La civiltà industriale, ci ricorda l’ecologista Guido dalla Casa, non fa altro che mettere «materia inerte (fabbriche, città, strade, impianti, macchine) al posto di sostanza vivente (foreste, paludi, praterie, savane, barriere coralline)».
E i dati oltremodo allarmanti riportati nel report 2022 del Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale (a cura dell’ISPRA) confermano la criticità del consumo di suolo in Italia con la perdita irreversibile di superfici naturali e agricole all’interno e all’esterno delle nostre città, che sarebbero invece preziose risorse per contrastare i cambiamenti climatici in corso.
Il consumo di suolo nel Belpaese supera ormai la soglia dei 2 metri quadrati al secondo, sfiorando i 70 chilometri quadrati di nuove coperture artificiali in un anno con punte particolarmente elevate in Lombardia (+8,83 km2), Veneto (+6,84 km2), Emilia Romagna (+6,58 km2), Piemonte (+6,30 km2) e Puglia (+4,99 km2). Tra le regioni più “virtuose” ci sono la Valle d’Aosta, la Liguria, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, il Molise, la Basilicata e la Calabria che nel 2022 hanno avuto incrementi inferiori ad 1 km2. I capoluoghi di provincia con una percentuale superiore al 50% di suolo consumato sono Torino (65%), Napoli (63%), Milano (58%) e Pescara (51%).
Il cemento ricopre attualmente oltre 21.500 km2 di suolo nazionale, dei quali 5.400 (un territorio grande quanto la Liguria) riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato. E questo incremento degli edifici si registra nonostante che ci sia una flessione demografica. A ciò si aggiunga che oltre 310 km2 di edifici risultano non utilizzati e degradati, una superficie pari all’estensione di Milano e Napoli. La crescita delle superfici artificiali peraltro solo in piccolissima parte è stata compensata dal ripristino di aree naturali al posto di aree degradate, pari nel 2022 a 5,8 km2.
Questo ritmo di consumo del suolo non è certamente sostenibile perché comporta non solo la dispersione degli abitanti su più vaste aree per l’espansione urbana (con intuibili costi ambientali in termini di energia e di inquinamento), ma anche la perdita dei cosiddetti “servizi ecosistemici”, cioè quelli legati alla naturalità dei suoli, come la produzione agricola e di legname, lo stoccaggio di carbonio, il controllo dell’erosione, l’impollinazione, la regolazione del microclima, la rimozione di particolato, la regolazione del ciclo idrogeologico.
L’espansione urbana, peraltro, rendendo il suolo impermeabile, favorisce l’aumento degli allagamenti e delle ondate di calore con un danno economico, se si considera il consumo di suolo degli ultimi 15 anni (2006-2021), stimato in quasi 8 miliardi di euro l’anno.
Secondo il rapporto le aree perse in Italia dal 2012 ad oggi avrebbero garantito la fornitura complessiva di oltre 4 milioni quintali di prodotti agricoli e l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana che ora, scorrendo in superficie, a causa dell’impermeabilizzazione del suolo, va persa e non è più disponibile per la ricarica delle falde aggravando il deficit d’acqua dei nostri territori. Nello stesso periodo, la perdita della capacità di stoccaggio del carbonio di queste aree (oltre tre milioni di tonnellate) equivale, in termini di emissione di CO2, a quanto emetterebbero più di un milione di autovetture con una percorrenza media di 11.200 km l’anno tra il 2012 e il 2020.
Questa situazione – va sottolineato con forza – dipende anche dall’assenza di interventi normativi efficaci. Nessun governo ha finora approvato una legge che blocchi o quantomeno riduca drasticamente il consumo di suolo.
A questo proposito il presidente del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), Stefano Laporta, ha dichiarato: «Il contenimento del consumo di suolo è la premessa necessaria per garantire una ripresa sostenibile dei nostri territori attraverso la promozione del capitale naturale e del nostro bellissimo paesaggio, attraverso la riqualificazione e la rigenerazione urbana e l’edilizia di qualità, attraverso il riuso delle aree contaminate e dismesse».
Questi dati devono far riflettere chi sta al governo della nazione. Come ha osservato in occasione della presentazione del rapporto la direttrice dell’ISPRA, Maria Siclari, devono servire a «tutti coloro che governano il territorio ed anche ai cittadini». L’accorato allarme lanciato dall’ISPRA e da molti studiosi come Luca Mercalli e Salvatore Settis non può e non deve cadere ancora nel vuoto.
A differenza di altre nazioni europee ed extraeuropee l’Italia è sovrappopolata. Questo ha comportato un aumento della superficie urbanizzata sia ai fini dell’edilizia abitativa, quando si trattava di assicurare alloggi decorosi e igienici ai figli dell’esplosione demografica, sia dell’apparato industriale. Si è costruito troppo e male, ma soprattutto si è continuato e si continua a costruire anche oggi, invece di ristrutturare e riconvertire gli edifici esistenti. Nella mia città, Firenze, molte facoltà universitarie sono state o saranno delocalizzate, e gli edifici inutilizzati sono stati o saranno riconvertiti a musei (come se non ce ne fossero già tanti) o a strutture ricettive (e poi se la prendono con chi per pagare l’Imu e i costi di messa a norma mette in affitto su B&B la sua casa. Costruire un nuovo edificio lusinga la vanità dei pubblici amministratori, consente di gestire lucrosi appalti, conferisce potere. E questo nonostante che l’industria edilizia dia lavoro soprattutto agli stranieri, e non solo a livello di manovalanza. A Firenze sono stati commessi autentici scempi, come lo sventramento del teatro comunale, degli anni Trenta, costruito in larga parte a sue spese dal marchese Ridolfi, trasformato in alloggi e strutture di lusso, e la costruzione del Palazzo della Musica, un enorme “cestino in vimini da bicicletta” nel verde dello storico parco delle Cascine
Prima i Professionali sfornavano in tre anni operai e artigiani qualificati, i camerieri e cuochi, i tecnici in cinque anni preparavano ragionieri, periti, geometri; oggi per esercitare certe professioni ci vuole la laurea breve.
Risultati: i giovani, non abituati al lavoro, preferiscono spesso lasciarsi mantenere dai genitori o dallo Stato, e per colmare il vuoto si fa ricorso a extracomunitari. Si dice che con i loro contributi salvano le nostre pensioni, ma nessuno fa il calcolo della spesa sociale che comportano, soprattutto con i ricongiungimenti familiari.
Così, siccome i “nuovi italiani” non possono vivere in baracche, bisognerà mangiare altro suolo, sempre che non si ritorni al “commissariato alloggi” come nel dopoguerra, o magari si destinino a loro le nostre seconde case, come auspicava una ministra che per fortuna durò poco.