Si è aperta ieri con Prometeo incatenato la più statica e concettuale opera di Eschilo la 58 ͣStagione delle Rappresentazioni Classiche al Teatro Greco di Siracusa. All’interno della cavea antichissima, affollata di spettatori, per quasi due ore hanno riecheggiato le parole definitive di tutto ciò che l’umanità esige, ottiene, disperde. Come dono divino. Dentro il luogo della catarsi, l’umanità è assente: a dibattere sono le divinità.
“Guardatemi: io che sono un dio questo soffro dagli dei”. Combattere più che dibattere in questa tragedia della sconfitta della democrazia del cuore, della mente, della politica.
“Colui che vede prima”, quel Prometeo intelligente e generoso, dispettoso e tracotante, genio ribelle ma non rivoluzionario che Esiodo ha consegnato al mito come figura dell’inganno, accolto e raccolto da Eschilo impasta la sua natura divina con il fuoco di una pietas, estranea ai suoi pari. A Zeus violento e tiranno “E’ proprio questa la malattia del potere: non fidarsi degli amici”.
Prometeo incatenato torna a Siracusa con due carichi pesanti quanto le catene forgiate da Efesto. Rappresentata già quattro volte, la tragedia impone a chi la affronta l’obbligo di trasferire la staticità del testo sulla dinamicità teatrale, possibile solo attraverso il lavoro sulla parola dell’attore, come avvenne nelle regie di Antonio Calenda nel 1994 e di Luca Ronconi nel 2012. Leo Muscato ha affrontato la difficoltà del testo di Eschilo con una regia (la drammaturgia è del grecista Francesco Morosi) rispettosa del concettualismo dell’opera e calcata su un simbolismo sfacciato ma a tratti scollato dalla parola.
Cresciuto dentro la scuola di Paolo Grassi, Muscato, con esperienze maturate soprattutto nel teatro lirico e studioso dei registri interpretativi ha giocato su uno spartito che declina la tragedia ossia il luogo dell’assoluto etico in un relativo drammatico che cede persino al comico. Il risultato è l’abbassamento della hybris prometeica sul pop con esiti non sempre fortunati, come nel quadro di Prometeo (Alessandro Albertin per la prima volta a Siracusa e reduce da un suo Prometeo) e Ocèano (interpretato da un Alfonso Veneroso troppo ligio verso la gestualità comica).
Costruita sulla lotta tra ἀνάγκη (necessità) e τεχνική (tenica), la tragedia Prometeo incatenato ha la struttura di una sacra rappresentazione. Cinque quadri quanti sono i dialoghi che l’eroe dall’alto dei suoi ceppi incastrati nella rupe della Scizia, l’odierno Caucaso, intesse con gli altri personaggi: Kratos (un convincente Davide Paganini) e Bia (Silvia Valenti che riappare nel finale avvolta nel costume dell’aquila), il coro delle Oceanine, Ocèano, Io (Deniz Ozdogan), Ermes (Pasquale Di Filippo).
Il dono del fuoco è, nelle parole del Titano, solo l’inizio di un riscatto dell’umanità dalla tracotanza degli dei. Seguiranno il linguaggio, la parola scritta, l’arte. Le catene della lingua greca che lega la τεχνική all’arte espressione alta dell’umano (τεχνή) danno ragione alla raffigurazione di Prometeo come un Cristo ante litteram e contra litteram. Prometeo è uno dei dodici Titani, la stirpe preolimpica, che la mitologia pone in lotta con Zeus. I Titani sono l’archetipo del ribelle al potere dispotico che anche nella morte e nel sacrificio risponde alla gigantesca sua natura di eroe. E nel Romanticismo il titanismo ebbe in Prometeo il modello. Basti pensare alle numerose rivisitazioni del mito (gigantesca quella di Goethe) che partono appunto dalla trilogia di Eschilo. Prometeo incatenato è la seconda opera di una trilogia su Prometeo (si accetta qui la ricostruzione filologia di Andrea Del Corno, traduttore tra l’altro della più straniante messinscena di Antonio Calenda con un impareggiabile Roberto Herlitzka) in cui è rappresentata la punizione dell’eroe che ha già disobbedito a Zeus – Prometeo portatore di fuoco– e prima che sia liberato da Eracle e si pieghi alla necessità di Zeus in Prometeo liberato. Fugato il dubbio sulla paternità eschilea della trilogia, ovvero di questa unica tragedia superstite rappresentata forse nel 460 a.C. e poggiata sulla trasfigurazione di Zeus, espressione di una spietatezza del potere non altrimenti rinvenuta nella tradizione mitologica ed eschilea, peculiarità del testo resta l’insistenza sulla superiore dignità del titano, sulla solitaria magnanimità e sulla scelta simbolica di affrontare il destino. Insistenza antidrammatica che si risolve nell’oratoria eroica fino al quadro finale in cui si saldano con un tradimento della episteme narratologica peripezie, climax e scioglimento.
