Il 17 giugno 1983, un venerdì, nel pieno di una campagna elettorale per le elezioni politiche per la quarta volta anticipate dal 1972, l’Italia fu messa a soqquadro dall’arresto improvviso ed incredibile – avvenuto nella Capitale – di Enzo Tortora, noto presentatore televisivo, fondatore della trasmissione di successo Portobello.
Neanche fosse uno dei peggiori criminali più ricercati al mondo, le immagini dell’arresto mostrarono un Tortora ammanettato, confuso, incredulo, circondato da una miriade di persone fra carabinieri, giornalisti, fotografi, operatori radio-tv, curiosi.
Nell’ambito di una mega inchiesta sulla camorra, Tortora venne accusato, in base alle dichiarazioni di camorristi “pentiti”, di essere parte in causa in quella sporca faccenda. Fu come sbattere «il mostro in prima pagina» visto che Tortora fu accusato di traffico di stupefacenti ed associazione a delinquere di stampo camorristico, accuse «deliranti e demenziali» ebbe a definirle il noto presentatore, che di lì a poco ebbe anche un malore.
Pochi furono a credere nell’innocenza di Tortora; fra questi il giornalista Vittorio Feltri. Il Movimento Federativo Radicale criticò la magistratura responsabile di un «macroscopico errore e di un colossale abbaglio».
I “pentiti” che accusavano Tortora si rifugiavano nei benefici previsti dalla “legge sui pentiti”, legislazione premiale in auge da pochi mesi, escogitata alla luce della incapacità dello Stato di rispondere adeguatamente alla sfida terroristica, nonostante la sublime opera di contrasto delle Forze dell’Ordine. In sintesi, indipendentemente dai crimini commessi, nel caso in cui gli assassini di una qualsiasi organizzazione criminale si fossero “pentiti” contribuendo alla cattura dei loro sodali ed alla disarticolazione del sodalizio malavitoso, avrebbero beneficiato di lauti sconti di pena.
Pochi furono a porsi il problema riguardo il venir meno dello Stato, che in tal modo scendeva a patti con il crimine, nonché dello sfregio consumato nei confronti delle vittime e dei loro famigliari che avrebbero così visto premiati con la libertà gli assassini dei loro cari, opportunisticamente “pentiti” in caso di arresto. Non a caso i “pentimenti” cominciarono a verificarsi ad arresti avvenuti, cosa che avviene ancora oggi, con un esercito di “pentiti”, in crescita continua, che può fare concorrenza – in termini numerici – al più noto «esercito del selfie».
Nato a Genova nel 1928, Tortora venne assunto dalla RAI nel 1961 per condurre lo spettacolo radiofonico Campanile d’oro. Di orientamento liberale, essendo persona libera, Tortora ebbe un rapporto altalenante con la RAI. Ideatore del mercatino Portobello andato sulla Rete 2 della RAI dal 1977 al 1983, la trasmissione ottenne un successo eccezionale in termini di ascolti.
Quando Tortora venne arrestato conduceva con Pippo Baudo sulla tv commerciale Rete 4, «Italia domanda», un faccia a faccia televisivo tra cittadini elettori ed i segretari di partito, che si teneva in un teatro romano in vista delle elezioni politiche in programma il 26 e 27 giugno 1983. Fino al giorno prima, giovedì 16 giugno, Tortora aveva regolarmente lavorato alla trasmissione registrando una puntata con il leader comunista Pietro Ingrao, andata in onda proprio la sera 17 giugno. Il giorno dopo, sabato, sarebbe toccato al segretario della Fiamma, Giorgio Almirante misurarsi con il pubblico di «Italia domanda». Per la cronaca, il Msi avversò duramente in Parlamento, un anno prima, la “legge sui pentiti” definendola «criminale, immorale ed aberrante».
Proprio il 17 giugno 1983, nel giorno in cui Tortora veniva arrestato, di “pentitismo” si discusse in una Tribuna Politica RAI. Il giornalista Ottorino Gurgo de «Il Giornale» diretto da Montanelli, pose al segretario missino Giorgio Almirante una domanda provocatoria:
«Onorevole Almirante, voi siete contrari al privilegio dell’immunità parlamentare, al tempo stesso siete sostenitori di una lotta molto ferma nei confronti del terrorismo. Alla luce di queste posizioni, può spiegarmi per quali ragioni il suo partito è stato il solo che al Senato abbia votato contro la richiesta della magistratura di procedere con giudizio nei confronti del senatore socialista Domenico Pittella, accusato di partecipazione a banda armata e di connivenza con il terrorismo?».
La risposta di Almirante:
«Ma, per il semplice motivo: perché la denuncia proviene da un pentito. E io non sono soltanto contrario al terrorismo, sono proprio contrario al modo abietto con cui si ritiene da parte del Governo e debbo aggiungere di quasi tutta la classe dirigente, di lottare contro il terrorismo. Non abbiamo voluto dare una soddisfazione ai fautori del pentitismo, ai difensori dei pentiti, a coloro che sulla base delle dichiarazioni dei pentiti architettano processi politici che non sempre hanno un fondo concreto di verità».
