Pubblichiamo la seconda parte del racconto “Ricordando mio padre (con le sue 24 o 25 auto) di Gianni Marocco
Il giorno successivo avevo preso un appuntamento a colazione in un accogliente ristorante- pizzeria italiano della calle Maldonado e Gaboto, un locale senza pretese, ma caldo, accattivante, con un padrone partenopeo che sa cucinare a puntino le migliori pizze della città. Per di più poco frequentato a mezzogiorno. Con un terzo amico di papà, un architetto con la sua stessa passione per lo stile georgiano, i gatti, i vecchi catorci.
Intanto, la notte precedente, incuriosito dai ricordi, cercai l’articolo di papà sul nuovo porto, in spagnolo, la Escollera Sarandí, l’Hotel Nacional di Reus, lì vicino, con altri articoli in appendice. Mio padre scrisse anche un romanzo, oltre trent’anni fa, in italiano, pubblicato quando era Console Generale a Porto Alegre: Ritorno al Barrio Reus. Decisi quindi, dopo molti anni, di tornare un pomeriggio di sabato alla Escollera Sarandí, della quale mi rimanevano reminiscenze alquanto sbiadite, fotografie di mio padre. Anche un modo per tentare di capirlo meglio, condividere qualcosa che amava: un po’ come i cannoli siciliani offerti ai collaboratori dal Commissario Montalbano, personaggio creato da Andrea Camilleri, dopo la morte del dottor Pasquano, medico legale perennemente grugnone, golosissimo, nella famosa, ultraventennale serie televisiva, continuamente riproposta da Europa-Europa.
L’inizio della Escollera da molti anni è stato svilito, abbruttito, dalla spianata per i containers, che aderisce al molo, lungo 950 metri, per almeno un quarto della sua estensione. Sulla Rambla, come un tempo, forse di più, cattivo odore di decomposizione. Oggi non mi pare ci sia del glamour nella Sarandí, abbastanza male in arnese, piena di buchi, con rifiuti e cocci di vetro. Venditori ambulanti di tortas fritas, il garrapiñero con il suo misero carrito dove prepara, al momento, la garrapiñada, le arachidi tostate e caramellate nello zucchero di canna. Gente pescando, ragazzini, ma meno di un tempo, mi pare. Alcuni con la latta o il medio mundo (un guadino grande, di circa 2 metri di diametro), cioè un anello di ferro che regge una rete a maglia fine con lungo palo di legno. Non si vedono canne paraboliche in fibra di vetro o mulinelli sofisticati. Più che sport o divertimento pare necessità, per riempire la casseruola o la padella.
La Sarandí fu construita a principio del ‘900 con l’obiettivo di proteggere le navi ancorate nel porto di Montevideo dai temporali del Sud e dell’Est. La Escollera si è convertita nel miglior luogo di pesca della capitale per la buona profondità dei paraggi. Sulla punta, il faro segna l’entrata al porto assieme alla Escollera del Oeste, costruita contemporaneamente. Tra le due, il canale di accesso, che non è mutato da allora. La Escollera non mi produce sensazioni particolari, mi pare un posto squallido, con facce patibolari in giro. Meglio le fotografie, il filtro ed il fascino dell’immagine rubata al tempo, depurata. Forse, mio padre innamorato vedeva le cose più belle, diverse…
Presi, dunque, la decisione d’incontrare un terzo amico di papà, l’architetto professor Ramón Luis Ludovisi Reyes. Oltre i soliti abbracci e condoglianze, le rimostranze per non averlo informato del decesso di mio padre, dove è stato tumulato, iniziammo a conversare.
– Parlami di mio padre, Ramón, delle sue passioni, che immagino conoscere, ma come figlio sempre un po’ critico e scettico.
– Tuo padre, caro Federico, amava le auto, i gatti, la Germania del Kaiser, di sicuro non quella nazista, l’architettura neoclassica e georgiana, gli piaceva scrivere. Non conosco molto bene l’italiano, ma direi che scriveva in modo elegante, arguto. Sulle gonnelle, eventuali, non posso dire, e non solo perchè sei suo figlio, ma perchè tuo padre, riservato di natura ed un po’ all’antica, mai parlava di eros esplicito o personale. Per lui valeva ancora la regola delle ‘4S’: a tavola non si parla mai di soldi, servizio, salute, sesso. E neppure con gli amici!
