Lo confesso: un paio di anni fa ebbi la sconsiderata intuizione di raccogliere tutte le mie idee e i miei ricordi e metterli nero su bianco. Un’autobiografia anzitempo? No davvero. Solo volevo dimostrare che pure uno alla soglia dei trent’anni avrebbe potuto dare lustro a quegli anni in cui si ritrovò a vivere la propria adolescenza. Piaccia o no, gli anni che precedono di poco la maggiore età e la seguono di breve, sono quelli a cui non sappiamo non guardare: ci formano, ci temprano, ci arricchiscono o impoveriscono, a seconda dei punti di vista. Saranno quelli su cui faremo agire implacabile il senno del poi, sono gli anni dei libri che diventeranno nostri, dei brani musicali coi quali si pensa di poter cambiare il mondo, sono gli anni dei viaggi fisici e di fantasia. Proprio quegli anni in cui Salgari chiama suo malgrado Hemingway, i safari e l’avventura, l’età del jazz, voli notturni tra New York e Parigi, Scott Fitzgerald, gli abiti di Jay Gatsby, la Depressione esorcizzata sulle note di uno swing. Si legge molto e si ascolta ancora di più. Spugne quali siamo ci lasciamo contaminare e contaminiamo, cerchiamo sempre di sconfinare in territori nuovi, tra la musica barocca e il teatro del Novecento: esser giovani significa anzitutto andare a scuola perché si deve ma tornare a casa e iniziare i veri studi che ci renderanno
grandi. Perché a quell’età, domani appartiene solo a noi.
E dunque sì, lo confesso: avendo oggi una manciata di giorni disponibili per dirmi ancora non trentenne, pensai un paio di anni fa di destrutturare la polemica glamour di quelli che si definirono illo tempore generazione TQ, ovvero i trenta-quarantenni che avevano un sacco in fastidio la possibilità di ricollocarsi e riconoscersi. Oggi quei ragazzi sono direttori di giornali, fanno i portavoce a qualche politico che nel frattempo è stato baciato dal Porcellum, hanno scritto libri sinceramente dimenticabili pur criticando la mediocrità delle pagine di Federico Moccia. Oggi quei ragazzi tengono famiglia, che in Italia significa né più né meno rispondere alla bieca “questione alimentare” per dirla con Prezzolini: posto fisso, mutuo a tasso variabile ma ben ponderato, mobili Ikea, poltrona Frau ma solo perché è stato un regalo dei suoceri, matrimonio civile perché dirsi disimpegnati in campo della fede fa chic, se va bene un figlio, ma la Durex diciamolo fa miracoli…
Sono quei ragazzi, la invecchiata generazione TQ, che ha studiato in Bocconi e magari pure alla cattedra di Mario Monti, che è finita in finanza creativa e ha venduto titoli tossici grazie ai quali oggi ci ritroviamo, come in ogni fiaba senza lieto fine, assediati da Draghi. I TQ sono quelli cresciuti negli anni Ottanta, che son stati ragazzetti e adolescenti quando il PSI la faceva da padrone, la Milano era da bere, si poteva acquistare una Ferrari in contanti, il debito pubblico era un buco nero ma il futuro ci sorriderà, la mafia ammazzava e lo faceva senza i piagnistei di Saviano, Carmelo Bene recitava Dante dalla Torre degli Asinelli a Bologna e Benigni non era il centurione della Costituzione repubblicana. Ma a loro interessavano le radio Pioneer e quelle Kenwood, Duran Duran e Spandau Ballet, Levi’s e Roy Rogers, cinturone Charro, paninari contro pariolini.
Erano nati in anni in cui gli adolescenti andavano in piazza e in strada portando cucite addosso idee pericolose, qualcuno aveva anche una P38 in tasca, qualcuno finì sottoterra ancora giovane.
Destra e sinistra poco importava ai TQ, fu un’eventualità di ricollocamento successiva. Gli anni Ottanta erano quelli famigerati della tv commerciale, del Biscione e delle tettine di Colpo Grosso.
Piacciano o meno quelle mode e quei volti, quelle acconciature e quelle zampe di elefante, quegli anni furono loro malgrado formidabili, lasciando comunque qualcosa. Ecco perché mi son detto: proviamo a lasciare qualcosa di scritto per chi verrà anche sul decennio successivo, quello che mi ha reso quel che sono… Un libro, oltre al titolo, ha bisogno in teoria di contenuti ed esempi. E il fatto che la mia idea sia miseramente naufragata mi fa riflettere oggi sul perché. Non trovai nulla degli anni Novanta che fosse davvero nato in quel periodo, un’invenzione, un trend, una moda. Se penso agli anni Novanta ho in mente Brosio redarguito da Emillio Fede mentre Craxi esce dal tribunale di Milano; ho in mente il processo Pacciani, la più grande montatura giuridico-mediatica che l’Italia possa vantare; ho in mente Pacini Battaglia, De Lorenzo, insomma il bubbone che scoppiò a seguito della fine della prima Repubblica. Tangentopoli e le monetine del Raphael, Hammamet e i giustizieri senza macchia e senza paura del pool di Milano (gli stessi che poi fecero partiti della legalità nelle cui casse sta tutt’ora rovistando la Guardia di Finanza).
