Non deve stupire il ricordo di Adriano Olivetti, fatto, in occasione dell’anniversario della sua nascita, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni (con un post introdotto dalla citazione olivettiana ”Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”). Il nome di Olivetti fa parte – e non da oggi – dell’”immaginario” della cultura identitaria. La stessa Meloni in occasione del congresso di FdI del 2014, lo collocò nel “pantheon” del partito. E non certo per una mera “operazione immagine”. Olivetti è una figura-simbolo da studiare e “rivendicare”.
Ingegnere chimico, erede di una ricca dinastia imprenditoriale, con sede ad Ivrea, di religione valdese, ma convertitosi al cattolicesimo nel 1949, antifascista di orientamento azionista, ma vicino al fascismo “intellettuale”, quello di Giuseppe Bottai e dell’architettura razionalista , a cui legò i progetti del suo nuovo stabilimento, Olivetti è stato , nel dopoguerra, l’imprenditore-politico che immagina la fabbrica-mezzo, non solo dispensatrice di profitti, ma anche di cultura e di servizi, cuore della comunità, in cui realizzare un’autentica, concreta solidarietà, base di un’ idea nuova di Stato: “Voglio che la Olivetti non sia solo una fabbrica – afferma – ma un modello, uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno libertà e bellezza a dirci come essere felici”. Ecco allora la fabbrica aperta alla luce, in cui gli orari sono ridotti ed i salari aumentati, i lavoratori vengono incentivati a studiare e a leggere, i loro figli hanno asili nido – si direbbe oggi – “di prossimità” e l’assistenza sanitaria è gratuita.
Nel 1948, proprio per dare sostanza politica alle sue analisi (è del 1945 L’ordine politico delle Comunità che va considerato la base teorica per una nuova idea dello Stato, dove accanto alla Camera politica, espressione delle comunità, ci sia anche un Senato della tecnica e delle competenze), Olivetti fonda il Movimento Comunità, con l’ambizione di costituire una terza forza, fra la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista. I tempi non erano evidentemente maturi. L’idea di una politica “nuova”, al di là del capitalismo e del socialismo, si scontrava con i “blocchi” dell’epoca e da essi venne schiacciata. Parlando della fine di quella esperienza , “l’Unità”, organo del Pci, scrisse, nel 1958, con l’arroganza che le era propria, di “fallimento di tutte le teorie della collaborazione di classe e delle strane elucubrazioni che attorno a Comunità si sono venute enucleando”.
Nel gioco delle scomposizioni-ricomposizioni post ideologiche che ruolo può, ancora oggi, occupare Olivetti ? Il tema del “comunitarismo” ha visto crescere, negli ultimi anni, interessi diversi, legati alle scuole d’oltreceano, che fanno capo a Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Michael Sandel, Robert N. Bellah, Michael Walzer.
Bisogna però anche ricordare che è stata la Nuova Destra italiana, sul finire degli Anni Settanta, a farne uno dei suoi temi distintivi. Nel primo numero di “Elementi”, uscito nell’autunno 1978, è Alain de Benoist a firmare un lungo articolo (“’Comunità’ e ‘società’”) dedicato al sociologo Ferdinand Tonnies e alle sue teorie organicistiche. Tra le immagini che integravano quell’articolo c’era anche la copertina della prima edizione di Comunità e società, pubblicata nei classici della sociologia delle EdIzioni di Comunità, le edizioni volute da Olivetti, griffate con quella campana ed il motto “Humana Civilitas” che era stato il suo simbolo politico.
Una consonanza che ci piace sottolineare, invitando a leggere finalmente l’esperienza olivettiana liberi da qualsiasi schematizzazione ideologica, e cercando di comprendere nel profondo la “forza di un sogno”. Con in più la consapevolezza che, oggi, di tornare a sognare abbiamo tutti un grande bisogno. Su questa strada anche un “visionario” come fu Olivetti ci può essere d’aiuto.
*per approfondimenti la biografia di Paolo Bricco per Rizzoli, Adriano Olivetti un italiano del Novecento
@barbadilloit
Tutto vero. Ma Adriano Olivetti non ebbe successo né come imprenditore (alla luce del dopo), né come politico. Quel modello era provinciale oltretutto, utopistico, inattuabile in altri contesti. E lo dice uno che alla Olivetti da molto giovane ci ha lavorato!
Era un modello per agricoltori-operai della zona d’Ivrea e del Canavese. Un modello che finiva per diventare conservatore anche per le decisioni strategiche. Quando arrivai alla Olivetti, nel 1968, ovviamente Adriano era morto senza lasciare grandi eredi, si insisteva con l’elettromeccanico, nelle calcolatrici, quando era ben chiaro che il futuro sarebbe stato elettronico! Meno prevedibile pensare allora che tutte quelle Macchine per Scrivere, elettriche o no, in meno di 20 anni sarebbero sparite. Ma ci vedeva giusto Valletta, poco prima di morire. Quel modello aziendale non sarebbe stato all’altezza delle sfide industriali dietro l’angolo. L’azienda deve guadagnare, in primo luogo, essere altamente produttiva, non fare politiche culturali e sociali se non in senso complementare, non andare incontro a tutte le richieste dei lavoratori… Non esiste per ‘insegnare a vivere o ‘aiutare a vivere’, ma per generare profitto. Altrimenti non può durare, mai. Neppure come IRI.
La prima ed assoluta ragione sociale di un’impresa è esclusivamente: guadagnare!!!! Altrimenti è una truffa per il popolo, per la nazione.
Ma si può coniugare il doveroso utile con il welfare
Michele Ferrero ha conquistato il mondo con una visione umanistica del lavoro
Se si vuole si può fare impresa senza perdere di vista che dovrebbe essere l’uomo al centro e non il capitale