– E neppure di Dio e del mal di stomaco…
– Verissimo. Adorava i gatti, che Konrad Lorenz definiva “graziose tigri domestiche”. Forse più di me, che sono uno strambo gattofilo in un Paese zeppo di cani, che li detesta! Tuo padre aveva, come sai, due magnifici gatti di razza d’Angora turco, bianchi, Bibì e Bibò, castrati; con il pelo lungo e setoso sviluppato per proteggersi dal clima rigido dell’Anatolia. L’Angora turco è una razza nata nel corso del Quattrocento, pare.
– Ad Ankara, immagino.
– Sì, la Turchia considera questi gatti un patrimonio nazionale ed istituì un programma di allevamento per garantirne la conservazione, concentrandosi sugli esemplari bianchi con gli occhi blu. Come Bibì e Bibò. Celebri per il corpo allungato come ballerini e per il pelo morbido, gli Angora turchi sono felini giocosi ed intelligenti, affettuosi con i loro padroni. Che fine han fatto?
– Se li è portati a casa Mariella, la domestica di mio padre…
– Speriamo che ne abbia cura sul serio. Il gatto è un animale sociale, anche se molti non lo sanno. Nel suo percorso di domesticazione esso ha fatto dei progressi per avvicinarsi agli esseri umani, importanti a livello comunicativo. Esempio il miagolìo: quell’intensità di suono a cui noi rispondiamo maggiormente. Proprio per stare con noi i gatti hanno sviluppato questo tipo di comunicazione. Non è vero che il gatto si affezioni alla casa, non alle persone. Il gatto crea dei legami intensi con le persone che ama, anche se è un animale territoriale. È un mammifero indipendente, possiede un’intelligenza diversa da quella del cane, è fortemente empatico.
– Vedo che li ami sul serio, Ramón.
– Bibì e Bibò hanno una personalità straordinaria. Si fanno amare. Bisognosi d’affetto, cauti, giocherelloni, ma esigenti, come consapevoli del loro rango, di un sangue nobilissimo…
– Tu, Ramón, hai disegnato la casa a mio padre, non è così?
– Lo ammetto. Sono reo confesso! Gli consigliai anche di comprare i due estesi lotti a Lagomar, prima del 1994, quando lui era Console Generale a Rosario, e Ciudad de la Costa fu dichiarata ‘Città’, riunendo i balnearios di Shangrilá, San José de Carrasco, Lagomar, Solymar, Lomas de Solymar, El Pinar ecc. Località che si affacciano sul Río de la Plata, tra l’ arroyo Carrasco e l’ arroyo Pando, con 18 chilometri di spiagge.
– Credo che fino alla mia nascita erano località di case per il fine settimana e l’estate.
– Sì, Federico, fu a partire dal 1980 ch’ebbe una crescita esplosiva. Molti giovani scelsero quei balnearios per viverci. Oggi saranno più di 120 mila abitanti, la seconda città dell’Uruguay.
– Scelse lui lo stile della casa?
– Lo facemmo assieme. Come sai, l’architettura georgiana è il nome dato nei paesi anglofoni agli stili architettonici che si sono susseguiti fra il 1720 e il 1840, che prendono il nome da quattro monarchi inglesi di nome George. È il proseguimento ideale dell’attività dell’architetto Inigo Jones, il ‘Palladio’ inglese, che introdusse il rinascimento italiano, in contrasto con il tentativo di elaborare un ‘barocco locale’ da parte di Christopher Wren, l’autore della Saint Paul’s Cathedral.
– Si capisce che sei stato professore della Facoltà d’Architettura.
– Nessuno è vergine da colpe, Federico… L’architettura georgiana è caratterizzata dalle
proporzioni matematiche, dalla regolarità simmetrica, dagli elementi classici e decorativi derivati
dalla Roma antica. Caratteristiche dello stile sono l’uso di pietre e mattoni, l’impiego di portici per
rendere enfatici gli ingressi, ad esempio. L’architettura georgiana venne largamente esportata nelle colonie britanniche. A differenza del barocco, utilizzato per chiese e palazzi, lo stile georgiano coloniale era più semplice; subito fu amato dall’aristocrazia e dalla borghesia.
– La costruzione della casa è solo la realizzazione di una dimora oppure è qualcosa d’altro, la ricerca di un senso, la volontà di raggiungere un significato, un compimento, come per i muratori la costruzione di un edificio, passo dopo passo, per gioire, alla fine, con la “festa del coronamento”, in uso fra le maestranze svedesi, quando un lavoro è terminato? Come scrive ne La festa del coronamento, lo scrittore svedese August Strindberg, nel 1906.
