Pubblichiamo la prima parte del racconto “Ricordando mio padre (con le sue 24 o 25 auto) di Gianni Marocco
Quel mattino di febbraio, caldo e con poca gente in circolazione, percorrevo a piedi la Peatonal Sarandí, la principale via pedonale della Città Vecchia di Montevideo, il luogo più antico, denso di storia ed oggi un posto turistico della capitale rioplatense, la più australe del mondo. L’antico Bulevar Sarandí, disegnato nel 1726, ispirato alla coeva architettura francese. Un tempo molte residenze patrizie si affacciavano su di esso. Il risultato potrebbe essere migliore, esemplificando l’attuale peatonal il low-profile sciatto, oggi così diffuso a Montevideo. Lampioni, grandi vasi di cemento con fiori, regolarmente coperti di cartacce, cestini debordanti rifiuti e panche risultano alquanto banali, in uno spazio urbano che meriterebbe maggiori ambizioni e cure estetiche. Il tutto peggiorato da qualche homeless tirato al suolo nell’indifferenza generale e da troppa gente, giovani e non tanto, malvestiti, trasandati. La peatonal inizia dalla Puerta de la Ciudadela dell’epoca coloniale (ricostruita), segue per la Plaza Matriz e termina all’incrocio con la calle Pérez Castellano. È abbastanza pittoresca con i suoi locali commerciali, gastronomici, bar, ristoranti, librerie, musei, banche, il Registro Civil, dove si sposarono i miei genitori nel 1981. Lui un giovane diplomatico italiano in servizio presso la sua Ambasciata, a Pocitos, da oltre un anno, lei una vivace uruguaiana di origine spagnola, alle prese con gli ultimi esami del corso universitario in Giurisprudenza. Mio padre arrivò a Montevideo il primo febbraio 1980 e la conobbe il 2, godendo, diceva poi, scherzando, di sole 26 ore di libertà!
Ho l’appuntamento in una cafeteria con un vecchio amico di mio padre, defunto da qualche giorno, Pedro Etcheverry, avvocato, padrino di mio fratello Sergio. Che è affetto dalla nascita da disturbi dello spettro autistico, variamente diagnosticati, finora accudito da mio padre, vedovo di mia madre da 15 anni. Un problema del quale mi devo far carico io, con mia moglie, non essendoci altri fratelli dopo la morte di Gabriele, a nove anni, per leucemia. Pedro è già seduto ad un tavolino di legno e formica. Una tazza di caffè è vuota dinanzi a lui. Di qualche anno più giovane di mio padre, ha un aspetto sorridente, gioviale, di chi nella vita ha deciso di non arrabbiarsi inutilmente, né esasperarsi per le cose che non si possono comunque cambiare. Mi abbraccia con calore:
– Condoglianze. Perchè non mi hai detto nulla, Federico? Perchè l’avete seppellito senza nessuno? Non sapevo neppure che fosse ammalato.
– Come stai, Pedro? È stata la precisa volontà di mio padre, mi spiace. Diceva: ‘I funerali non mi piacciono, io non ci vado, sarò solo al mio. Bisogna trattar bene le persone finché sono vive. Poi, se li bruciano o li interrano, o li mettono in un colombario, affiancati e sovrapposti, poco importa. Avvisate dopo’.
– Per certe cose era strano il tuo povero padre. Un uomo talora semplice e di gran cultura.
– L’ hanno tenuto tre-quattro giorni con morfina. Un cancro fulminante. Era un orso del Piemonte, diceva mia madre. Non per nulla gli piaceva Guido Ceronetti, per le sue assonanze con Emile Cioran, gli aforismi caustici e pessimisti: ‘Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo’.
