Social network, internet, messaggistica istantanea, con tutto il loro linguaggio fatto di abbreviazioni, emoticon e sigle sta diventando sempre più un aspetto fondamentale della nostra quotidianità. Spesso questi mezzi possono essere utilizzati da terzi in modi che non possiamo nemmeno lontanamente immaginare. Ne sono un esempio i procedimenti giudiziari.
La storia che vi voglio raccontare proviene dagli USA, la terra in cui hanno visto la luce la maggior parte delle applicazioni con cui interagiamo ogni giorno: whatsappp, facebook, twitter e compari. Ma più che di storia, dovremmo parlare al plurale, di “storie” quindi. Le decine di storie di persone che per colpa di un messaggio postato sui social e accompagnato da un emoticon si sono ritrovati davanti ad una corte di giustizia americana. Proviamo a raccontarne una.
Lui è Osiris Aristy, un giovane utente americano 17enne. Sul suo profilo una foto con lo sguardo da duro, pantalone a vita bassa, capelli lunghi raccolti in dread. La mattina del 15 gennaio si sveglia e decide di lasciare al mondo un messaggio da vero gangster, affidandolo alla sua bacheca facebook, in cui saluta i suoi compagni, per poi concludere il post con l’emoticon della faccia di un poliziotto e due pistole rivolte verso di lui. Un messaggio di minaccia, probabilmente non un reale pericolo ma semplicemente un modo per farsi notare dagli amici e strappare qualche like. Peccato che, visti i precedenti penali del ragazzo per aggressione e minacce a pubblico ufficiale, le autorità non l’abbiano inteso nello stesso modo. Tre giorni dopo Osiris viene arrestato e processato con l’accusa di minacce nei confronti della pubblica autorità. Esatto, ad incriminarlo è stato anche (o soprattutto) quegli emoji che hanno concluso il suo messaggio.
E di Aristy, che finiscono sotto processo per alcune emoticon di troppo, negli Stati Uniti ce ne sono a decine. Spesso basta anche la classica emoticon con l’occhiolino – un 😉 – per essere incolpati di atti persecutori o minacce. Ma questa è l’America, ovvero la terra delle esagerazioni, si sa. Da noi, invece, come funziona?
Certo in Italia gli emoticon ancora non costituiscono ancora una prova all’interno di un processo penale, ma comunque i social network stanno avendo sempre più importanza nella nostra quotidianità e il nostro sistema legislativo non può esserne indifferente. Le emoticon hanno la stessa forza – anzi in alcune casi anche superiore – delle parole, e come tali potrebbero essere trattate dai nostri giudici.
Aveva fatto scalpore lo scorso anno la prima sentenza di diffamazione per un messaggio postato via social network. Quello che da tutti era visto come un utopia, una colpa che si sarebbe persa nella “terra di nessuno” della rete. Invece no, anche se scriviamo in forma anonima, con i nickname appunto, tutto nel mare del world wide web è tracciabile attraverso gli Ip e, di conseguenza, è punibile civilmente e penalmente.
Già una sentenza del 2013 del tribunale di Santa Maria di Capua Vetere lo aveva confermato: messaggi e immagini su facebook, in quante destinante a soggetti terzi – e quindi pubbliche – non possono essere coperti da segreto e di conseguenza possono essere utilizzate come fonte di prova. Diverso invece il caso dei messaggi di posta elettronica e di messaggistica istantanea: non sono messaggi pubblici e in quanto tale non dovrebbero essere utilizzati come prova in un processo, eccetto se il giudice non li indica come necessari per attestare la verità della notizia di reato.
Sulle emoticon, invece, non si è espresso ancora nessuno. Questo non vuol dire però che siamo al sicuro quando le utilizziamo. Ancora di più, e l’esempio americano lo conferma, se il loro uso rafforza il significato di un messaggio con il quale, ad esempio, minacciamo qualcuno o lo diffamiamo. Quindi, come sempre, utilizziamo massima attenzione quando lasciamo qualche messaggio, anche ironico, durante il tempo speso in rete. Se compiamo un reato siamo sempre rintracciabili e, a differenza di come il reato è stato compiuto, le sanzioni saranno tutt’altro che virtuali.