“Dovunque nella vita pubblica, nell’arte, nella scienza, nella politica e nella religione, nel costume e nel destino del singolo, la Grande Madre, con la sua luce e la sua ombra, va resa trasparente”. Queste parole di sapore oracolare sono di Ernst Bernhard, psicologo berlinese della scuola di Jung, trasferitosi a Roma nel 1936, ideologo della casa editrice Ubaldini-Astrolabio. Per Bernhard l’archetipo della Grande Madre era l’anima dell’Italia. Federico Fellini è allora il regista italiano per eccellenza che ha celebrato in tutti i suoi film questo archetipo. La Madre è Grande e Fellini è il suo Profeta…
La Madre è colei che culla il fanciullo nel sonno, ella stessa è Signora dei Sogni. E Fellini inizia la sua avventura cinematografica con una favola onirica: Lo Sceicco Bianco. Nei Vitelloni narra i temporeggiamenti di una banda di giovani scapoli; alla fine si salva dalla noia esistenziale solo il ragazzo più serio che trova il suo completamento (e indubbiamente il suo baricentro) in una brava fidanzata, che le dà un figlio.
Anita Ekberg è la più clamorosa incarnazione delle Matrone felliniane: abbondante, rotonda – Cibele e Afrodite, nello stesso tempo – al bagno nella fontana di Trevi. Ma gli attributi materni dell’Anita sopravanzano gli stessi tratti afroditici di seduzione. Il carattere matriarcale della Gran Femmina si evidenziano ancor di più in Boccaccio ’70, nell’episodio in cui il dottor Antonio (Peppino de Filippo) austero censore democristiano è tormentato dall’immagine di manifesto e poi dalla stessa icona divenuta vivente della donna dall’ampio seno. “Bevete più latte” recita il ritornello, malizioso e nello stesso tempo infantile. Tra i seni della Grande Madre Fellini sogna un ritorno alla fanciullezza magica.
In Satyricon, il biondo giovane romano, classico nei lineamenti, voluttuoso e bisessuale, nietzschianamente al di là del bene e del male, dopo aver perso la potenza virile ritrova il potere del fallo tra le braccia della maga Enotea, una Matriarca Nera che egli invoca col nome confidenziale di “mamma!”
Infine in Amarcord il tema femminile-materno tocca la corda della nostalgia, del ricordo del borgo natio e si incarna nella Gradisca, irrequieta e bovarista, alla fine placata dal matrimonio con uno stempiato carabiniere. Ma nella Città delle Donne il femminile degenera in uno sfrenato dionisismo di baccanti insoddisfatte. E la figura maschile sfuma tra stupori e irresolutezze. La Gran Madre va celebrata, ma il miglior modo di onorarla è completarla con una degna controparte maschile.
L’ultimo film di Fellini, manco a dirlo, evoca la Voce della Luna, l’astro femminile per eccellenza. Quella falce argentata posata sul capo dell’antica Iside, e sotto i piedi della Fanciulla vestita di Sole (Maria) a cui accenna l’Apocalisse cristiana.
Fellini fu spirito religioso pagano e matriarcale; nelle sue pellicole rivive l’incanto e il turbamento della tarda antichità. Mette in scena un’Italia la cui decadenza scivola sui gradoni di venti secoli. Egli cerca il sacro tra forme concave di donne, voci di fantasmi (“Giulietta degli Spiriti”), presagi sparsi nella quotidianità. Del bambino che volentieri abbraccia la mamma Fellini conservò sempre una curiosità senza limiti che lo spinse ad essere amico del veggente Rol, ma anche del magico barone Evola che dello spirito matriarcale fu un severo avversario.
In tutte le scuole d’Italia bisognerebbe vedere “Amarcord”: un ritratto nostalgico dell’Italia anni Trenta, capace di superare i nostalgismi ideologici sia fascisti che antifascisti. A quelli che le scuole le hanno già finite? LA straordinaria odissea decadente del “Satyricon”.