“La grande colpa dei generali – sosteneva Sainte-Beuve – non è di perdere le guerre, ma di scrivere noiosissimi memoriali per spiegarci perché le hanno perse.” Questo arguto aforisma del sommo critico letterario del Secondo Impero non si attaglia al generale Roberto Vannacci, messo sotto inchiesta destituito (anzi, nel gergo eufemistico dei militari, avvicendato) dal comando del Geografico Militare per aver pubblicato in autoedizione il pamphlet Il mondo al contrario.
Vannacci non ha perso nessuna battaglia, anche perché, fortunatamente, l’Italia mentre egli era in servizio non ha combattuto nessuna guerra; quando però è stato impegnato in missioni di pace, si è comportato egregiamente, e il suo comportamento gli ha fatto ottenere molte decorazioni, italiane ed estere. In più il suo libro è tutt’altro che noioso. E non perché l’autore possa vantare tre lauree magistrali e due master (Croce e Prezzolini non erano laureati) e parli correntemente molte lingue: un cretino poliglotta è più pericoloso di uno che parla solo l’italiano, perché diffonde meglio le sue idee. Non è noioso perché è scritto correttamente, è ben argomentato (si condividano o meno le sue argomentazioni), è documentato pure con citazioni di documenti ufficiali, si fa leggere volentieri anche se sarebbe azzardato definirlo un capolavoro del pensiero di destra. Ingenuità e cadute nel luogo comune non mancano, ma nell’insieme il libro è molto lontano dallo stile un po’ legnoso, fatto da capoversi rigidamente concatenati, tipico di molti militari usciti dalla Scuola di Guerra. Alcune delle pagine più belle sono quelle dedicate all’emozione di Vannacci nell’entrare, fresco di Accademia, a far parte del IX Reggimento Incursori Col Moschin, varcando, “con le gambe quasi tremolanti e un rivolo di sudore freddo sulla schiena, quel portone alla Caserma Vannucci a Livorno”, da cui erano partite schiere di eroici arditi del mare.
Insomma, Il mondo al contrario è lontano dall’immagine caricaturale che ne è stata fornita dalla stampa e che purtroppo è stata presa per oro colato dai vertici militari, e non solo. L’aspetto più singolare della vicenda che ha coinvolto il generale è proprio questo: nonostante che del pamphlet siano state già vendute on line 22.000 copie, il libro non è stato letto proprio da coloro che si sono affrettati a stroncarlo insieme all’autore, sulla base di alcune frasi virgolettate, e a volte nemmeno di quelle. Altrimenti nessuno avrebbe preso in giro Vannacci per essersi presentato come un emulo di Giulio Cesare (più modestamente, a p.110, sostiene di sperare che nel suo sangue, come in quello della maggior parte degli italiani, scorra qualche goccia di quello del condottiero, come di altri grandi protagonisti della nostra storia), che ha rivendicato il “diritto all’odio e al disprezzo” senza specificare che lo faceva esplicitamente nello stesso spirito di Oriana Fallaci (p. 281), che invitava al disdegno nei confronti degli omosessuali, mentre si limitava a considerarli fuori della norma. Certe sue prese di posizione possono piacere o non piacere – per esempio non condivido il suo odio per le nutrie e certe prese di posizione contro i padroni dei cani, o i suoi giudizi in materia di ogm – e la sua nostalgia per una famiglia stile “mulino bianco” è certo lontana dalla storia. La convinzione che con un sostanzioso bonus bebè le mamme (o, a seconda delle libere scelte dei genitori, i padri) rimarrebbero a casa senza aver bisogno di mandare il figlio al nido è commovente, ma lontana dalla realtà; e naturalmente molte opinioni espresse nel volume possono essere più o meno condivisibili.