Berlusconi da factotum dell’intrattenimento divenne la prima lista civica che prese il Governo in un Paese fatto di famiglie con una storia partitica atavica. Comunisti, democristiani, socialisti, missini: le case si affollavano di tessere e orientamenti. Fu lui che spiazzò tutto e tutti. Qualcuno come Gianfranco Fini tentò una eterogenesi verginale a più riprese: Fiuggi, mali assoluti e malanni di stagione imbarcarono in un’avventura di rimozione e cupio dissolvi eredità fatte di persone e percorsi. Tutti finiti nell’inceneritore della memoria. Più che mai orfani in Patria.
Assistevo a quello sgretolarsi del vecchio e alla nascita di un nuovo che però non contemplava il coinvolgimento dal basso. Era morto il sistema partito, era chiusa la sezione, i sindacati non sapevano più che pesci prendere. Nel panorama della cosiddetta destra si era affacciato un taumaturgo capace di grandi mobilitazioni di folla e il prezzo da pagare era quello del voto. Nessuno se la sentì di dirsi contrario. Chi lo fece fu messo ai margini tra colpevoli nostalgie o rifondazioni tra balbettii confusi.
E un giovane che avrebbe dovuto fare? Non interessava la forza pensiero, c’era il leader indiscusso che vinceva per sé e per tutti. Il partito divenne nazionale, la sezione divenne lo schermo della tv. Ogni adeguamento al canone precedente fu però qualcosa di inverso: i giovani si mettevano in fila sperando che qualche dinosauro si estinguesse. La scienza medica ha remato contro lavorando molto su qualità della vita e longevità.
Per chi avesse avuto tempo di leggerlo, “Per farla finita con la destra” di Stenio Solinas rimaneva un caposaldo. Il problema era appunto che se la destra era finita, ora che si faceva?
Non un progetto comune concreto, non un’associazione credibile, non un giornale su cui far circolare le proprie idee.
Gli anni Novanta furono appunto l’ingresso nel coma di un Paese, la cui ultima novità culturale fu il Sessantotto. Da rinnovato che doveva essere si ritrovò guidato da un “usato sicuro”, per dirla con Matteo Renzi, che comunque dava garanzie. Nessuno ebbe il coraggio della scommessa. O meglio, l’unico che volle scommettere fu con beneficio di fidejussione proprio Silvio Berlusconi, che prese sotto braccio Gianfranco Fini, lo presentò a Caraceni e gli prestò qualche cravatta di Marinella. Lo stesso Fini che ha sognato in tempi nemmeno poi troppo remoti di rifondare una nuova “nuova destra” a suon futurismo mai capito, fumettistica d’antan, cantautori sinceramente democratici, film di John Wayne e Ray Ban d’ordinanza. Una destra nuova, moderna e plurale. Vale a dire una sinistra con la pazzia del camaleonte, trafugante peraltro case al partito, facendo off shore in paradisi fiscali senza neppure consultare un commercialista, regalando Ferrari a un cognato qualunque, fino a dover dire a colui che ti ha creato: “Che fai, mi cacci?” con tanto di ditino imbizzarrito.
La novità ultima di questo Paese – al di là della comicità tragica della classe politica – risiede nel Sessantotto, e ancora siamo lì a rileggere quali fossero bibbie laiche testi di rilettura dei classici: Spengler, Tolkien, Evola , Mishima e via dicendo… Solo che la via del samurai l’ha intrapresa senza rendersene conto proprio quel mondo lì, tra un seppuku alle urne e un bushido intellettuale.
Se mi guardo indietro non vedo altro che partite di calcetto che però non sposavano grandi ideali; vedo i campi scout che non erano i campi Hobbit, vedo carriere costruite su questi ultimi e residuati umani quali piccoli reduci di una gioventù che fu loro e non mi appartiene, per fortuna.
La verità è che sono figlio del mio tempo e spiace dirlo, o forse no, il mio tempo non è stato capace di produrre germogli di fioritura; semmai, come Krono, ha divorato i suoi figli.
All’estero è andata un po’ meglio con Irvine Welsh che ha descritto la provincia industriale di Edimburgo e gli anni d’oro della City in un capolavoro di scrittura e narrativa come Trainspotting. In Italia avevamo Susanna Tamaro con Va’ dove di porta il cuore. E solo questo basta come esempio.
Quelli che ora vedono invecchiare la generazione TQ, ovvero quelli che come me ci stanno entrando per diritto di anagrafe in quell’acronimo, provengono da un tempo di sterilità in cui tra disimpegno e pancia piena abbiamo tirato avanti senza curarci troppo di loro. Sembra quasi stupido oggi fare loro una colpa precisa di questo vuoto. Non abbiamo detto nulla, e forse non c’era nulla da dire. Ci meritiamo il nostro orticello sterile. I più fortunati andranno a votare turandosi il naso.