Le rivendicazioni e le proteste degli agricoltori di questi giorni sono senz’altro sacrosante. Alla loro base c’è un disagio sociale ed economico reale che non può essere ignorato. Tuttavia va detto con chiarezza che il nemico degli agricoltori non sono le misure per una conversione ecologica dell’agricoltura (con cui si cerca di contrastare il cambiamento climatico, l’avvelenamento e l’impoverimento del suolo, il dissesto idrogeologico), bensì un mercato distorto nei cui confronti la UE nulla fa. La politica della UE è affatto contraddittoria: è contro i pesticidi (giustamente), però approva la proroga del glisofato (uno dei più pericolosi pesticidi); dà soldi all’agricoltura (giustamente), ma destina l’80% al 20% costituito dalle grandi aziende agricole, favorendo in tal modo l’agroindustria e penalizzando le produzioni biologiche, che si sviluppano solitamente su fondi non grandi; impone vincoli e standard agli agricoltori europei, ma non ai prodotti importati fuori dalla UE, che sono trattati con pesticidi e lavorati con un vergognoso sfruttamento della manodopera. Gli agricoltori non devono dunque cadere nella trappola delle lobby dell’agroindustria e possono e devono essere invece gli alleati “naturali” degli ecologisti. Altrimenti saremo tutti vittime di questo modello di sviluppo paranoico (che dà di più a chi già è ricco) e nocivo (per la natura e la salute umana). I politicanti che per ignoranza o malafede sono oggi contro il green deal sono in verità succubi delle multinazionali dell’agroindustria e cercano un consenso di corto respiro.
Capita dunque a proposito la lettura o la rilettura di alcuni saggi di Wendell Berry raccolti nel volume, Mangiare è un atto agricolo (Lindau, 2015). Agricoltore, scrittore, ecologista, Berry vive in una piccola fattoria del Kentucky curata da lui e dalla sua famiglia secondo metodi biologici. Nei suoi saggi Berry fa innanzitutto un’appassionata difesa delle piccole fattorie e del tipo di economia che esse sottintendono, che si fonda sulla gestione responsabile della terra. E muove una critica serrata e implacabile all’industrialismo, la cui conduzione economica provoca notevoli danni a livello sociale, ecologico, esistenziale, in quanto è «priva di affezione per i luoghi in cui risiede e di rispetto nei confronti di ciò che utilizza».
Il punto di partenza delle sue analisi è che «mangiare è un atto agricolo», il momento conclusivo di un ciclo naturale che comincia con la semina. Questo nesso tra agricoltura e cibo l’industria alimentare accortamente ce lo occulta rendendoci consumatori passivi. La maggior parte delle persone non ha coscienza del rapporto esistente tra la terra e l’atto del mangiare: «comprano ciò che desiderano, o che sono state convinte a desiderare nei limiti di ciò che hanno a disposizione (…) e di solito ignorano alcune domande critiche riguardanti la qualità e il costo di ciò che comprano. Quant’è fresco quell’alimento? Fino a che punto è puro e privo di sostanze chimiche nocive? Quanti chilometri ha percorso dal luogo di produzione, e quanto incide il trasporto sul suo prezzo finale? quanto incidono i costi dei processi di lavorazione, confezionamento, e pubblicità? Quando è stato prodotto, lavorato o precotto quell’alimento?».
Va sempre tenuto presente che per l’industria alimentare «la preoccupazione principale non è la qualità e la salute, ma la quantità e il prezzo». L’ossessione per la quantità e le dimensioni per aumentare i ricavi e ridurre i costi porta inesorabilmente «a un declino della diversità e della qualità, e aumenta per forza di cose la dipendenza da farmaci e sostanze chimiche (…) La trappola è l’ideale dell’industrialismo: una città circondata da mura, che lasciano passare le merci ma bloccano le coscienze».