Quando nella serata di sabato 18 giugno a «Italia domanda» fu di scena proprio Giorgio Almirante, la trasmissione venne moderata dal solo Pippo Baudo con l’auspicio unanime di un pronto ritorno in tv di Enzo Tortora.
Il calvario di Tortora durò quattro lunghi e bui anni. Nel 1985 fu condannato a 10 anni di reclusione con 50 milioni di multa e, alla luce della sentenza, dette una lezione di Libertà a comprova della sua innocenza dimettendosi – ad un anno della sua elezione con il Partito Radicale – da parlamentare europeo. Nel 1986, in appello Tortora venne assolto, sentenza confermata dalla Cassazione nel 1987. In pratica, i “pentiti”, avevano calunniato Enzo Tortora che, minato da un male incurabile, si spense nel 1988 all’età di 59 anni. «Dove eravamo rimasti», fu il suo ultimo anelito alla ripresa di Portobello nel febbraio 1987.
A quarant’anni dall’arresto di Tortora, la figlia Gaia, che all’epoca dei fatti aveva 14 anni ed oggi è un’affermata giornalista, ha scritto un libro nel quale racconta quel dramma: «Testa alta, e avanti», edito da Mondadori.
Nelle varie presentazioni, trattando del suo libro, Gaia Tortora si sofferma su quella interminabile notte di orrore vissuta dal padre e dalla famiglia. Nello stesso tempo critica l’operato dei magistrati che in «quarantottore» si sarebbero potuti rendere conto della infondatezza delle accuse mosse ad Enzo Tortora. Per Gaia il padre fu vittima della “malagiustizia”. Ed a nulla servì l’assoluzione definitiva in quanto, «la bomba esplosa» dentro Enzo Tortora, da morto che camminava, lo trasformò in morto adagiato definitivamente in posizione orizzontale.
Parlare solo di “malagiustizia” nel dramma di Enzo Tortora appare un tantino riduttivo in quanto, se non fosse stata in auge la “legge sui pentiti” – ancora oggi viva e vegeta – al noto presentatore televisivo non sarebbe capitato quanto accadutogli, così come a tante altre vittime del “pentitismo”, esseri umani per lo più sconosciuti di cui nulla si sa. Si parla sempre dei “successi del pentitismo”, mai delle persone perbene vittime del “pentitismo”. È doveroso ricordare i tanti innocenti assassinati, è d’obbligo non dimenticare il dolore eterno dei famigliari che hanno visto i propri cari assassinati da criminali che, una volta arrestati, si sono “pentiti” per riguadagnare la libertà.
Il Quarantennio dell’arresto di Enzo Tortora poteva pertanto rappresentare l’occasione per riflettere, discutere e perché no, mettere in discussione non solo la “legge sui pentiti”, ma tutte quelle legislazioni premiali dalle quali sono scaturite mancata certezza della pena, insicurezza diffusa, lassismo generalizzato.
Ricordo Enzo Tortora come una persona gentile e geniale che ha saputo tenere attaccati alla TV spettatori di tutte le età stupendoci con la galleria dei suoi insoliti concorrenti inventori.
Complimenti a Michele Salomone che ha inquadrato il caso Tortora con grande verità e spirito critico.
Il pentitismo non ha fatto veramente grandi danni alla mafia, ha creato situazioni di palese ingiustizia, è servito a parecchi furbi… Ma per molti innocenti è stato orrendo! Ah, certo, è servito e pure molto alla notorietà e carriere di vari magistrati…
Fu la sconfitta della giustizia con la a maiuscola, una vergogna italiana. Aveva ragione Almirante,aveva visto giusto . Fidarsi di quei delinquenti?
Ricordo che in quel periodo chi sosteneva l’innocenza di Tortora (ed io fui tra questi pochi, una mia lettera fu ospitata dal Candido di Pisanò e censurata da altri quotidiani) veniva guardato in cagnesco quasi fosse un complice dei camorristi. Un caso non solo di mala giustizia, ma anche psicoanalitico di delirio di onnipotenza che allignava in certi magistrati
Fra i pochi difensori di Tortora, vorrei ricordare quel galantuomo di Luciano Garibaldi, che ci rimise l’incarico alla direzione di “Gente”. Un grande errore del Pli fu di non aver difeso Tortora, che pure era un suo iscritto, lasciando il merito della sua difesa ai radicali. Quanto alla legge sui pentiti, è una vergogna italiana. Intanto perché se uno si pente davvero di una colpa, chiede di essere punito più severamente, non di avere sconti di pena: altrimenti non è contrizione, è “timore servile”, come dice la teologia morale cattolica. E poi perché è servito a giudici e pm per riscrivere a loro libito la storia d’Italia, approfittando del fatto che uno che è rinchiuso in una cella di quattro metri quadri dopo un mese racconta quello che vuole l’inquisitore, pur di uscirne, anche che Cristo è morto di raffreddore.