– È vero, Federico. Dopo il raggiungimento dell’indipendenza, fu adottato lo Stile federale che rappresentò in America l’equivalente dello Stile regency in Inghilterra, aggiungendo un tocco di eleganza e luminosità alle strutture. Tratto distintivo dello Stile regency si trova nelle facciate, ove la porta è affiancata da due colonne che sostengono un balconcino, come nella residenza di tuo padre di Lagomar. Immagino che la userai ora.
– Non lo so, mia moglie ha qualche riserva sulla lontananza da dove lavora, nella Ciudad Vieja; c’è anche la questione della Fondazione per la ‘Collezione delle Auto’, della quale vorrei parlarti. Se si concretizza, occorrerà isolare la casa con una fila di eucalipti, per darle privacy.
– Tuo padre me ne aveva accennato. La rimessa la ricostruimmo dopo la casa.
Gli mostrai e diedi lo stesso testo della lettera del 24 gennaio 2023, come con Pedro e Juan José. La lesse con attenzione, approvando il contenuto con cenni del capo.
– Spero che all’Intendenza di Canelones non la facciano troppo lunga. Quando qualcosa si
colloca fuori dalla consuetudine, o arreca lavoro, il burocrate tende a frapporre ostacoli, fare il difficile, lo zelante, il super pignolo… Mi sembra incredibile che stiamo facendo questo discorso quando a Natale, meno di due mesi fa, eravamo tutti assieme, tu con Maria Laura e le bambine, Milena e Lavinia, a celebrare con l’asado. Stava benissimo tuo padre, almeno così sembrava.
– Crollò di colpo a Capodanno, Ramón. Dammi qualche consiglio riguardo la faccenda della Fondazione. Ti manderò per ricordo l’album di tutta la collezione.
– Grazie, Federico. Lo farò, anche se non ho conoscenze nell’Intendenza. Se ti è utile posso
darti una mano con le auto… Belle, ma un rompicapo che può essere infernale.
– Sì, Ramón. Sebastián, il pensionato meccanico che con mio padre curava la collezione, se ne sta ancora facendo carico. Un uomo prezioso. Un vero intenditore e senza paura di sporcarsi le mani; egli spalma la crema sul cuoio, tiene sempre gonfi i peumatici, muovendo l’auto per evitare la loro ovalizzazione, ricarica le batterie, cambia i carburanti e lubrificanti, lava le vetture.
Il giorno dopo carico Maria Laura sulla Onix ed andiamo a Lagomar a ritirare la Camaro che mio padre decise di regalarmi. Sebastián, avvisato, mi assicura che provvederà a togliere, prima del nostro arrivo, i teli protettori perchè le auto possano rivelarsi, una volta ancora, in tutto
il loro luccicante splendore, che sfida il passare degli anni. Dalla morte di mio padre, Sebastián si è provvisoriamente installato nella residenza, per ragioni di sicurezza. Oggi è pieno di ladri.
Il colpo d’occhio è da mozzafiato. Mai l’avevo percepito, con mio padre vivo, in tale dimensione, quasi magica. I modelli ed colori delle carrozzerie, le cromature, si alternano con studiato senso dell’estetica e della massima valorizzazione. Tutto, nel cosiddetto hangar, è pulitissimo, lucente, senza un grano di polvere. Grandi ventilatori alle pareti provvedono al ricambio dell’aria. Chiedo a Sebastián di connettare all’amplificatore uno dei nastri musicali che mio padre amava ascoltare nella rimessa, da solo, al pomeriggio specialmente. Sono tutti brani anteriori alla Grande Guerra. Musica classica italiana e tedesca, i Concerti Brandeburghesi di Bach, i Concerti per Piano di Mozart, Rossini, le Marce militari tedesche ed austriache: la Des Großen Kurfürsten Reitermarsch di Cuno von Moltke, la Radetzkymarsch di Johann Strauss (che mi ricorda il viennese Concerto di Capodanno), la Hohenfriedberger Marsch, composta per commemorare la vittoria dei dragoni prussiani da Federico II, pare, la Köeniggraetzer Marsch, dopo Königgratz nel 1866, la Preußens Gloria, per celebrare la vittoria di Sedan, di Johann Piefke.