– Tuo padre si era esiliato in questa grigia e ventosa Montevideo, dopo la morte di tua madre ed essere andato in pensione prima del tempo… Forse non fu infelice, almeno lo spero. Comunicava poco i suoi reali sentimenti. Amava le auto, gli orologi, la storia della Germania Imperiale e le marce militari, l’architettura georgiana, Roger Scruton, liberal-conservatore come lui, i gatti d’Angora, i cocktails. Walter scriveva bene in italiano ed in castellano, dei bei racconti noir specialmente, era un opinionista di valore su svariate tematiche, dalla storia del cinema a quella dell’auto, ma sempre come celandosi, preoccupato di non mostrasi. Eccesso di riservatezza, credo. Aveva amato da giovane pure la fotografia e la pittura, realizzato esposizioni personali…
– Lo so. Era un torinese che non sopportava la sua città, pur amandola visceralmente! Come Stendhal con Grenoble. Parafrasando il nostro grande chansonnier Gipo Farassino, si potrebbe dire o cantare su Torino: ‘Un mare di fredde ciminiere/Un fiume di soldatini blu/ un cielo scordato dalle fiabe/ un sole che non ti scalda mai./ Questa mia città/ ti fa sentir nessuno/ ti strozza il canto in gola/ ti spinge ad andar via./ Questa mia città/ che spegne le risate/ che sfugge a tanta gente/ resta la mia città’. Canzone del 1969, molta più vecchia di me, piaceva assai a mio padre e me la ricordo. Lui era un ‘leopardiano’ moderato, un pessimista con il senso dell’attivismo…
– Mi sembra bello come ricordo.
– Nel 2003 Guido Ceronetti scrisse Piccolo inferno torinese. Con tanti amari paradossi. Bellissimo il ritratto di suo padre, torinese autentico vissuto nel culto geometrico delle architetture e della morale, e secondo la regola di «non disturbare» il prossimo, come la maggior parte dei suoi concittadini, nati come lui alla fine dell’Ottocento. Il Vecchio Torinese per eccellenza, con la sua smania di perfezione rigorosa, di regolarità, lo spirito geometrico ossessionato dalla simmetria. Un uomo ovviamente pessimista, ma privo di inquietudini metafisiche, che non temeva la morte, eliminatrice del disturbo che si procura agli altri vivendo. Un concetto, quello del ‘non disturbo’, centrale nella mentalità del torinese.
– Molto interessante, Federico, devo cercare dei libri di Ceronetti. Farmeli spedire.
– Ceronetti, l’apocalittica grande penna de La Stampa, morì nella sua casa di Cetona, Siena, ad oltre 90 anni. Sepolto sulle colline del Monferrato, nel cimitero di Andezeno. ‘Disposizione da prendere: Non voglio donne in calzoni ai miei funerali. Cacciatele via. Almeno in questa pur insignificante occasione, ma per amore, siano insottanate come le ho sognate sempre, nella vita’. Viveva separato dalla moglie Erica Tedeschi, figlia di deportati ebrei ad Auschwitz (il padre morì nell’aprile ’45 in una ‘marcia di trasferimento’), da quasi 40 anni, senza divorziare mai.
– Tuo padre neppure si risposò.
– Era un ceronettiano de solemnidad! Diceva che la vera libertà non può prescindere dalla solitudine. Che, quindi, va accettata con serena filosofia.
– Non ha vissuto male, penso, fin quasi all’ultimo. Non gli piacevano le donne mature, oltre i 45-47 anni, a meno di non averle sposate a 20, asseriva. Ed aver avuto tutta una vita per imparare a sopportarle… Per di più figlie anche loro del ’68, inclini al femminismo, al vittimismo metodico e ad una forma mentis ‘tuttidiritti’. Condividere il bagno con una vecchia sconosciuta, mescolare odori corporei, era un incubo reale per lui. Scrisse non a torto Schopenhauer, che ‘il matrimonio è l’incontro di cattivi umori di giorno, di cattivi odori la notte’, ripeteva.
– Caro Pedro, egli detestava la vecchiaia, propria ed altrui, senza indulgenze. Anche un agnostico che odiava l’ateismo. In fondo, si è risparmiata la parte peggiore della senescenza. Come quello storico, Venner, che anni fa si sparò a Notre-Dame, a Parigi, imitando Mishima. Mio padre ha, ovviamente, evitato di trasmettere messaggi ed ammonimenti, qualsiasi beau geste…
– Un saggio. Pure un intollerante a parole, a volte, che era però ragionevole, dialogante, piacevole in compagnia, di mente aperta, curioso del mondo, colto, misurato.