La folgore che farà crollare la rupe, seppellendo Prometeo, è sospensione della catarsi o è essa stessa catarsi? La risposta in apparenza attinente alla questione sull’esistenza della trilogia o sulla posizione di Prometeo incatenato all’interno della stessa, è simbolicamente rappresentata dalla oltranza di Prometeo che resta in catene, e, dunque, dalla coincidenza tra la meditazione sulla condizione umana e l’homo faber, l’artefice- si può azzardare umanista?- del proprio destino.
L’umanesimo di Muscato si condensa nella rappresentazione dell’ambiente, concepito come un tutto scenografico, musicale e luminoso in cui innesta i costumi e le coreografie. Una sintesi, elemento forte della messinscena. E’ la terra desolata, la finis terrae come la chiama il regista, l’elemento simbolico più pregnante dello spettacolo. Muscato punta il dito contro la disumanizzazione tecnologica immaginando la scenografia, disegnata da Federica Parolini, come una fabbrica abbandonata e arrugginita, attraversata da un binario morto troppo palesemente assimilabile ai binari dei campi di concentramento o a una Cernobyl mai così prossima e incatenando ovviamente Prometeo a una ciminiera diroccata.
Contro la tecnologia
C’è nella visione di Muscato un eccesso di antitecnologismo che nuoce alla traduzione contemporanea della regia e ammicca a una sorta di superato luddismo, con venature di ambientalismo con l’esito di emarginare la parte più propriamente filosofica del testo, come forse nelle sue intenzioni – e dichiarazioni- doveva prevalere.
Lo stridore della catastrofe è scandito da un tappeto sonoro digitale (ahimè la tecnologia!) e dalle luci di Alessandro Verazzi: la sintesi crea un effetto di spaesamento e di distruzione imminente in cui l’effetto cromatico è prepotente. Ben pensati i costumi di Silvia Aymonino non solo per aver riversato la ruggine delle ciminiere nei toni bruciati, dal rosso all’oro, dei costumi di Kratos, Bia ed Efesto (Michele Cipriani) ma per aver creato i contrappunti con l’azzurro delle Oceanine e con il bianco oro di Io. Un trionfo cromatico pari alle movenze e alla vocalità del coro.
Il coro delle Oceanine, diretto da Francesca Della Monica, è il punto forte dello spettacolo che vere “aure guizzanti” incalzano l’eroe “Ma chi, a parte Zeus, non compatirebbe i tuoi mali?”. Capeggiate da una sempre perfetta Elena Polic Greco le oceanine sono le portatrici sane del pathos tragico sia nei movimenti, ora onda ora risacca (le coreografie sono di Nicole Kehrberger), sia nei canti per i quali si ricorre a un registro solenne dai tratti talvolta gregoriani. Bravissime tutte le attrici del coro Silvia Benvenuto, Letizia Bravi, Gloria Carovana, Maria Laila Fernandez, Valeria Girelli, Giada Lorusso, Maria Pilar Perez e Silvia Pietta (le corifee) e le coreute Giulia Acquasana, Marina La Placa e Alba Sofia Vella cui si aggiungono le allieve dell’Accademia D’Arte del Dramma Antico Caterina Alinari, Clara Borghesi, Vanda Bovo, Carlotta Maria Messina, Marta Parpinel, Flavia Testa, Sandre Siria Veronese, Elisa Zucchetti
Di forte impatto il costume di paillettes di Hermes, l’unico personaggio con diritto di leggerezza e capriccio, di codardia e asservimento, che Pasquale Di Filippo ha sapientemente riversato sulla scena con un’interpretazione senza sbavature.
Come quella di Deniz Ozdogan che sa dare corpo e una splendida voce alla giovenca tormentata dal tafano per la gelosia di Era, reietta dal Bosforo allo Ionio, impazzita dal dolore e vittima dell’arroganza erotica di Zeus. Personaggio della svolta, Ozdogan sa tenere il ritmo del delirio ”impetuoso vento la follia mi fa uscire di strada, mi impasta la lingua” e spetta a lei l’interpretazione più bella.
Alessandro Albertin è un Prometeo che trova il pathos giusto alla fine dello spettacolo, quando il discorso si fa forte, declinato per quella ancorchè buona presunzione di cui dovrebbe essere il campione. Albertin, invece, si piega eccessivamente sul tono lamentoso e monocorde dei primi episodi per poi svettare poco prima del cataclisma. D’altronde nel rapporto verticale orizzontale, forma e senso del testo eschileo, Prometeo pur imprigionato sta sempre sulla vetta.
Prometeo incatenato è una scommessa ruvida per il traduttore. Roberto Vecchioni ha scritto un testo elegante ma senza punte liriche con un linguaggio tendente alla medietà contemporanea “Ermes mi ha rotto i timpani” da vero “galoppino degli dei”, le parole di Prometeo “possono uscire solo dalla bocca dei pazzi”.
Parole chiare, nette nella loro verità, riconoscibilissime e con un contenuto registro retorico. A un pubblico più attento non è sfuggita, però, la cacofonia di “Tu cianci invano” oppure la sinonimia tra destino e necessità, frutto di un’esegesi filosofica accolta da Vecchioni, applaudito alla sua entrata in teatro.
Il gradimento degli spettatori
A proposito di applausi, Prometeo incatenato è stato congedato con un’ovazione del pubblico, segno questo che la deriva pop del genere tragico è arrivata.