolicesimo. Il testo, uscito con l’imprimatur del vescovo di Vienna, fu malvisto dalle gerarchie vaticane, preoccupate che quel tentativo di cristianizzare l’hitlerismo costituisse una premessa per la nazificazione della Chiesa cattolica. Ma non piacque paradossalmente neppure alle ali estreme del partito nazista, che ne chiesero e ottennero la messa al bando. Nelle sue espressioni più radicali l’hitlerismo era esso stesso una religione, con tanto di mitologie catare e divagazioni tardo-romantiche sul mito del Graal. Per questo non poteva accettare, nonostante il Concordato con la Santa Sede, un compromesso con altre fedi. Alfred Rosenberg, l’autore del Mito del XX secolo – il libro più venduto e meno letto di tutti i tempi dopo la Bibbia, come l’aveva sprezzantemente definito Oswald Spengler – e insieme a lui gli altri adoratori del sangue nordico non potevano apprezzare chi credeva nella presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nell’eucarestia. Il nazionalsocialismo, che, per parafrasare il titolo di un vecchio saggio di Mosse, aveva le sue origini mistiche, non poteva accettare mistiche diverse e concorrenziali.
Nonostante tutto questo, monsignor Hudal continuò fino al crollo dell’Asse a credere nel suo sogno di utilizzare l’hitlerismo come barriera contro il comunismo ateo, ma anche contro il materialismo capitalistico. Nella sua spes contra spem non fu del resto l’unico: basti pensare alle considerazioni che un fine e singolare germanista come Attilio Mordini, guida spirituale del giovane Franco Cardini e in gioventù volontario nelle file dell’Asse, sviluppava ancora negli anni Sessanta sul nazionalsocialismo come reazione a un cattolicesimo “guelfo” e svirilizzato. Sono casi umani che dovrebbero indurre a riflettere sul richiamo ancestrale che fascismo e nazismo esercitarono nel periodo fra le due guerre, un richiamo che non può essere sbrigativamente archiviato sotto le categorie della psicopatologia politica o dell’opportunismo.
Fertilio descrive la vicenda di monsignor Hudal fra il luglio del 1943 e l’agosto del 1946, nei tre anni cruciali che videro il bombardamento della capitale e la caduta del fascismo, la deportazione degli ebrei romani, l’ingresso degli angloamericani nella Città eterna, l’organizzazione della Ratline in soccorso dei nazisti ricercati. Personaggio imbarazzante per il Vaticano, già prima della sconfitta dell’Asse, monsignor Hudal continua a essere rettore dell’“Anima”, ma non riesce a ottenere l’agognata udienza da Pio XII, nonostante che su istanza di suo nipote Carlo Pacelli abbia contribuito alla salvezza di parte degli ebrei romani rivolgendosi al governatore tedesco di Roma per arrestare le razzie. Continua però a pregare per l’anima di Hitler e più prosaicamente si dedica alla salvezza dei corpi dei suoi seguaci. Contribuisce infatti all’organizzazione della “linea dei topi”, prendendo infine contatti con l’esponente di spicco del controspionaggio statunitense James Jesus Angleton. Quest’ultimo, che in un primo tempo aveva seguito con sospetto l’attività del prelato, nel clima dell’incipiente guerra fredda è interessato al recupero di esponenti dell’estrema destra tedesca e anche italiana in funzione anticomunista.
Fin qui la parte storica, neppure molto romanzata, visto che quanto Fertilio narra è ampiamente documentato da una vasta bibliografia, specie dopo la desecretazione degli archivi statunitensi. Ad essa se ne aggiunge una di carattere romanzesco, che conferisce all’opera un intreccio più narrativo che saggistico, senza far mancare al lettore neppure un dolente ed effimera storia d’amore. L’autore immagina che un giovanissimo volontario dell’Armata Rossa, nativo di Königsberg ma di etnia russa, venga scelto, dopo la conquista della città di Kant, dai servizi segreti sovietici per venire infiltrato nel collegio di Santa Maria dell’Anima: fingendosi anch’egli un militare tedesco perseguitato potrà spiare l’attività di monsignor Hudal. È un modo per ravvivare la narrazione, ma anche per descrivere le sofferenze e le atrocità subite dai tedeschi, a partire dal martirio di Königsberg: non per “cerchiobottismo”, ma per un’apprezzabile esigenza di rappresentare la disumana ferocia della guerra su tutti i fronti. Nonostante qualche forzatura e inesattezza (è improbabile, per esempio, che un soldato semplice ventenne venga mandato di ronda da solo in una città occupata), la struttura narrativa tiene e le vicende parallele dei due pur così diversi protagonisti si risolvono in un duplice disincanto. Il soldatino dell’Armata Rossa, tradito dai compagni, s’imbarca per l’America Latina come se fosse davvero il tedesco di cui, per meglio spiare Hudal, aveva assunto l’identità; consapevole che ragione e torto di vincitori e vinti sono tutto sommato relativi, abbandona un putrescente vecchio mondo. Nel vescovo che aveva creduto di poter conciliare la Croce e la svastica s’insinua la sensazione che “di tutto ciò per cui era vissuto sarebbe rimasta soltanto la cenere.”
Con rara sensibilità, Fertilio riesce a esplorare le sfumature di un’anima, i meandri del cuore, le reticenze della memoria. Che cosa spinge monsignor Hudal, dopo il crollo del Reich e le prime rivelazioni sui crimini nazisti, a pregare per l’anima di un suicida, a provvedere al salvataggio di persone accusate di crimini contro l’umanità? Carità cristiana, tignosa fedeltà a un errore giovanile, rifiuto della logica veterotestamentaria dell’occhio per occhio, inclinazione a sottovalutare, anche per un retaggio di antiebraismo cattolico, la gravità dell’Olocausto (che ancora non si chiamava così), consapevolezza che la giustizia umana è sempre relativa e che, specie quando è amministrata dai vincitori sulla pelle dei vinti, può sconfinare nella vendetta? È un interrogativo che non trova né può trovare una risposta definitiva in un romanzo, e, per il momento, neppure nella storia. Avere avuto il coraggio di porcelo è però un merito indubbio di Dario Fertilio.
*L’anima del Führer. Il vescovo Hudal e la fuga dei nazisti in Sud America di Dario Fertili (Marsilio)