Quando nel gennaio 2001 il presidente del Consiglio Giuliano Amato disse che il Milan era antipatico e che avrebbe preferito un trionfo della Roma in Serie A, Demetrio Albertini fu l’uomo incaricato dalla squadra per rispondere al capo del governo italiano: «È chiaro – disse il regista rossonero – che a essere antipatici siamo noi del Milan, ma il Milan vuole continuare a essere antipatico ad Amato vincendo lo scudetto…». Albertini era stato scelto dai suoi compagni come ambasciatore perché, già da calciatore, sembrava essere l’unico in grado di rivaleggiare con i politici di rango. Era un costruttore di vittorie in campo, ma negli spogliatoi era uno stimato tessitore di trame: un diplomatico, un mediatore, un politico.
Uno con quel palmares – sei campionati nazionali, due Champions, una Coppa Uefa, vice campione del mondo USA 1994, ma non solo – a fine carriera avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. E invece Albertini ha voluto continuare a scrivere la sua storia strana, fuori dalle righe: ha fatto il sindacalista per l’AIC e nel momento peggiore del calcio italiano (nel 2006, dopo Calciopoli) è stato nominato vice commissario straordinario della Figc, per poi essere confermato, nel 2007 e nel 2013, vice di Giancarlo Abete: «È stato il Consiglio federale a scegliere da chi voler essere rappresentato», disse Albertini per mettere in riga un arrabbiatissimo Claudio Lotito il giorno della sua riconferma, il 5 aprile 2013.
Dopo la disfatta del mondiale brasiliano, Albertini ha deciso di provarci. Vuole diventare presidente federale per far ripartire il football italiano provando a sedersi sulla punta della piramide con un programma che ha parole-chiave seducenti: vivai, territorio, tifosi, futuro. Si propone come il «regista del cambiamento» e dalla sua ha la consapevolezza di essere l’unico a poter garantire colore fresco nelle stanze grigie del governo del calcio italiano. Il suo avversario è Carlo Tavecchio, un ragioniere di 71 anni con un folto curriculum: è presidente della Lega Dilettanti dal 1999, vicepresidente della Figc dal 2007 e dal 1976 al 1995 è stato ininterrottamente sindaco del suo paese, Ponte Lambro, in provincia di Como.
La svolta ha il “4” sulle spalle e anche se Andre Abodi, potente presidente della Serie B, ha detto che il loro voto andrà a Tavecchio, l’ex centrocampista continua a sognare. La sua non è solo una lotta alla successione di Abete, ma rappresenta uno scontro generazionale che può fare molto bene alla Figc: dal basso dei suoi 43 anni, Albertini ha l’ambizione di essere «un’opportunità per il calcio, e per le persone che lo amano»; spera di poter essere l’outsider che smentisce tutte le previsioni. Tra gli ostacoli più grandi da superare c’è proprio il suo passato da ex calciatore perché nelle stanze che contano sono sempre stati molto attenti a non dare troppo potere a quelli che scendono in campo. Ma se dal dopoguerra ad oggi nessun ex calciatore è mai diventato presidente federale, secondo Albertini è arrivato il momento di vedere che effetto fa: in Italia mancava il regista dai piedi buoni con la voglia di cambiare.