– Mio padre, Maria Laura, non amava uno degli aspetti caratteristici della vita sociale americana, la “religione civile”, minimo comune denominatore morale, patriottico e vagamente spirituale che si suppone condiviso dalla grande maggioranza degli statunitensi, pure separati da una molteplicità di appartenenze religiose. La necessità, quindi, per rafforzare l’identità nazionale e spirituale di designare continuamente avversari, che servono a sottolineare la distinzione fra ‘noi’ e ‘loro’, gli estranei alla patria, simboli, valori consolidati (immaginari, per mio padre).
– Tuo padre, al contrario, realmente amava la Germania – nota mia moglie.
– Sì, quella del passato. Con capitale Berlino, valuta il Goldmark, inno imperiale Heil dir im Siegerkranz (la stessa musica di quello britannico, eredità degli Hannover), per bandiera un tricolore con tre bande orizzontali nere, bianche e rosse, Casa regnante gli Hohenzollern, prussiani. Mio padre conosceva a memoria la composizione del Deutsches Kaiserreich, Confederazione durata dal 1871 al 1918, i nomi dei suoi 4 Regni, 6 Granducati, 5 Ducati, 7 principati, 3 Libere Città anseatiche, il Territorio dell’Alsazia-Lorena, le Colonie Africane e della Nuova Guinea, le pretensioni su Cina e l’Antartide…
(Pausa).
-Tanto amava ed apprezzava l’Impero quanto detestava gli Stati Uniti, la loro ipocrisia ed arroganza, spacciata per difesa di libertà e democrazia. Li vedeva con gli occhi dell’ Antología di Spoon River di Edgar Lee Masters. Sorvolava sui difetti e leggerezze del Kaiser. Tutti in Europa erano militaristi e nazionalisti, diceva, tutti volevano schiacciare i propri avversari. La Germania non aveva più colpe di altri nel 1914, anzi. Sarebbe stata un elemento di coesione e forza per l’Europa; la WWII non sarebbe scoppiata, mai il nazismo sarebbe andato al potere. I tedeschi sono stati pessimi diplomatici dopo Bismarck, suscitando antipatia e diffidenza, ammetteva.
– Aveva qualche ragione, Federico. La Germania è stata demonizzata oltre le sue colpe.
– Penso di sì. Nel 1913 la Germania aveva una popolazione di ben 68 milioni di abitanti, concentrati principalmente nei centri urbani. Durante gli oltre quarantasette anni di esistenza, l’Impero tedesco divenne un gigante economico, industriale, tecnologico, scientifico, tanto che nel 1913 era la più grande economia d’Europa. Il governo semi-parlamentare tedesco rispettò sempre la Costituzione e la libertà di stampa, permise il pluralismo politico, portò avanti una rivoluzione sociale ed economica dall’alto, ch’ebbe il consenso pure della maggioranza dei lavoratori, dei socialisti. L’Impero è stato un periodo di enorme sviluppo per la vita culturale. Agli inglesi, ai massoni non poteva piacere. E Clemenceau voleva ammazzare 20 milioni di tedeschi.
– Tutte queste auto come giunsero? – mi domanda María Laura.
– In modi diversi, per quanto ne so. Lasciami consultare l’elenco. Come diplomatico mio padre qui fu destinato due volte, come Primo Segretario nel 1980 e poi come Consigliere, nel 1990, dell’Ambasciata di José Benito Lamas, e si portò in franchigia, in tempi diversi, la Maserati, la Ferrari, la Mercedes, la Lancia Fulvia, mi commentò. Non le rivendette al finalizzare la missione, non ci guadagnò, ma in seguito non potè far fronte all’enorme spesa delle patenti ed assicurazioni per tutto il parco auto in crescita… La Fiat 130 era stata dismessa dell’Ambasciata d’Italia, la Lancia Thesis dalla Nunziatura Apostolica e le ottenne a prezzi più o meno di favore. La Ford A, la Ford T, la Lancia Aprilia, il Maggiolino Volkswagen, la Fiat 500, la Giulietta Sprint, le acquistò in Uruguay ad aste giudiziarie. Che ripuliscono ogni eventuale, precedente irregolarità.
– Un uomo d’iniziativa fervida… Inventivo come per i cocktails ed i racconti noirs.
– La Chrysler Airflow del ’34 e la Ford V8, 1937, le acquistò direttamente negli Stati Uniti, ottenne in Argentina, dove era Console Generale a Rosario ed anteriormente Primo Consigliere a Buenos Aires, una immatricolazione provvisoria, per la durata del suo mandato, ma poi le portò a Punta del Este, per raduni di Auto d’Epoca. Rimasero in Uruguay per guasti. Senza poter, tuttavia, farle poi circolare. Chi denuncia un’importazione illegale rimane col bene, inoltre. La Mustang, la Chevrolet Camaro che ci regalò, la Mondeo, la Grand Cheerokee, il pickup Silverado, li comprò a diplomatici e funzionari dell’Ambasciata statunitense, alla fine delle loro missioni.
