Anche in Europa, ci sono ancora strascichi delle polemiche suscitate dal “bosco di braccia tese” di Acca Larenzia e dalle iniziative del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, volte a valorizzare la figura di Antonio Gramsci. Si tratta di fatti apparentemente scollegati, che però rivelano aspetti importanti e connessi delle dinamiche della nostra società e della nostra cultura politica.
La ricorrente adunata di neofascisti davanti a quella che fu la sezione del Msi nella via che prende il nome da un’antichissima divinità romana ha suscitato quest’anno scandalo e timori – perfino nell’Unione Europea – incentrati su di un presunto ritorno del “pericolo fascista”. In realtà, in questa, come in altre analoghe manifestazioni commemorative (per tutte, le cerimonie funebri in onore dei caduti della Rsi nel cimitero milanese di Musocco), non vi è che l’espressione e l’esigenza di rivendicare una continuità ideale e morale con mondi irrevocabilmente consegnati al passato nonché di riconoscersi in una comunità all’interno della nazione; continuità che non prelude ad alcuna restaurazione – peraltro vietata dalle leggi della Repubblica italiana – ma aspira a trasferire valori nella realtà odierna, a questa adattandoli senza tradirli, in una dialettica auspicabilmente pacifica con le altre componenti culturali e politiche della nostra società.
Prescindiamo dalle polemiche attinenti alla meschina, quotidiana bottega della politica politicante; quelle per cui passa in secondo piano il contesto storico di quella strage e di quella guerra civile strisciante che provocò tanti morti, specie fra i giovani, e passa in secondo piano lo scandalo – questo sì! – di delitti impuniti, commessi da destra e da sinistra in quegli anni. Qui vogliamo sottolineare che fra le cause della crisi della politica, resa palese, fra l’altro, dal crescente astensionismo nelle urne elettorali, un ruolo non secondario va ravvisato nell’attenuazione, nel degrado se non nella scomparsa della passione politica, fatta anche di memoria e di simboli.
Il saluto romano
Il saluto romano – come anche il suo contrario, quello col braccio alzato e il pugno chiuso, nato negli anni ’20 del Novecento in Germania e adottato dalle milizie paramilitari del Partito Comunista – sta dunque a denotare l’appartenenza a una comunità di vita e di pensiero, quale che ne sia la nostra valutazione. Nacque anch’esso negli anni ‘20 del Novecento – ma ce ne fu una prima manifestazione addirittura sul finire dell’800 negli Stati Uniti, come saluto alla bandiera – per poi arrivare all’adozione di quel saluto da parte dei protagonisti dell’impresa fiumana e poi dal regime fascista, sulla scorta di un’erronea e retorica ripresa dei valori della romanità. In realtà, gli storici hanno da tempo dimostrato che gli antichi romani non si salutavano in quel modo e che, probabilmente l’equivoco scaturì da un dipinto di Jacques-Louis David, che ritraeva così gli Orazi in atto di congedarsi dal proprio padre. Trasferito nella simbologia del Fascismo – di tutti i fascismi europei – quel saluto fu poi adottato dai reduci del regime, riunitisi sotto la bandiera del Movimento Sociale Italiano e, nelle varie filiazioni di gruppi sorti fuori dal cosiddetto arco costituzionale, fu affiancato da altri simboli, quale la croce celtica, pure presente ad Acca Larenzia.
La fine delle grandi passioni ideologiche
Si tratta di fenomeni residuali, segnali di un’epoca al tramonto: quella delle ideologie, dei partiti-chiesa e delle loro sezioni e scuole. E’ un bene? E’ un male? Si è detto che la difesa e la promozione delle ideologie ha spesso portato all’esplosione di violenze più o meno estese, e questo, se guardiamo al Novecento, è fuor di dubbio; ma viviamo forse in un mondo dove regnano la pace e l’armonia fra i popoli? Ci sembra che non siano tramontati, con le ideologie, gli egoismi di Stati e leader politici, che continuano a sfociare in guerre sanguinose, mentre i conflitti d’interessi di corporazioni e di ceti sociali, per non parlare della violenza che si sprigiona dalle nostre periferie e nelle megalopoli del globo, e che mette quotidianamente a repentaglio la civile convivenza e la pace sociale.