– Già. Mi ricordo qualche strofa di un’altra canzone di Farassino, che forse ti aiuta a capirlo. Quel certo modo di essere dei vecchi piemontesi, un misto di riserbo dei sentimenti, di rispetto, di discrezione, accompagnati dall’insofferenza verso le novità ed associati al “senso del decoro”. È ‘Ij Bogianen’ del 1972. Adattamento, dal punto di vista del testo, del brano del 1962 di Jacques Brel “Les Flamandes”. È in piemontese, poi te la traduco.
– Bogianen? Che cosa è?
– Soprannome dei piemontesi, derivato dalla caratteristica frase bogia nèn, ‘non ti muovere’, tenace, costante. L’origine si fa risalire alla Guerra di Successione Austriaca, alla battaglia dell’Assietta del 1747. Francesi e spagnoli decisero di attaccare il Re di Sardegna Carlo Emanuele III per conquistare Genova. Essendo protette le valli di Susa e Chisone dai forti di Exilles e di Fenestrelle, rimaneva ai francesi un’unica via di passaggio, ovvero il Colle dell’Assietta, dove si trovava la strada che collegava le due valli, a quota metri 2.500. Un posto magnifico. Da ragazzo ci andavo a camminare con amici, per la vecchia strada militare, incontrando i margari che avevano portato le mucche agli alpeggi alti.
– Interessante.
– Per cercare di contenere l’avanzata, il Re fece costruire in fretta lungo l’Assietta ed il Grand Serin delle piccole opere difensive. La battaglia tra i due eserciti iniziò il pomeriggio del 19 luglio e presto il Conte di Bricherasio, comandante generale delle truppe piemontesi si rese conto che la situazione stava diventando difficile, per l’inferiorità numerica, e diede l’ordine di ritirasi sul Grand Serin. Le truppe dell’Assietta, capitanate dal Conte di San Sebastiano, rimasero però ai loro posti. Si racconta che il San Sebastiano rispose personalmente alla richiesta di ritirata con le parole “Nojàutri bogioma nen” (noi non ci muoviamo). La battaglia si concluse nella notte con una gran vittoria dei piemontesi sui francesi. Fece scalpore in tutta Europa.
– Canta, Federico, dai…
– Stonato come sono, recito. La parte finale: Ij bogianen a otant’ani/ a saro j’euj e ‘s fan sotré,/ përché a diso: ‘A otant’ani/ l’òm l’è frust e a dev chërpé!’./ E chërpand a peul trové/ col canton ëd Paradis/ torné a vëdde ij vej amis,/ e giuté ij fieuj dj’anvod;/ Però… sensa disturbé,/ con col tant d’educassion,/ come a veul la tradission,/ come a veulo anche ij parent/ per ël decòro vers la gent/ sempre pronta a critiché./ L’è për lòn ch’as fan sotré/ ij bogia, ij bogia, bogianen…
– Ci ho capito poco.
– Provvedo. “I’bogianen’ a ottant’anni/ chiudono gli occhi e si fanno sotterrare,/ perché dicono: ‘A ottant’anni l’uomo è logoro e deve morire/ e morendo può trovare/quell’angolo di paradiso/ tornare a vedere gli amici,/ ed aiutare i figli dei nipoti;/ però…senza disturbare,/ con quel tanto di creanza,/ come vuole la tradizione,/ come vogliono anche i parenti/ per il decoro verso la gente/sempre pronta a criticare./ È per quello che si fanno sotterrare/ i bogia, i bogia, bogianen…”.
– Ci scopri tuo padre?
– Sì, sostanzialmente sì. Voglio ora mostrati una sua lettera aperta, scritta pochi giorni prima della fine. Avrei bisogno di tuoi suggerimenti e consigli, Pedro, se puoi.
– Certo, fammi vedere.