– Gli statunitensi diventavano accettabili, in certi momenti…
– Sì, pure per Göring, e forse Hitler, ammiratori di cartoon, treni ed auto americane.
– Già, il Führer guardando Biancaneve di Disney nel Nido d’Aquila al Berghof, con Eva…
– Ho dei dubbi sulle due Citröen, forse le acquistò qui all’asta da collezionisti desiderosi di liberarsene o dai loro eredi. Le fece restaurare tutte puntigliosamente, ove necessario cromare e riverniciare, facendo arrivare ricambi via Internet, riportandole ad una condizione originale. Spese molto. Le auto non erano un investimento, solo un piacere estetico. Non amava la velocità.
– Poche potevano circolare, quindi.
– Per la strada non poteva che condurne cinque, compresa la Camaro. Quella che più ti piaceva. Passando gli anni stava perdendo entusiasmo, s’impigriva. Lo ammetteva: molte cose lo stancavano, lo irritavano. Aveva anche dismesso gli abbonamenti a riviste specializzate, all’annuario Old Car Value Guide di El Paso, Texas. Per anni era stato assiduo cliente di Motorbooks International, di Osceola, Wisconsin.
– La Mini Cooper? Da dove saltò fuori?
– Da un diplomatico inglese, al termine del suo periodo a Montevideo.
– E quel catorcio arrugginito? Sul serio tuo padre pensava di restaurarlo?
– Opino che no, Maria Laura. Dovette comprare la seconda Ford V8 Coupé per poter mettere le mani sulla Fiat 524, che dicevano appartenuta al famoso Ministro Serafino Mazzolini, quando l’Ambasciata era una Legazione. Anzi, s’innamorò prima del catorcio, fotograficamente interessante, del genere Old Cars abandoned, poi comprò quella buona negli Stati Uniti.
– Quale amava particolarmente o ne era più affezionato?
– Credo proprio la Ford V8 Coupé, 1937, 3.6 litri di cilindrata, slantback. Rimaneva come
estasiato mirando le sue linee e forme. Vieni ad osservarla, Maria Laura, capirai.
– Sono qui, Federico.
– Lui era innamorato delle linee delle auto d’anteguerra. Detestava al massimo grado le Hot Rod, di ieri e di oggi, turpe e bislacca moda di cafoni yankees, distruttori, insensibili, che amano montare motori assurdamente potenti, personalizzare, modificare, ricostruire bizzarramente, in modo tamarro, violentare, insomma, ciò che è bello. Nel 1932, Ford divenne la prima costruttrice americana ad allestire un motore V8 monoblocco, quello montato su questa Coupé del 1937, a prezzi abbordabili. Il Ford flathead V8 (the flatty), con poche modifiche fu installato fino al 1953, 21 anni dopo. Questo motore di cabeza chata, ricordava mio padre, si situò al terzo posto della Ward’s list of the 10 best engines del XX secolo. Nel 1937 la Ford V8 Coupé era l’auto di serie più rapida della strada, la più desiderata. Peccato per i freni, ancora meccanici.
– Una meraviglia. Poi si premiava, bevendo con Sebastián un Cuba Libre, un Martini, alla pari di James Bond e della Regina Elisabetta, una Margarita, una Caipirinha, un Whisky di 15 anni, un Johnny Walker Green Label…
– Penso di sì. L’auto era offerta con due motori. Il più grande da 85 cavalli. Tanti per l’epoca,
le strade, i freni. Tre marce. Edsel Ford, raccontava mio padre, s’ispirò alla Lincoln Zephyr. La silhouette era la più innovativa del segmento. Frontale a muso allungato, a spartineve, fari integrati nei parafanghi. Il nuovo capot a ‘mandibola di coccodrilo’ era piatto e permetteva di accedere facilmente al vano motore. Le Ford del ’37 combinavano uno stile elegante ed un potente motore, senza vibrazioni, a partire da 600 dollari.
