Cosa c’è dietro al rugby italiano al di là dell’entusiasmo, e anche delle polemiche, della Nazionale azzurra nel Torneo delle Sei Nazioni?
Un interessante suggerimento ad approfondire il movimento nostrano della palla ovale giunge dall’analisi effettuata da Lidia Baratta e Giulio D’Antona per Linkiesta. Contenuti che possono essere condivisi per un buon ottanta per vento.
I quattordici anni trascorsi dal primo Sei Nazioni disputato da ItalRugby ha prodotto un campionato per club che fatica a prendere la rotta dei cuori degli italiani. Il sistema per la Federazione è piramidale: la Nazionale poggia su due franchigie importanti, le Zebre, con sede a Parma e uno stadio quasi nuovo di zecca, e la nota Benetton Treviso. Entrambe impegnate nel Guinnes Pro12, campionato europeo che costa alla stessa Federazione circa otto milioni di euro l’anno in sovvenzioni. Seguono arrancando le dieci squadre che giocano il torneo d’Eccellenza, quindi la serie A, la B e via dicendo. Tra le franchigie e l’Eccellenza però, è come se passasse un piccolo fiume, quello che separa il professionismo da una forma alta di dilettantismo, con tutti i limiti che questo comporta.
“Il Pro12 sta ai club come il Sei Nazioni sta alla Nazionale”, spiega Leonardo Mussini, media manager delle Zebre. L’idea è quella di avere due squadre che competano ad alti livelli e che preparino i giocatori per gli impegni in maglia azzurra, alzando genericamente il livello di gioco e abituando un pubblico ancora cocciuto a staccarsi dall’idea che il rugby sia l’Italia per abbracciare quella che sia tutta l’Italia. Non facile. Intanto corre l’adagio che “chi non passa dalle Zebre, può scordarsi la Nazionale” per parafrasare un intervento del Ct Jacques Brunel, messaggio piuttosto chiaro.
I professionisti completi italiani sono poco meno di un centinaio e il dubbio che serpeggia è che non siano davvero pronti a fare il tanto agognato passo avanti. Intanto quello che c’è da stabilire è se il gioco vale la candela: cioè quanto convenga a una realtà relativamente giovane come quella italiana prendere un impegno tanto ingombrante, anche a livello economico. I proventi per coprire i costi delle partecipazioni al Pro12 – fatta eccezione per i già citati incentivi federali, che assolvono solo a parte del costo di circa sette milioni di euro che il torneo rappresenta per i club – vengono da sponsor, biglietti e merchandising. Considerato che la scorsa stagione le Zebre hanno venduto circa ventimila tagliandi e che si confrontano con squadre come quelle britanniche che macinano cinque volte tanto, il gap appare evidente. Che vincano o perdano poi, i numeri variano solo di poche centinaia, non certo sufficienti a rientrare dei costi. A niente serve l’evidenza che metà della rosa delle Zebre è formata da giocatori della Nazionale. L’altra metà sta a Treviso, che ha scelto di non rilasciare dichiarazioni.
Guadato il corso d’acqua impetuosa che separa le eccellenze dall’Eccellenza, la situazione cola a picco tra il malumore generalizzato di chi è abituato a fare buon viso a cattivo gioco. I campi si fanno decisamente più pesanti del XXV Aprile di Parma o del Comunale di Monigo e i soldi per tenere gli impianti tirati a lustro non sono voci scontate a bilancio, cosa non da niente visto che in qualche caso può inficiare la trasmissibilità televisiva e quindi allontanare eventuali sponsor. Anche più grave è il fatto che si passa da poche migliaia di spettatori allo stadio a qualche centinaio in media. A Viadana, per esempio, casa di uno dei club più validi del massimo campionato, si è passati da una media di 1.550 spettatori del 2010 a pochi più di seicento, complice una candidatura alla Celtic League (sostanzialmente il Pro12 in embrione) che ne portava allo stadio più di tremila, poi ritirata.
