Ha un che di stantio la perentoria (ed immotivata) affermazione, sparata a tutta pagina, su “la Repubblica”, alla vigilia del 2 giugno, dalla scrittrice Maura Gancitano: “L’identità italiana non esiste”. Sa di vecchi (e superficiali) schematismi intellettuali e di un pressappochismo storico-culturale che speravamo sepolti, dopo anni di qualunquismo antinazionale e di un facile internazionalismo senza avvenire.
Così evidentemente non è. Almeno in certi “salotti buoni”, avvolti nei fumi di un indifferentismo culturale oggi camuffato da “inclusione”, nel melting pot, nel gran calderone, dei linguaggi omogenei.
Risolvere sbrigativamente il tema della nostra identità nazionale non depone a favore della “scrittrice e divulgatrice” – sponsorizzata da “la Repubblica” – impegnata a declinare inclusione con mescolanza (di lingue e costumi) nel segno di un’idea di italianità molteplice e confusa, dove le radici culturali paiono destinate a lasciare spazio ad un indifferentismo culturale, privo di spessore e di orizzonti, laddove è il “radicamento” identitario la grande sfida della contemporaneità. E non solo.
Come scriveva Simone Weil (La prima radice) “il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana. Difficile definirlo. L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire”.
In anni di cancel culture la difesa e la promozione dei simboli, materiali ed immateriali, della nostra identità nazionale deve essere la strada per sconfiggere l’omologazione culturale e l’indifferentismo spirituale. Lo abbiamo visto durante la sfilata in Via dei Fori Imperiali, nell’entusiasmo della folla, nella commozione di giovani ed anziani. E’ il senso di un’appartenenza e di una Storia, non tanto da “rievocare”, ma da vivere nella quotidianità, segno di tradizioni – per dirla con Edouard Drumond (La Dernièr Bataille) – “che riconnettono (l’uomo ndr) a coloro che son vissuti prima di lui, di sentimenti che lo connettono alle persone che sono del suo stesso paese”.
Rientrano in questo ambito – con buona pace per chi nega l’esistenza dei fattori identitari – la difesa della lingua italiana, le tradizioni popolari (in quanto espressione di un processo culturale che appartiene alla consapevolezza di una tradizione), la centralità della Scuola rispetto al valore della memoria e dell’identità nazionale, la difesa ed il rilancio delle culture locali, in quanto segno di una concreta (“incarnata” – verrebbe di dire) Idea di Nazione.
Può – d’altro canto – una comunità nazionale vivere senza simboli, senza i “tesori del passato” – evocati da Simone Weil – che ne legittimo la stessa ragion d’essere spirituale?
Nella misura in cui l’identità nazionale è il senso di appartenenza derivato dalla nazionalità, è alla concretezza del vissuto delle comunità locali, ben inserite nella più grande comunità nazionale che bisogna guardare. “Una patria – scriveva Charles Maurras (Le mie idee politiche) – sono campi, muri, torri, case; sono altari e tombe; sono uomini viventi, padre, madre e fratelli, e i fanciulli che giocano nei giardini, i contadini che mietono il grano, i giardinieri che colgono le rose, i mercanti, gli artigiani, gli operai, i soldati: non c’è al mondo cosa più concreta”.
Che cosa emerge da questi sintetici richiami? Certamente il valore di una memoria, che si interseca, nell’esistenza di ognuno, grazie alla volontà di sentirsi parte, di essere parte, di una stessa comunità. E dunque un senso di appartenenza che va oltre le generazioni, i localismi, le differenze sociali, facendosi visione condivisa ed insieme progetto per l’avvenire.
Condivisione (di memorie) e aspettative per un futuro da costruire giorno dopo giorno. Di questo si alimenta l’identità nazionale, facendosi Stato, attraverso le norme condivise ed il sistema di rappresentanza politica, ma ben oltre esso.
Il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, che volle ripristinare, nel novembre 2000, la Festa della Repubblica, spostata, nel 1977, alla prima domenica di giugno, rimarcò il richiamo ai “simboli più significativi della nostra identità di Nazione”, un’identità – ci sia permessa la nota – che va evidentemente ben oltre i richiami al Risorgimento, alla Resistenza e alla Repubblica. Ha radici ben più profonde. E’ il senso di riconoscimento della Patria, in quanto “terra dei padri”, sintesi di memorie complesse. E’ quell’identità che richiama un senso di appartenenza profondo, segno della volontà di riconoscersi nella comunità nazionale. Un’ appartenenza che non è nella disponibilità del singolo, né di gruppi intellettuali e/o politici convinti di potere negare l’identità nazionale. Storia, Cultura, Sacrifici secolari ci dicono esattamente il contrario.
Purtroppo, il 2 Giugno non è, non lo poteva essere sin dall’inizio, una data identitaria. È solo la data di un referendum forse truffaldino, macchiato da troppe ombre. Una data divisiva.