‘Ciudad de la Costa, 24 gennaio 2023. Informo che con Testamento Pubblico, recentemente reso di fronte al Notaio dottor Guillermo Almabuena Deus, desidero legare le mie 24 autovetture (tra le quali una Ford V8 Coupé 1937, da restaurare integralmente), con relativi teli antipolvere ed antistatici; un sistema di sicurezza con videocamere; due vecchi distributori di carburante a colonna, degli anni ’30; un compressore; una piccola officina di riparazioni con elevatore elettrico, strumenti di precisione e ferramenta; articoli vari di automobilia, pubblicazioni ecc., ed il terreno di Ciudad de la Costa, Dipartimento di Canelones, calle José de San Martín 3658, padrón 175468, sul quale sorge la rimessa ed una piccola casa con parrillero, ora disabitata, per un custode (un lotto a parte della mia casa attuale, ad essa limitrofo e con ingresso carraio separato) ad una istituenda Fondazione, sotto approvazione e supervisione dell’Intendenza di Canelones. Avrei voluto provvedere di persona a costituire ed avviare detta Fondazione, ma, purtroppo, mi manca il tempo necessario, la vita indispensabile. La Fondazione dovrà essere costituita in tempi brevi e prendersi cura, oltre all’ amministrazione, tutela, sicurezza dei beni mobili ed immobili di cui sopra, delle autovetture, assicurarne la corretta conservazione e la scrupolosa manutenzione. Essa rappresenta una parte cospicua, sia della mia vita personale, sia della storia dell’automobile, attraverso una serie di modelli significativi della stessa, che considero opportuno non disperdere. In beneficio del turismo e del patrimonio culturale del Dipartimento e della Nazione. Lo spazio museale potrà essere ampliato e modernizzato secondo successive esigenze, anche didattiche, ed opportunità (ad esempio con prestiti di qualità) col criterio ‘del buon padre di famiglia’, senza oneri di sorta per i miei menzionati eredi universali. I quali consegneranno formalmente i beni ai rappresentanti designati all’uopo dalla Fondazione, previa redazione ed invio ai medesimi di copia del documento di accettazione, con la specificazione che nessuna clausola limitante, di salvaguardia, di natura fiscale, impositiva o di altro genere, potrà essere poi introdotta o adottata. Nessun onere, o spesa di qualsiasi natura, concernenti l’attuale status delle autovetture – legalmente acquisite e di mia totale proprietà, come documentato, senza pegni o gravami – l’ispezione tecnica, la regolarizzazione, il pagamento di patenti arretrate ecc. potrà essere addebitato agli eredi dopo la consegna. Walter Lonardi’.
– Sempre preciso, pignolo. Come con un vecchio motore V8. Avrei bisogno di rifletterci un po’ su, Federico.
– Certo, è una copia per te, Pedro. Assieme alla composizione della collezione:
“Collezione Lonardi. Tappe della storia dell’Auto nel mondo
Peugeot 2008
Jeep Gran Cherokee 2009
Lancia Thesis 2004
Ford Mondeo S.W. 2001
Ferrari 328 GTS 1990
Volkswagen Fusca 1980
Mercedes E 300 1989
Fiat Uno 1986
Maserati Biturbo Spider 1989
Lancia Fulvia Coupé 1972
Citröen DS 1972
Fiat 130 1977
Ford Mustang 8V Convertible 1964
Austin Mini Cooper 1968
Fiat 500 1969
Alfa Romeo Giulietta Sprint 1958
Citröen TA 15-Six 1952
Lancia Aprilia 1949
Chrysler Airflow 1934
Fiat 524 1932
Ford A Cabriolet 1931
Ford T Touring 1919
Chevrolet Silverado Pickup 2015
Ford V8 Coupé 1937 (2).
Chevrolet Camaro 2014 (Donata a Federico).
In grado di circolare subito: quelle evidenziate”.