Però i problemi emersi con il pamphlet di Vannucci sono altri e riguardano non la condivisibilità delle sue opinioni, ma il diritto non suo, ma di ciascuno di noi, con o senza stellette, a esprimerle. La giustificazione dell’avvicendamento-rimozione del generale risiede nel fatto che, in quanto alto ufficiale, avrebbe mancato al dovere della riservatezza.Lasciamo stare l’“alto”: se può esprimere le sue opinioni il caporale, è libero di manifestarle anche il generale. Ma la questione è diversa. Le Forze Armate sono molto cambiate dai tempi in cui i militari per protestare facevano firmare le lettere di protesta ai giornali alle mogli, perché se avessero firmato loro sarebbero incorsi nel reato di “reclamo collettivo”. Il voto di verginità politica dei militari è venuto meno da tempo e non è infrequente il caso di ufficiali e sottufficiali che fanno il consigliere comunale o l’assessore. Nella manifestazione del proprio pensiero chi porta le stellette ha un solo vincolo in più rispetto a un privato cittadino: non scrivere di argomenti militari senza avere preventivamente sottoposto il testo alla verifica dei superiori. E anche in questo ambito la giurisprudenza è abbastanza elastica: è del giugno scorso una sentenza del Consiglio di Stato che reintegra un maresciallo degli Alpini degradato per aver espresso pubblicamente critiche alle gerarchie in materia di suicidi dei militari.
Questa politicizzazione e sindacalizzazione delle Forze Armate, almeno inizialmente voluta dal Pci, che iniziò negli anni Settanta una politica di ricerca del consenso fra i quadri militari (tipico il caso della “legge Angelini” sugli avanzamenti), può piacere o non piacere; però rimane una realtà. Non si capisce di conseguenza perché contro Vannacci sia stato avviato un provvedimento disciplinare, in quanto militare. E, personalmente, mi hanno ferito le espressioni con cui il ministro della Difesa ha accompagnato il provvedimento, parlando di “farneticazioni” a proposito di un libro che conosceva solo di seconda mano, attraverso le estrapolazioni di una stampa non certo favorevole al generale. È vero che Crosetto non è nuovo a espressioni forti: nel 2011 da membro del governo definì “da psichiatra” la manovra Tremonti. Ma certe forme di rispetto in uso nell’ambito militare consigliano di non umiliare pubblicamente un subalterno, nemmeno un sergente davanti alla truppa. Figuriamoci un generale a due stelle pluridecorato con medaglie sia nazionali che estere.
Un’altra argomentazione, più sottile, riguarda il fatto che Vannacci riveste un’alta carica pubblica, e di conseguenza sarebbe tenuto a doveri di riservatezza anche in ambiti che travalicano la sua stretta competenza. L’argomentazione sarebbe giusta, se tali doveri fossero rispettati da tutti coloro che si trovano, nell’ambito civile, in una posizione analoga alla sua. Ma gli esempi contrari sono molti, e non solo presso la magistratura, con i giudici che intervengono spesso a gamba tesa nel dibattito politico. Basti pensare al rettore dell’Università per Stranieri di Siena che si espresse pubblicamente contro la Giornata del Ricordo e, più, di recente, si è rifiutato di esporre la bandiera a mezz’asta dopo la morte di Berlusconi, venendo meno a un dovere d’ufficio. Se il governo per questo motivo lo avesse “avvicendato” si sarebbe gridato, non a torto, allo scandalo.
Il fatto è però – e qui da una questione di metodo si passa a una di merito – che, anche a rinunciare alla dietrologia e a dimenticare le sue denunce sui rischi dell’uranio impoverito, Vannacci ha pagato e continua a pagare duramente per aver toccato un nervo sensibile. E che quello che è successo a lui potrebbe toccare a chiunque. L’Italia è uno strano paese in cui si può fare e dire di tutto, ma chi critica l’immigrazione, considera anormale l’omosessualità, mette in dubbio l’impellenza della transizione energetica, rischia nel migliore dei casi l’emarginazione. E poco importa che il Pd nel 2008 abbia candidato al Senato il generale Mauro Del Vecchio, che aveva definito gli omosessuali “inadatti” al servizio militare. Molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e la profezia di Augusto Del Noce, secondo cui l’ex Pci sarebbe divenuto in partito radicale di massa, si è ormai inverata. Chi oggi si dichiara scettico sulla “fluidità di genere” dev’essere esposto alla pubblica gogna. E la libertà di espressione garantita dalla Suprema Carta viene meno, perché, come sostiene la Schlein, “la Costituzione non mette le opinioni sullo stesso piano”, per cui ci sono cittadini che hanno più diritti degli altri, come i porcelli nella Fattoria degli animali.
