Quando fu arrestato Toni Negri, il 7 aprile 1979, confesso di aver provato un’oncia di solidarietà con lui. Non per la sua levatura culturale, né ovviamente per la sua militanza, ma perché intravidi nell’operazione che portò alla sua cattura a conferma dell’entrata a gamba tesa di una parte della magistratura, sempre più organica alla sinistra comunista, sulla scena politica. Chi non ha avuto almeno vent’anni nella seconda metà di quel decennio, difficilmente può comprendere tale sensazione. Due anni prima, col movimento del ’77, l’estrema sinistra degli “indiani metropolitani” aveva cacciato Lama dall’università di Roma e con la rivolta di Bologna aveva colpito il fiore all’occhiello del vero o presunto buongoverno del Pci in Emilia. Non a caso, una delle prime vittime della sommossa era stata il ristorante Al Cantunzein, locale preferito dai notabili comunisti, che fu devastato dagli insorti. Un anno dopo, con il Pci che entrava nell’area di Governo, c’era stato il delitto Moro. Solo allora le Brigate Rosse, rimaste sedicenti fin quando assassinavano militanti missini, sparavano a celerini e carabinieri, sequestravano sindacalisti della Cisnal, cominciarono a essere prese seriamente di mira. E dal perseguimento dei delitti di sangue si passò ai mandati di cattura nei confronti dei reati d’opinione, in base al famoso “teorema” del giudice Pietro Calogero, formulato in molti casi sulla base di denunce di un Pci desideroso di marcare le distanze da imbarazzanti “compagni che sbagliano”, e anche di vendicarsi per le aggressioni di cui erano vittime molti giovani militanti della Fgci.
Bersaglio ideale della manovra fu il professor Antonio Negri, detto Toni, docente universitario e in futuro pensatore di fama internazionale, accusato di essere il “grande vecchio” di un’area dell’autonomia a sua volta accusata di voler sovvertire le istituzioni democratiche. A differenza di altri intellettuali accusati di utilizzare la macchina da scrivere come una P38, non era mai stato né iscritto né vicino al Pci.
Occorre aggiungere che Negri aveva tutti i numeri per recitare il ruolo del “cattivo maestro” e del “grande vecchio”, anche se in realtà aveva al momento dell’arresto 44 anni. Innanzitutto, non era simpatico. Aveva l’albagia del barone universitario e, pur provenendo da una famiglia modesta (o forse proprio per quello), il sussiego di chi è convinto che la sua superiorità intellettuale comporti anche una superiorità sociale. Non so quanto fosse vero il pettegolezzo che lo voleva, dopo aver lavorato l’intero pomeriggio a un saggio sull’emancipazione dei ceti subalterni, farsi servire la cena da un cameriere in guanti bianchi. Ma era verosimile, e tanto basta per dare le misure di una persona. Non so neppure quanto sapesse e condividesse delle reali condizioni morali e materiali della classe operaia, lui che era stato un “operaista”. Credo che abbia resistito con estrema difficoltà alle ristrettezze della carcerazione preventiva (due mesi di cessi in comune, diceva Sartre, distruggono ogni élite); e infatti fece di tuttoper tenersene fuori, dalla candidatura con i radicali alla fuga in Francia, sino alle ultime contrattazioni per ottenere, per quanto latitante, i benefici dei dissociati. Senz’altro era, per usare un’espressione di cui oggi si fa uso e abuso, un narcisista, e non fu grato neppure a Pannella, che con la sua ossessiva ricerca della popolarità – la stessa che gli faceva candidare Cicciolina, ma anche Enzo Tortora, o porre domande inquietanti su via Rasella – l’aveva tolto di galera anche per denunciare l’assurdo della carcerazione preventiva. Era un uomo di indubbiaintelligenza, ma è noto che l’intelligenza non rende particolarmente simpatici, e astuzia di coloro che la possiedono è di non ostentarla. Il suo bovarismo intellettuale, ma anche la sua ansia di affermazione personale, lo condussero un po’ ovunque, fra le costellazioni della politica italiana, tranne che nel partito comunista, di cui non apprezzò il dogmatismo. Fu un giovane esponente dellaGioventù di azione cattolica, con cui entrò in politica, ma in opposizione al conservatore Luigi Gedda, uno degli uomini che, forse più di De Gasperi, salvò l’Italia dal comunismo. Militò nel Psi, meno dogmatico del Pci, e ne fu consigliere comunale a Padova, salvo poi trasmigrare nel Psiup, dopo la scissione del 1964. E fu uno fra i fondatori delle Edizioni Marsilio, così nomata in onore di quel Marsilio da Padova di cui apprezzava l’eretico ghibellinismo.
Pur con tutti questi difetti, e anche con il torto di essere stato l’ispiratore di un Luca Casarini, Negri rimane una delle vittime dell’entrata a gamba tesa della Magistratura sull’agone politico. Di questa ingerenza giudiziaria per prima fece le spese la destra: basta pensare alle false accuse a Rauti per la strage di piazza Fontana, alla vigilia delle elezioni del 1972, o alle persecuzioni giudiziarie contro il professor Paolo Signorelli, che hanno scandalizzato anche Piero Sansonetti. Ne fece le spese poi la sinistra extraparlamentare, prima che, con Mani Pulite, altri teoremi portassero alla delegittimazione dell’intera classe dirigente non postcomunista (o postfascista) della prima Repubblica, e poi alla persecuzione giudiziaria di Berluscono. Non a caso, il primo a rendersene conto sarebbe stato uno degli esponenti più lucidi della vecchia classe dirigente democristiana, quel Francesco Cossiga il cui cognome i discepoli del professore padovano scrivevano con la K. Quando Negri tornò in Italia per scontare la pena Cossiga andò a trovarlo in carcere, da presidente della Repubblica, e in una memorabile intervista a Michele Brambilla sul “Corriere” il 7 febbraio 2002 lo definì la prima vittima delle deviazioni della magistratura. Per questo, pur non condividendo nessuna delle sue idee, e non provando nemmeno simpatia per lui, non posso fare a meno di ricordarlo con rispetto, non come maître à penser, ma come bersaglio di uno dei tanti teoremi a causa dei quali siamo diventati tutti un po’ meno liberi.