– Mi aveva accennato dell’intenzione, mesi addietro. La giustificava con il fatto che tu non condividevi la sua smisurata passione per le auto, che sei molto occupato. Ed anche perchè ormai il mantenimento del parco-auto, le patenti ed assicurazioni costano molto. Egli aveva smesso di pagarle. Poi c’erano le questioni connesse alla periodica Inspección Técnica Vehicular, ai cambi di targa ecc. Questo non è un Paese per collezionisti, diceva con amarezza. E ricordava sempre che nel 1980 era ancora una sorta di museo dell’auto a cielo aperto, con Ford T e Ford A, soprattutto, che circolavano scoppiettanti e galiarde. Infatti, han venduto un numero assai grande di auto all’estero o le han lasciate arrugginire per decenni al sole ed alla pioggia.
– Sì, unicamente 4 o 5 potevano legalmente circolare. Le altre, a volte, lungo la stradicciola serpeggiante attorno alla rimessa, asfaltata. Mi lasciò l’ appuntino quando decise di regalarmi la Camaro. Una muscle car che lo faceva ‘sentir giovane’, commentava con un sorriso ormai amaro. Venne al Britannico il notaio Almabuena, nomen omen.
– Grazie, Federico. Costituire una Fondazione, donare le auto alla comunità, pensava, era pure un modo per ‘sbianchettare’ innocenti carenze. Anche se io non ne sono così certo. Questo è un Paese piccolo, ma burocraticamente complicato. Anche quando si vuol essere generosi.
– Lo so, Pedro. Ci vediamo quando potrai. Per me sarà un piacere, anche per conversare
ancora di mio padre. È sempre difficile la relazione con il proprio genitore.
– È così. Salutami Maria Laura e dai un grosso bacio alle bimbe. Da Natale non le vedo.
Ancora sentire condoglianze; mi è spiaciuto moltissimo, anche se è banale ripeterlo.
Decisi di parlare con un altro amico di papà, Juan José, che condivideva la sua passione per
los fierros, vieux tacots, come dicono i francesi o classic cars, all’americana. Anche lui nella cafeteria della Peatonal Sarandí. Un medico settantenne, salutista, magro, pure lui vedovo, con una amante discreta da molti anni, mi han commentato. Soliti abbracci, rimproveri per non averlo
avvisato del decesso, condoglianze, convenevoli alquanto stereotipati.
– Quando conoscesti mio padre, Juan José?
– Quando lui conobbe tua madre o poco dopo. Nel 1980. Divenni parte delle sue amicizie, marito di una sua compagna di collegio e liceo del Sacre-Coeur. Nel 1978 le monache dovettero chiudere il collegio e le alunne trasferirsi ad altri collegi.
– Credo fosse molto classista l’Uruguay di quel tempo riguardo i collegi.
– Sì, il collegio contava socialmente molto più della facoltà. Come in Inghilterra. Poi era un’epoca nella quale se una fanciulla non si sposava entro i 23 anni rischiava di vestir santos tutta la vita. Naturalmente esistevano le corna, qualche anno dopo il matrimonio, quasi sempre all’interno delle amicizie, per prudenza… Pochi uomini negli anni ’70 avevano ormai la mantenuta fissa con tanto di appartamento arredato. Non era un Paese puritano, ma conservatore, e con una oligarchia di proprietari terrieri meno opulenta che in passato, decadente. La Chiesa contava poco.
– Che cosa piaceva a mio padre dell’Uruguay, appena arrivato?
– La sua laicità e semplicità, ritengo. Ed era un buon soggetto per la fotografia. Sviluppava e stampava lui medesimo quelle in bianco e nero. Si era portato molto materiale dall’Italia, tra il quale un nuovo ingranditore Durst, per noi dilettanti oggetto del desiderio. Fino agli anni ’80 l’Uruguay era un Paese autarchico, aderiva in campo economico alla teoria e prassi della CEPAL della sostituzione delle importazioni con la produzione interna. Ogni Paese avrebbe dovuto tentare di ridurre la propria dipendenza dall’estero attraverso la produzione locale di quasi ogni prodotto. Nazionalizzazioni, sovvenzioni, alte tariffe doganali, politiche marcatamente protezionistiche, proibizione d’importare molti prodotti, anche di largo consumo, come il whisky.