– È molto bella, Federico. Capisco perchè Walter ne fosse affascinato, la rimirasse una e cento volte con ammirazione sconfinata. Tua madre con credo sia stata gelosa in vita. Era troppo
sedotto dalle auto! Ed adesso tutto è finito, nelle mani di gestori di una ipotetica Fondazione…
– Sic transit gloria mundi. Questa l’aveva trovata su Internet, in Florida. Restaurata con cura qualche anno prima. Era grato agli sconosciuti proprietari che non l’avevano convertita in un’altra stupida Hot Rod, destino quasi obbligato di moltissime vetture simili, perse per sempre.
Diamo, con Maria Laura una scorsa alla casa. Con occhi diversi, rispetto a quando mio padre ci abitava. Un horror vacui insopportabile. Molte cose, tanti mobili, quadri, stampe, tappeti, un mare di libri che nessuno leggerà più, soprammobili, servizi di porcellana, argenti, cristalli. E poi orologi in quantità, da tasca e da polso, da tavolo, macchine fotografiche e foto a iosa, penne stilografiche, accendini Dupont, monete, targhe, vassoi, medaglie, onorificenze. Troppe cose. Quando per vivere ci serve ben poco, in fondo: la pace con noi stessi.
– Che cosa faremo con tutto questo, Federico?
– Non lo so, Maria Laura. Forse la cosa più semplice, intanto, sarebbe venire a vivere qui. Alla luce anche della faccenda della Fondazione, che temo ci porterà delle noie in quantità: le Intendenze sono assetate di denaro, non di raccolte d’auto, che non portano voti. Decideremo poi.
– Se vuoi, Federico. Chiudiamo l’appartamento sulla Rambla, almeno provvisoriamente.
– Certo che mi ha dato molto fastidio che mio padre abbia parlato a molti della questione Fondazione, senza farmene parola fino agli ultimi giorni. Aveva paura che lo distogliessi da quel desiderio un po’ egolatra di perpetuare il suo nome attraverso una Fondazione? Manco fosse egli
stato un benefattore dell’umanità. Come se una simile Fondazione servisse veramente a qualcosa.
– Non pensava di morire così in fretta e desiderava organizzare bene le cose, immagino.
– Sarà, Maria Laura. Però mi è rimasta una gran amarezza addosso. Per cercare di capire un po’ di più quel benedetto uomo non solo ho parlato con tre suoi amici, che pure tu conosci, Pedro, Juan José, Ramón. Sono andato a ripercorrere, letteralmente, dei passi ch’egli diede arrivando dall’Italia, quando conobbe mia madre, rivisto i posti che gli piacevano, che fotografava con frequenza, quasi ossessivamente. Non è servito a nulla. La sua anima resta lontana, inafferrabile.
– Tuo padre non si riprese mai del tutto dalle tragedie che hanno colpito la tua famiglia, i problemi di Sergio, il suicidio dei tuoi nonni.
– Già, ma non mi serve cercare giustificazioni. Anch’io ho sofferto. Invece di parlarmi, darmi fiducia, confidarsi, stare più tempo con noi, lui ha sempre preferito fare il riservato, lo schivo, recitare la parte dello scrittore e dell’erudito, giocare con i gatti; rinchiudersi nella rimessa, guardando le sue vecchie auto tirate a lucido. La sua Torre d’Avorio, solenne. ‘Il senso delicato del vivere’ che gli dava, chissà, l’illusione per tirare avanti. Con le Ferrari e le Mercedes che non poteva usare neppure per andare alla ‘Tienda Inglesa’ della Avenida Arocena, a 10 minuti. Prigioniero dei suoi giocattoli. Nati per macinare chilometri non per fare i bibelots di un ambasciatore in pensione, in seconda marcia nei vialetti del giardino. Come quella principessa saudita che aveva una Ferrari, ma solo per guidarla nel suo parco, essendo là proibito alle donne…
– Le cose non tornano indietro, Federico, sfogati che male non ti farà.
– Hai ragione, Maria Laura. Indietro non si torna mai. Pensiamo a noi, alle bambine, a Sergio, ai vivi. ‘Chi muore giace e chi vive si dà pace’. Non si dice così?
– Credo. Poi il tempo non ti aiuta a dimenticare, Federico, ma impari a convivere con i lutti,
le sconfitte, le delusioni, i ricordi non belli. Non è stato già così con la morte di tua madre?
– Immagino di sì. Sicuramente la vita, moglie mia, rigirala come vuoi, è una immane, sesquipedale porcheria. Con gli umani che mai riescono a comunicarsi veramente.
– Andiamo avanti, anche senza conoscere la direzione, senza chiedercelo troppo, marito mio, senza cercare inesistenti ragioni, logiche superiori, assolute. Vedremo, cammin facendo…