Sotto questo profilo, l’incidente legato alla pubblicazione del libro di Vannassi è forse il più insidioso fra quelli che hanno accompagnato dieci mesi di governo a guida Fdi. Le parole di Crosetto hanno ferito molta parte del popolo della destra, le cui opinioni collimano spesso con quelle del generale. E in una dinamica elettorale caratterizzata da un alto tasso di astensionismo, in cui vince chi riesce a non perdere i propri elettori più che ad acquisire quelli degli altri, molti votanti di Fratelli d’Italia, già delusi dall’incremento degli sbarchi, potrebbero essere indotti a disertare le urne nella convinzione che tanto, governi la destra o la sinistra, la dittatura del pensiero unico non viene meno. Paradossalmente, il centrodestra dovrebbe essere grato a Salvini se, candidando il generale alle Europee nelle liste della Lega, facesse rimanere in qualche modo i voti di molti delusi “in famiglia”.
Molto meglio sarebbe stato se il pamphlet del generale Vannacci fosse rimasto quello che effettivamente è: lo sfogo, ora accorato, ora un po’ sopra le righe, di un uomo che, nel pieno dell’“età forte”, al culmine di una brillante carriera, si accorge che il mondo in cui è nato e cresciuto sta per essere completamente stravolto, che molti valori si sono ribaltati, che quello che gli è stato insegnato a scuola, al catechismo, in Accademia, è superato o addirittura ribaltato, che con un “motus in fine velocior” ci si avvia verso un pianeta in cui retaggi culturali e identità sessuali sono destinati a scomparire liquefacendosi in un planetario meticciato. Purtroppo, non è stato così, una confessione personale è stata interpretata come un manifesto politico e certa sinistra sogna per Vannacci la sorte di un Dreyfus, mentre certa destra magari vede magari in lui un nuovo, meno esitante, Boulanger. E il successo del Mondo al contrario – un libro che avrebbe meritato di essere venduto meno, ma di essere letto meglio – rimane uno dei tanti sintomi della fragilità e delle contraddizioni della politica italiana.
Bella recensione. Concordo. Però era sufficiente che non ci fosse l’eccesso di ‘zelo persecutorio’ (perchè tale è, checché se ne dica) da parte di un Ministro della Difesa (teoricamente rappresentante della destra) e Stato Maggiore Difesa. Vannacci racconta, più o meno bene, in un pamphlet che non vuol naturalmente essere un saggio scentifico, il suo sconcerto di fronte a tante manifestazioni ‘bizzarre’ del mondo occidentale d’oggi. Idee particolarmente condivise a destra, credo. Non insulta nessuno e non rivela segreti militari, non esterna contro le gerarchie militari né contro la NATO. Ed allora?
Certo,dobbiamo chiede alla Schlein e anche a Mattarella il permesso di dire certe cose sapendo però già quale sarà la risposta. E’ proprio un mondo al contrario,che vogliamo fare? Dico un cosa ancora: il governo non ha fatto una bella figura perchè non bastano le chiacchiere nell’affermare certi valori,ci vogliono i fatti
La pubblica manifestazione del pensiero nelle Forze Armate fu fortemrnte voluta dal PCI e, non a caso, venne partorita proprio durante il Compromesso Storico DC-PCI con la legge 382/1978 Norme di principio sulla disciplina militare, norma oggi presente Codice dell’Ordinamento Militare. Nel pubblicare il libro il generale non era tenuto a chiedere alcuna autorizzazione visto che non ha trattato argomenti di servizio e/o riservati.
Quanto a Dreyfus, meglio non mi addentrarsi in dei paragoni che offendono ancora oggi il predetto ufficiale francese la cui infernale macchinazioni nei suoi confronti grida Orrore e Vergogna.
Sicuramente nel provvedimento di trasferimento che ha ha fatto perdere l’incarico al generale- sarebbe interessante leggerlo – non è riportata la motivazione.