– Che cosa lo sedusse di Montevideo, in particolare, mia madre a parte?
– Tua madre la fotografava in continuazione, ne era veramente innamorato. Troppo presto l’avete perduta. Molto ingiusto. Tua madre era come il sole, tutto illuminava. A parte lei tuo padre scoprì le vecchie auto, le cachilas soprattutto americane, mille volte rattoppate ed ancora circolanti, poi la Escollera Sarandí, qui vicino, con il popolo pescando (a volte con una semplice latta con avvolto il filo di nylon) specialmente al tramonto, d’estate, sorseggiando il mate amargo, magari senza neppure scendere dalla vecchissima cachila con 50 o 60 anni sul gobbo, o buttandosi in acqua dalla Rambla, nei giorni più caldi.
– Una Montevideo frugale…
– Sì, popolare, arcaica, di gente affabile, che offriva volentieri materiale ad un fotografo dilettante. Specialmente a Carnevale. All’epoca nessuno scattava fotografie in luoghi aperti, a meno che fosse della stampa.
– Sarà stato considerato uno straniero eccentrico o mezzo tonto! Alla Escollera Sarandí devo tornarci.
– A tuo padre lo affascinava il faro della Escollera, alla fine della stessa, per segnalare ai naviganti l’ingresso al porto. Fu acceso, la prima volta, il 24 agosto 1909, per la festa dell’Indipendenza. Su quelle vicende, e sulla contemporanea tragedia dell’affondamento del vapore ‘Colombia’ lui ci scrisse poi un lungo articolo.
– Grazie per il ricordo. Mio padre, da giovane, come vedeva o immaginava la sua vecchiaia?
– Perchè me lo chiedi, Federico?
– Perchè mio padre accennava a volte alla solitudine triste dei vecchi. La medicina, diceva,
non ha allungato la vita, ma solo la vecchiaia, il progressivo degrado del corpo. Gli anziani sono
repellenti, più di ieri perché cresciamo tutti con il mito della giovinezza a portata di mano. Esiste una realtà che è frutto di elaborazioni culturali edonistiche. La senilità non ha nulla di bello, essa stessa è una malattia. Da noi neppure la speranza di un’eutanasia, di un suicidio assistito che ti salvi, senza fare la pummarola buttandoti dalla finestra, quando non ne puoi più.
– È vero, Federico, purtroppo… Ne sono convinto anch’io come medico. Patologie che si sommano a patologie. Il resto è cattivo giornalismo, quello che invita i novantenni a scopare almeno tre volte la settimana, pessima letteratura di apprendisti stregoni, mediconzoli che sponsorizzano una qualche medicina del cavolo o l’acqua minerale… Noi, non parlo della tua generazione, ci vestiamo come i ragazzi tanto per prenderci per il culo allo specchio!
– Juan José, solo che molti ci dicono non esser vero che la gioventù sia un dato anagrafico, ma uno stato d’animo. Lo so. Niente e nessuno rallenta l’invecchiamento, fatto di età biologica, ereditarietà, stile di vita, ritengo da incompetente. L’unica speranza di allungare la vecchiaia, non la giovinezza, è prendere qualche pillola al giorno. Ne vale la pena? Alcuni oggi paiono più giovani della loro età, ma è un fatto di look, di vestiario e di capelli, tinti o no, per chi li ha.
– Sì. 75 son 75 per tutti quelli che ci arrivano, stando un po’ meglio od un po’ peggio. La condizione psicologica aiuta, ma è pur vero che molti affetti da depressione ed altre malattie nervose giunsero a tarda età. Churchill arrivò ai 90 non tanto bene, ma alzò il gomito per tutta la vita ed era un attivo praticante del sedentarismo… Altri muoiono prima facendo vita morigerata.