Come sfuggire a questa trappola? La risposta di Berry è quella di ristabilire la nostra consapevolezza nei confronti di ciò che significa mangiare, di renderci consumatori critici e non più passivi: «il modo in cui mangiamo determina in misura rilevante l’utilizzo che facciamo del mondo». Ed elenca una lunga serie di azioni che tutti possiamo e dobbiamo svolgere per orientare diversamente il mercato, come produrre, per quanto possibile, il nostro cibo, o almeno prepararlo da noi, informarci della sua origine e acquistare a chilometro zero, dando così fiato alle piccole fattorie oggi schiacciate dai colossi dell’agribusiness, ridurre il consumo di carne ed evitare assolutamente quella prodotta negli allevamenti intensivi, e così via.
«Mangiare con il più ampio piacere possibile – conclude Berry – è forse la realizzazione più profonda del nostro legame con il mondo». In questo piacere, che non si riduce a quello del semplice buongustaio, «sperimentiamo e celebriamo il nostro debito e la nostra gratitudine, perché la nostra vita nasce dal mistero, da creature che non abbiamo creato e forze che non sappiamo comprendere». E non è certamente un caso se nella più bella delle nostre preghiere si dice: «dacci oggi il nostro pane quotidiano». Quel pane infatti sottintende un rapporto sano ed equilibrato tra il nostro modo di produrre il cibo e il nostro modo di consumarlo.
Il mondo non ha bisogno di prodotti biologici pochi e cari, ma di decenti prodotti della grande agroindustria. Vi immaginate India, Cina, Indonesia, Brasile, Nigeria ecc. alle prese con gli uzzoli iper ecologisti?
E in fondo noi non siamo quel che mangiamo?
Quanto sia importante la qualità e la salubrità del cibo che consumiamo è da decenni oggetto di studio anche della medicina. Le risposte sono inequivocabili!
Abbiamo bisogno di prodotti con sostanze inquinanti nel piatto? La risposta è sicuramente negativa. Le sfide dei prossimi anni saranno rivolte ai consumatori e ai produttori in maniera globale con regole certe per tutti.
L’articolo inquadra in modo corretto le istanze degli agricoltori che si sono resi conto che la politica agricola europea, fatta di vincoli che chiamano condizionalità, sta espropriando le scelte imprenditoriali subordinandole a contraddittorie politiche agricole ed ecologiche.
Effettivamente se da un lato si proroga l’uso di un erbicida come il glifosato, dall’altra si consente ai campi coltivati di essere trasformati in campi adibiti alla produzione energetica con eolico o fotovoltaico.
L’agricoltura italiana è fatta da piccole imprese con una dimensione media di circa sette ettari in grado di fornire produzioni agricole eccellenti e di qualità.
Il problema è proprio questo. I costi di produzione sono più elevati rispetto alle aziende di altri paesi per un fatto di economia di scala e perché la manodopera ha un minore costo.
Nonostante tutto l’agricoltura italiana ha la capacità di distribuire i prodotti anche sui mercati esteri e la Puglia è un esempio di ciò, con l’uva da tavola.
Nonostante quello che dica l’Europa le aziende agricole Italiane seguono dei disciplinari che tengono conto anche e spesso soprattutto del rispetto dell’ambiente. Quindi la questione non è il cibo biologico o meno. La questione è la libertà di un’ impresa di fare scelte imprenditoriali economicamente valide, nel rispetto dell’ambiente.
Ed è questo che sta venendo meno.
La cosa più assurda è quella di impedire a chi lo desidera di fare agricoltura per scopi domestici.
E l’aria che si respira spinge in questa direzione.
Non entro nel merito di come la pace abbia condizionato in modo assurdo e stravagante l’agricoltura italiana. Voglio ricordare solo le arance distrutte dagli agricoltori per ottenere i contributi aima.
Gli agricoltori si sono resi conto che quello che appariva bello in realtà è stata una trappola tesa molti anni fa. Un paese dei balocchi che si è trasformato in un incubo, come diceva Craxi.
Hanno tutto il diritto di fare sentire il loro pensiero, così come gli ecologisti hanno il diritto di chiedere un mondo più pulito. E l’industria invece di delocalizzare dovrebbe farsi parte attiva in questo momento storico e non fomentare il divide et impera con l’auspicio di prendersi qualche briciola che cada dall’alto.