L’individuo, abbandonato a se stesso e strappato alle comunità intermedie, sempre più svilite – famiglia, partito, chiesa, sindacato – alla loro cultura, alle loro memorie, ai loro simboli, reagisce in due modi contrapposti, nei confronti delle pubbliche autorità: o chiede loro protezione, spinto dalle mille paure di oggi, o se ne allontana.
La questione gramasciana
Ma veniamo alla “questione gramsciana”, che richiede una premessa. Se si fa eccezione per l’intervista rilasciata a “Libero” da Gennaro Malgieri, nelle polemiche di questi giorni, a quanto ci risulta, non vi è traccia degli antecedenti di questo interesse della galassia culturale che si conviene di collocare a destra per Gramsci. Eppure tali antecedenti ci furono e furono cruciali per la nascita e l’affermazione di quella scuola di pensiero che andò sotto il nome di “Nuova Destra”, soprattutto in Francia e in Italia e per la ventata di novità che portò nel discorso pubblico. Ben prima delle “Tesi di Fiuggi” e della nascita di Alleanza Nazionale dalle ceneri del MSI, giovani intellettuali italiani in vena di rinnovamento senza tradimenti delle proprie radici, cominciarono a guardare aldilà degli steccati dove erano confinati – un po’ spontaneamente, un po’ perché costretti dall’esterno – e a prendere contatto con le culture “avverse” e i loro esponenti, animati da analoga volontà di rinnovamento.
Il gramscismo riletto dalla Nuova Destra francese
In Francia, prendendo spunto in particolare dal gramsciano “L’Ordine Nuovo”, Alain de Benoist assimilava e rielaborava la nozione di egemonia culturale, liberandola però dai vincoli – peculiari del gramscismo – imposti dal Partito e, in generale, dalla politica; in Italia, a questa apertura metapolitica esplorata da Marco Tarchi, Stenio Solinas e altri (fra cui il sottoscritto), attraverso riviste come Diorama Letterario, La Voce della Fogna, Elementi e Trasgressioni, si affiancava una rinnovata attenzione nei confronti della tradizione nazionale italiana, dalla quale non potevano – e non possono essere esclusi – autori pur diversi fra loro quali, appunto Gramsci e Gentile, Croce e Gobetti, ma anche intellettuali militanti sul fronte sindacale, sulla scorta della lezione soreliana, quali Alceste de Ambris, Filippo Corridoni e altri, sul crinale della contrapposizione destra/sinistra.
Del resto, su questo crinale si trovarono ad operare componenti non secondarie dello stesso movimento fascista, non poche delle quali, dopo la sconfitta e non certo per mero spirito utilitario, trasmigrarono nell’area socialcomunista. Intendiamoci: come lo stesso ministro Sangiuliano ha sottolineato, simili inclusioni non significano mirare a una sorta di marmellata universale; si tratta invece di prendere atto che anche in Italia, come in altri grandi realtà nazionali, il popolo è una realtà composita spesso per lingua e per religione, ma sempre per orientamenti politici e ideali. A volte, tale contrapposizione è sfociata in una guerra aperta, come fu nella Francia giacobina contro quella legittimista o nella Spagna degli anni ‘30 del Novecento o ancora nella nostra cruenta guerra civile dal ’43 alla fine del secondo conflitto mondiale. Qui si tratta di riconoscere dignità a fasi della nostra storia di popolo ed a coloro che, su fronti contrapposti, per le rispettive idee sacrificarono la vita. Viene in mente, al riguardo, il nobile discorso dell’allora presidente della Camera, Luciano Violante, il quale, nella prospettiva di una sincera, duratura pacificazione, rese onore al patriottismo di fascisti e antifascisti. Visto il clamore meschino delle polemiche di queste settimane, temiamo che quell’appello sia caduto nel vuoto.