– Già, Juan José…
– Caro Federico, quel che è peggio non è tanto il mito effimero della ‘giovinezza bella e felice’ quanto il fatto che si è allevata una generazione, forse due, alla libertà assoluta ed anarchica, contro ogni autorità, contro ogni responsabilità sociale. Giovani ‘tutti diritti’, sovente senza freni e limiti. Il diritto all’ignoranza, poi allo sbraco, alla sciatteria, alla droga, all’alcol, al sesso liquido. Il ‘politicamente corretto’, la Gender Theory, la Woke&Cancel Culture, l’ecologismo facile…
– A volte mi sento precocemente vecchio. Soprattutto pensando a mio padre, in pochissimo
tempo transitato da una accettabile salute alla morte. La mia è una generazione ammalata di frustrazione, Juan José, e temo che per la seguente sarà ancor peggio. Ho paura per le mie figlie.
– Tramontato il tempo dell’individuo sociale, l’innovazione dovrebbe segnare la nuova filosofia del lavoro, attraverso la partecipazione, un’aspettativa non massificante: non può essere comprata a colpi di sussidi ed assistenzialismo clientelare, che si coniuga con la meritocrazia, con il riconoscimento dei talenti individuali. Eppur ho molti dubbi al riguardo. Prevale un ugualitarismo mediocre. Forse si è spenta la “cultura del lavoro”.
– Verrà l’Intelligenza Artificiale applicata? L’ottimismo è la sfida della vita: una contraddizione apparente per chi ideologicamente è pessimista, come mio padre, un discepolo di Machiavelli, Hobbes, Burke, de Maistre, senza la Provvidenza, ma che fa parte della natura umana, dell’attaccamento all’esistenza. “Pessimismo dell’intelligenza, della filosofia ed ottimismo della volontà, del temperamento” ha detto qualcuno. Speriamo che sia così, Juan José. Ma mio padre è stato felice, nella vita, almeno qualche volta? Che cosa ti diceva di me? Era deluso, come spesso succede ai genitori?
– Era molto orgoglioso di te. Forse non era di quei padri che abbracciano in continuazione i figli, era sobrio anche in questo, ma l’amore per voi era immenso. E sapeva che ti saresti fatto sempre carico di Sergio. Per quanto mi riguarda, rimpiangerò molto pure gli asados, da lui preparati nel parrillero presso la rimessa (l’ hangar). Carne tenera, chimichurri, gran vini cileni.
– Ti ringrazio molto per le tue gentili parole. Mi han fatto piacere. Anch’io amavo molto mio padre e temo di non averglielo dimostrato a sufficienza.
– I padri capiscono, Federico, senza tante parole e smancerie. Se fu molto felice non saprei.
A quel punto gli feci leggere, dandogliene copia, la lettera di mio padre del 24 febbraio, chiedendogli consigli, come a Pedro.
– Tuo padre considerava la Fondazione non un atto di esibizionismo o di egoismo, quanto
un modo per associare il suo nome ad un’iniziativa culturalmente rilevante, sollevandoti anche da scocciature di carattere pratico. Me ne aveva parlato. La cosa che preferiva forse nella vita era vedere un’auto degli Anni trenta, da lui amatissimi, percorrere a velocità moderata una strada nel verde dei prati. I suoi acquisti erano mirati, mai banali. Desiderava avere archetipi della storia dell’auto, che rappresentassero la sua eterogeneità. Non amava le alte prestazioni, quanto il significato che un’autovettura aveva avuto nel costume, la sua rilevanza sociale; un restauro pignolo e rispettosissimo dell’originale, la sua diffusione, il segno lasciato nei costumi e nella psicologia dei popoli; il senso di libertà apportato, in primo luogo.
– Altro che l’idiota auto elettrica, tanto pubblicizzata, e le scemenze ‘gretine’ sul surriscaldamento globale, che dobbiamo sorbirci tutti i giorni…
(seguirà seconda parte del racconto)
È la I Parte… Rassegnatevi… Grazie!
Bell’articolo!
Però credo che la frase sul matrimonio unione di due cattivi umori etc. sia di Guy de Maupassant, in Maison Tellier
Grazie. Controllerò.