Per un po’ da quelle parti il gioco del calcio era sparito dai radar, salvo riaffiorare negli ultimi anni, incrinando una superficie candida e piantando il germe del dubbio riguardo la forza del rugby come antidoto alla corruzione dello sport. Anche all’Aquila, città benedetta da una tradizione di lunghissimo corso dove il calcio non è quasi mai esistito, gli spettatori ormai entrano allo stadio Fattori con il contagocce, mantenendo la media attorno agli ottocento a partita. Si parla di numeri molto bassi rispetto all’atteso, facendo fede alla facciata, e viene da chiedersi che fine abbiano fatto tutti i nuovi appassionati. Aspettano di vedere la Nazionale, probabilmente.
“Quello che dovrebbe fare la Federazione è investire di più sull’Eccellenza. Non tanto in termini economici, quanto di comunicazione – dice l’aquilano Maurizio Zaffiri, ex terza linea ala e oggi dirigente dello storico club abruzzese -. Il rugby rimane uno sport di nicchia, inutile dire altrimenti, ma questo non vuol dire che debba esserci tanto scarto tra un livello e l’altro della pratica”.
“Certo, è evidente che delegare a sole due squadre il vivaio della Nazionale rischia di creare un imbuto in cui è facile incastrarsi e dal quale è molto difficile uscire indenni. Nell’ambiente di uno sport che, pur in crescita, non ha ancora le gambe per farcela senza una buona spinta mediatica, la mossa di togliere dalle squadre del primo campionato in sostanza tutti i migliori giocatori, sia italiani che stranieri, non aiuta sicuramente la causa dello spettacolo – si legge nel reportage de Linkiesta -. Il ragionamento è lapalissiano: se il miglior rugby d’Italia si gioca a Parma e Treviso, perché dovrei andare a vedere una partita di Viadana? Manca l’affetto locale, in favore di un disegno più grande e dai contorni ancora poco più che abbozzati”.
Anche gli sponsor sono naturalmente propensi ad appoggiarsi a club che garantiscano una visibilità europea, più che a squadre che giocano un campionato che sembra vivere una tacca al di sopra del dilettantismo, non tanto per la qualità del gioco, quanto per il contorno. Quindi, i fiori all’occhiello dei tornei per club limitano in qualche modo la crescita delle squadre minori, sia in termini economici che tecnici, fagocitando risorse buone per il campionato nazionale ma ancora poco preparate per gli internazionali e catalizzando gli sponsor, o almeno questo è quanto si dice tra le società, senza garantire ancora la preparazione tecnica per arrivare a buoni, e stabili, risultati a livello internazionale.
I tesseramenti però continuano a salire, laggiù nel fondo delle serie minori, dove il fango e il sangue corrono a beneficio di poche decine di spettatori. Genitori, fidanzate e nessuno che filmi nemmeno per sbaglio. Tra le nuove società, quelle che giocano per passione e che in molti casi si autofinanziano, quelle che fioriscono nei piccoli centri e vivono di una tradizione giovane, tramandata per passaparola. I tesserini, oggi 105mila, sono quadruplicati rispetto ai venticinquemila del 2000 e le giovanili sono ancora considerate la forza trainante di tutto il movimento. La federazione sta facendo tanto in questo senso con le accademie federali, nel tentativo di velocizzare il processo di crescita e garantire, prima o poi, il famoso ricambio che tutti stanno aspettando.
“La strana natura del rugby italiano è una condizione che ha un che di precario: quanto può durare un pubblico quasi del tutto inesperto di fronte al continuo ritardo dei successi e delle soddisfazioni?” si chiedono Baratta e D’Antona. È una domanda che non si risolverà se non stando ad aspettare, in un modo o nell’altro. E forse prima o poi i vecchi tifosi torneranno nei piccoli stadi delle loro piccole città, a seguire il loro piccolo sport.
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