Ho letto con molto interesse, e al tempo stesso con una sottile amarezza, l’articolo di Giorgio Ballario sul convegno “Pensare l’immaginario” svoltosi a Roma il 6 aprile scorso. Confesso di aver seguito distrattamente i resoconti dell’incontro, perché sono ormai da tempo vaccinato dagli entusiasmi che i successi elettorali della destra suscitano negli uomini di cultura.
Ricordo ancora le iniziative culturali che accompagnarono nei primi anni Settanta i successi elettorali del Movimento sociale e più in generale il riflusso a destra che si manifestò anche fuori d’Italia, nell’America di Nixon come nella Francia gollista, come reazione agli eccessi del Sessantotto. La Destra nazionale non andò al governo, ma poteva contare all’epoca su di una rete di riviste culturali di tutto rispetto – dalla “Destra” edita dal Borghese a “Intervento” di Volpe, per tacere del “Conciliatore” di Piero Capello – e di una casa editrice con le spalle coperte come la Rusconi Libri affidata ad Alfredo Cattabiani. Erano vivi e attivi esponenti di spicco della cultura novecentesca schierati a destra, da Giuseppe Prezzolini a Ernst Jünger, da Carl Schmitt allo stesso Jonesco, per non fare che qualche nome. Anche per effetto di quel clima ottimistico, che raggiunse il culmine nell’estate del 1971, compii la scelta di iscrivermi a Lettere e non a Legge, disattendendo il saggio consiglio dei miei genitori. Bastarono pochi anni ed ebbe inizio la demonizzazione della destra politica e con essa della destra culturale, che raggiunse il culmine a metà degli anni Settanta.
Ricordo pure l’ondata di entusiasmo che accompagnò il successo elettorale della neonata (o meglio, nascitura) Alleanza Nazionale nel 1994. In questo caso, la destra era arrivata al governo; aveva addirittura espresso il ministro della cultura, nella persona di Domenico Fisichella, e, sia pure in condominio con la Lega, un consigliere di amministrazione della Rai come Franco Cardini. Ricordo la fila di illustri studiosi, medici, scrittori, persino presidi di facoltà universitarie che nella mia Firenze si avvicinavano ad Alleanza Nazionale convinti che fosse giunto il momento di vincere l’egemonia culturale della sinistra. In questo caso la delusione fu ancora più cocente, per due motivi. A Berlusconi non interessava promuovere una cultura alternativa, come dimostrano le scelte o non scelte del suo impero editoriale, cartaceo (Giornale a parte) e televisivo. Si limitò ad alcune operazioni propagandistiche, come la diffusione plateale del Libro nero del comunismo alla Convention di An del 1998. Quanto a Fini, aveva con la cultura un rapporto meramente strumentale, soggetto a esigenze pragmatiche. Non dimenticherò mai quando, nel 2003, fui nominato membro di una commissione di intellettuali che avrebbe dovuto suggerirgli le linee guida per la sua partecipazione ai lavori per l’elaborazione della Costituzione europea. I lavori erano coordinati dall’odierno ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, all’epoca senatore di An, e dal professor Roberto De Mattei, vicepresidente del Cnr; a parteciparvi erano fior di docenti universitari; io svolgevo le funzioni di segretario. Venivo a Roma, dove la commissione si riuniva, ospitata a Palazzo Chigi (Fini era all’epoca vicepresidente del Consiglio). Per qualche tempo, concepii l’insana illusione di poter contribuire a influire sui destini dell’Italia, anzi dell’Europa.
Lavorammo sino all’inizio dell’estate; a settembre nessuno ci riconvocò, neppure per dirci “grazie, ho cambiato idea”. Fini aveva scelto una strada del tutto diversa (il voto agli immigrati, il “male assoluto”, espressione per altro in parte travisata) e non gli servivamo più. Da allora non nutro più l’aspirazione di fare il “consigliere del principe”, anche perché i consiglieri del principe spesso finiscono male.
Per questo evito di fare commenti sul convegno romano, che naturalmente mi auguro abbia un apprezzabile seguito. Mi limito però a due considerazioni. Uno dei partecipanti, che per altro stimo, e ricordo col suo giovanile pseudonimo di Dragonera, ha scritto che il problema non è di “occupare posti”. Può essere vero, se chi occupa certe poltrone lo fa col deretano e non con la testa. Ma è possibile davvero ridisegnare l’immaginario nazionale se chi è in grado di assumere giornalisti o programmisti-registi in Rai, di commissionare sceneggiati, di finanziare pellicole, di conferire collaborazioni, di decidere il palinsesto dei programmi Rai (Sanremo incluso) non si riconosce in un certo progetto culturale? Pensiamo solo all’enorme potere di chi decide i finanziamenti per le produzioni cinematografiche, ora che il cinema vive di sussidi pubblici, statali o regionali, per la stranota crisi del botteghino. Siamo davvero sicuri che le esternazioni di tanti cineasti su temi etico-politici siano del tutto sincere, o non siano in certi casi dettate dall’esigenza di compiacere chi tiene i cordoni della borsa? Sono sempre stato convinto che non si debba disprezzare il potere, semmai il cattivo uso che se ne fa.
Un’altra osservazione. Concordo pienamente con quanto sostenuto al convegno da Adolfo Morganti sulla diversa sensibilità dei Comuni amministrati dalla sinistra riguardo alle tematiche culturali. Vivendo a Firenze, mi è capitato di verificare l’operato di molti amministratori locali. Mi ha sempre colpito come una delle loro prime preoccupazioni, anche e soprattutto nei Comuni della Provincia, sia stata l’apertura di spazi culturali: il vecchio cinema per pellicole di quarta visione, magari con contorno di avanspettacolo, che diviene un teatro d’essai, i locali rimasti vuoti della scuola elementare rimasta senza alunni che si trasformano in una splendida biblioteca con volumi a vista, tipo centro Pompidou. E mi ha meravigliato come molti amministratori locali non solo leggano, ma scrivano, spesso libri seri, non propagandistici, si aggiornino, in certi casi (chiedo scusa per la concessione alla vanità personale) abbiano letto i miei libri. Molti di loro sono figli (ora nipoti) di mezzadri che il partito (ovviamente il Pci) ha fatto studiare e vedono nella cultura non una sovrastruttura, ma la base per l’acquisizione e il consolidamento del consenso. In questo paradossalmente sono molto meno marxisti dei nostri amministratori, che, salvo rare eccezioni, come a Pietrasanta, vedono nella cultura una semplice sovrastruttura, e considerano la struttura portante l’economia, un’economia che per altro spesso coincide con gli interessi dei bottegai che invadono strade e piazze con i loro tavolini.
Per finire, consentitemi un’altra notazione, di carattere per altro semantico: per favore, evitiamo l’espressione “operatori culturali”. Mi ricorda la demagogica uscita di Mario-Gassman in quel grande e crepuscolare film di Scola che è “La terrazza”: “non parliamo più di attori, parliamo di operatori teatrali.” E invece a destra torniamo a parlare di saggisti, scrittori, filologi, attori, sceneggiatori, divulgatori (ci vogliono anche quelli), elzeviristi, lasciando alla sinistra la smania di livellare tutto e tutti. Come possiamo pensare di vincere la battaglia delle idee se partiamo sconfitti in partenza nella battaglia delle parole?
Bell’articolo. Concordo su tutto.