Sono tanti i segnali, sul fronte economico e sociale, che invitano a definire come una data di passaggio epocale questo 1° maggio 2023. Molto, oggi, dei vecchi assetti lavorativi appare in discussione. Nuove figure lavorative emergono. L’idea dell’operaio fordista è ormai tramontata. Il lavoratore mero esecutore lascia il campo all’operatore “integrato”, capace di dialogare con le macchine ma anche di formulare proposte autonome, in grado di migliorare il valore aggiunto del prodotto.
Nel contempo la nuova fabbrica dilata i suoi spazi, sia alla base che al vertice della catena produttiva.
Alla base l’attività manifatturiera si alimenta dell’abilità e della conoscenza del prodotto da parte dell’operaio, in grado di migliorarne la qualità e di determinarne – ove richiesto – l’unicità.
Al vertice l’azienda appare sempre più integrata con il territorio, con i centri di ricerca, con le università, diventando il collettore della capacità innovativa, dell’abilità manifatturiera, dell’immaginazione e dell’emozione espressi dal prodotto.
Al centro di questi processi di trasformazione c’è la figura del lavoratore sempre più consapevole del proprio ruolo, attivo rispetto alle scelte aziendali, capace di “fare squadra” piuttosto che – come nel passato – di “essere in squadra”, gerarchicamente subalterno e passivo. Il modello è quello dell’azienda “orizzontale”, lungo le linee produttive, in grado di collocare allo stesso livello funzionale manager, tecnici, operai specializzati. Non sono solo ipotesi di lavoro o elaborazioni di qualche sociologo d’avanguardia. Sono la realtà dei sistemi di organizzazione produttiva adottati dalle industrie capofila delle filiere aziendali, attraverso il cosiddetto World Class Manufacturing (WCM): un programma di innovazione basato sul miglioramento continuo, con un sistema integrato di derivazione giapponese, che prevede l’eliminazione di ogni tipo di spreco e perdita (Muda) con il coinvolgimento di tutti, attraverso l’impegno rigoroso di metodi e standard.
Un ruolo fondamentale in questi processi d’integrazione, lavorativi e sociali, è la formazione permanente, attraverso la nascita di vere e proprie scuole del lavoro dentro le fabbriche.
Si tratta di strutture semplici, affidate a squadre di pochissimi elementi specializzati, che ospitano aule o laboratori dove gruppi di lavoratori vengono invitati a studiare e a rielaborare i processi produttivi nella più totale libertà. Lo scambio capitale-lavoro in queste strutture produce operazioni win-win: lavorare meglio significa permettere al lavoratore di esprimere il proprio talento creativo, ma si traduce anche in una sensibile riduzione dei costi.
Siamo agli albori di un nuovo Umanesimo ? La sfida è certamente su questo piano. Quello che Giovanni Gentile individuava come il portato di una nuova cultura, di una nuova dignità per il lavoratore, che proprio perché tale crea la sua umanità.
A questo, anche a questo, invitano a pensare la “nuova fabbrica” ed i nuovi modelli organizzativi del lavoro: ad un lavoratore “qualitativamente e quantitativamente differenziato attraverso il lavoro che compie”, in grado di dare il proprio contributo ai nuovi processi produttivi, ma non solo.
A questa idea di lavoro bisogna iniziare a guardare, in occasione della festa che lo celebra, dando ad esso il pieno e totale riconoscimento, senza alzare perciò vecchi steccati, quanto piuttosto riportandolo al suo valore fondativo per la nostra coesione sociale e alla sua dimensione partecipativa.
Lo dice l’art.46 della Costituzione , fino ad oggi disatteso, che vorremmo vedere innalzato non solo dal Sindacalismo Nazionale, rappresentato dall’Ugl, ma da tutte le forze sindacali, a simbolo di questo 1° maggio 2023, individuando in esso la reale volontà di realizzare l’ “elevazione economica e sociale del lavoro”, non solo all’interno delle aziende, ma nel diritto, costituzionalmente garantito, ad “una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro”, all’attenzione per le esigenze familiari, alla tutela della donna lavoratrice, alla difesa e valorizzazione degli inabili.
In questa logica va ritrovata la prospettiva “programmatica” della Costituzione. E’ una prospettiva che le appartiene, frutto dei compromessi e delle mediazioni che stanno alla sua base, ma anche come grande opportunità per un nuovo riformismo sociale, che ponga il lavoro al centro della nostra vita nazionale.
Il lavoro è l’elemento essenziale dell’economia reale. E’ segno di civiltà e di libertà. E’ lo strumento attraverso il quale si può realizzare il principio costituzionale della giustizia sociale ed il ricambio sociale, nel nome del merito. Ed è uno degli aspetti essenziali della vita – per dirla con la Laborem exercens di Giovanni Paolo II – “sempre attuale e tale da esigere costantemente una rinnovata attenzione e una decisa testimonianza. Perché sorgono sempre nuovi interrogativi e problemi, nascono sempre nuove speranze, ma anche timori e minacce connesse con questa dimensione dell’umano esistere, con la quale la vita dell’uomo è costruita ogni giorno, dalla quale essa attinge la propria specifica dignità, ma nella quale è contemporaneamente contenuta la costante misura dell’umana fatica, della sofferenza e anche del danno e dell’ingiustizia che penetrano profondamente la vita sociale, all’interno delle singole nazioni e sul piano internazionale”.
E’ ritrovando laicamente il valore spirituale del lavoro che bisogna allora “tornare” alla Costituzione. Per scoprirla e sentirla per ciò che è realmente, liberandola dalle strumentalizzazioni e dalle manipolazioni ideologiche, ivi compreso il rapporto tra lavoro e proprietà, ché – come scriveva Giuseppe Mazzini, nel suo appello Agli operai italiani – “la proprietà, quando è conseguenza del Lavoro, rappresenta l’attività del corpo, dell’organismo, come il pensiero rappresenta quella dell’anima: è il segno visibile della nostra parte nella trasformazione del mondo materiale, come le nostre idee, i nostri diritti di libertà e d’inviolabilità della coscienza sono il seno della nostra parte nella trasformazione del mondo morale”.
In questo 1° maggio “di passaggio” si eviti perciò di lasciare l’idea costituzionale del lavoro in mano agli esegeti di parte, agli ultimi epigoni di un classismo ormai tramontato. La si riprenda piuttosto, nel segno di una più matura cultura nazionale, per provare a realizzarla laddove essa è ancora inapplicata, sentendola come una grande occasione di confronto e di integrazione sociale, di risposta matura ai nuovi processi produttivi e di modernizzazione. Le nuove condizioni socio-produttive rendono possibile questa svolta. E’ l’ora di approfittarne.