L’altra sera, il 24 febbraio, è stato il primo anniversario (e speriamo non ce ne siano altri) dell’ ‘Operazione Militare Speciale’ sciaguratamente decisa da Vladimir Putin; per tutti gli altri guerra Russo-Ucraina. Naturalmente gli articoli, in Italia e nel mondo, su quella data si sono infittiti, sprecati. Così i media han fatto, ad esempio, il decalogo degli errori dei cosiddetti analisti, cominciando dall’inizio del conflitto o da prima di esso. Presto per un vero bilancio, non conoscendo dati essenziali, come ha ricordato Stefano Magni; e tuttavia, sbozziamo l’esercizio:
1. Nel XXI Secolo le guerre convenzionali non si combattono più: invece si combatte da oltre un anno una tipica campagna militare del Novecento, con masse in armi, con artiglieria, carri armati, missili e trincee insanguinate; 2. La Russia non invaderà l’Ucraina: forte, diffuso pregiudizio positivo nei confronti della Russia, presto smentito; 3. La Cina è la prima minaccia all’ordine mondiale liberale. Ancora a guerra iniziata, la “dottrina Blinken” di politica estera USA individuava nella Cina la minaccia principale; 4. L’Ucraina sarà battuta in tre giorni, al massimo una settimana. Ma invece di essere a Kiev, dopo un anno i russi sono ancora impantanati nel Donbass; 5. L’Ucraina è un Paese diviso: la metà orientale, russofona, accoglierà i russi a braccia aperte. Bubbole; 6. Il mito della passata supremazia Usa, dell’unipolarismo finito. Putin ne era convinto quando ha lanciato la guerra di invasione ignorando gli avvertimenti di Usa e Nato; 7. L’Occidente è in crisi e profondamente diviso. Sarà, ma almeno ha saputo ritrovare la sua unità, di qua e di là dall’Atlantico. Putin contava sulla dipendenza dal suo gas. Persino la Germania ha abbozzato. Non sono scoppiate gravi crisi economiche e sociali, nessuno ha abbandonato la Nato, Finlandia e Svezia hanno chiesto di entrarvi; 8. La guerra si vince con le sanzioni. Come volevasi dimostrare: no. L’amministrazione Biden e gli alleati europei hanno dato per scontata una lettura economicistica delle relazioni internazionali e della società russa; 9. La Russia non sopporterebbe troppe perdite. Ed invece sì, in una misura inimmaginabile. La convinzione errata che infliggere perdite colossali ai russi, sul campo di battaglia, sarebbe stato sufficiente ad indurli a più miti consigli o provocare un golpe al Cremlino; 10. L’escalation nucleare impossibile. Ovviamente, tutti continuano a sperarlo. Però la Russia, grande potenza nucleare mondiale, membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha già violato il tabù dell’invasione di un Paese sovrano, in Europa, in un’impresa irrazionale, secondo i nostri parametri, già sbriciolati per molti aspetti.
(Da https://www.nicolaporro.it/atlanticoquotidiano/quotidiano/esteri/un-anno-di-guerra-in-ucraina)
Come ricordava Giorgio Ferrari su L’Avvenire del 22 febbraio 2023, in sintesi:
“Siamo precipitati, da allora, in un nuovo disordine mondiale, un’operazione di polizia di frontiera si è trasformata in una guerra di trincea sanguinosa e sanguinaria, che non ha risparmiato la popolazione civile. Pesantissimo anche per la Russia il conto in vite umane, che a fatica riesce a nascondere all’opinione pubblica un bilancio fallimentare sul piano militare. Quello politico: nel denunciarne gli effetti si fa profetico il ministro degli Esteri, Sergeij Lavrov, quando afferma che l’ ‘Occidente vuole trasformare la Russia in uno ‘Stato-canaglia’. Numeri alla mano, nonostante le ripetute sanzioni la Russia non si trova affatto al collasso per effetto delle sanzioni, però il suo isolamento internazionale è palpabile (e pericoloso). Gli arsenali occidentali erano ragguardevolmente forniti, oggi la sola Ucraina consuma più munizioni di quanto l’industria degli armamenti sia in grado di produrne e contemporaneamente gli stock dei Paesi europei della NATO si rivelano spesso invecchiati, malfunzionanti. Urgente la necessità di riarmare l’Alleanza Atlantica prima ancora di fornire soccorso all’Ucraina. Allo stesso tempo, la sovrapposizione fra Nato e la Ue ha finito per relegare l’Europa ad un’astratta entità geografica a dispetto di un’Alleanza a guida americana e britannica che ha sostanzialmente preso le redini della guerra. Il ritiro americano dall’Afghanistan già prefigurava quali fossero i veri interessi ed i reali obiettivi della Casa Bianca: il contenimento della Cina sul piano commerciale e soprattutto sul piano militare, considerata la poderosa accelerazione delle spese per armamenti di Pechino. La riconferma di Xi Jinping a un terzo mandato, suona sinistra. ‘Il presidente Putin ha scelto una guerra premeditata che porterà una catastrofica perdita di vite umane e sofferenze umane. Solo la Russia di Putin è responsabile della morte e della distruzione che questo attacco porterà, e gli Stati Uniti, i loro alleati e partner risponderanno in modo unito e deciso. Il mondo riterrà responsabile la Russia e le chiederà conto’ dichiarava Joe Biden mentre i carri armati russi varcavano il confine ucraino. Gli Stati Uniti hanno progressivamente aumentato la fornitura di armi ed assistenza all’Ucraina, imponendo agli Alleati Nato un comportamento analogo. Oggi, però, Washington non può consentirsi uno stallo infinito e nemmeno una prolungata inerzia sul terreno di battaglia. Non si può andare avanti in eterno, prima o poi ogni guerra finisce con un negoziato; Zelensky, dicono o pensano molti americani, prima o poi dovrà decidere di trattare. Ma Biden ha, altresì, la spina nel fianco della Camera passata da poco ai repubblicani, poco disposti a finanziare all’infinito una guerra lontana dagli occhi dei propri elettori”.
(https://www.avvenire.it/mondo/pagine/la-vecchia-geopolitica-e-stata-stravoltada-un-conflitto).
Vladimir Putin (dato per gravemente malato più volte ed invece sanissimo per i suoi 70 anni, pare, così come solido al potere) ripete, un giorno sì e l’altro pure, che “la Nato vuole sconfiggere strategicamente la Russia, fornisce miliardi di dollari in armi a Kiev, è complice dei crimini commessi dai nazisti dell’Ucraina, partecipa attivamente al conflitto, sempre di più”. Per questo, dice il presidente russo, “siamo stati costretti a reagire” per opporci al “fatto che questo nuovo mondo che sta emergendo si sta costruendo unicamente nell’interesse di un solo Paese, gli Stati Uniti. Ora che i loro tentativi di riconfigurare il mondo a loro immagine, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, hanno portato a questa situazione non possiamo ignorare le nostre capacità nucleari”.
Detto dei missili anti-tank Javelin, serviti dapprima agli ucraini per bloccare l’avanzata delle colonne corazzate russe, dei più potenti, successivi Himars, dei droni Bayraktar TB2 di fabbricazione turca, delle mosse della flotta russa nel Baltico e nel Mar Nero, della superbomba russa dotata di un sistema di navigazione inerziale e satellitare, con una testata di 1010 kg., di altre armi e tattiche, rimane per ora una situazione assolutamente ferma; bloccata la posizione delle parti, ostacolo insormontabile ad ogni ipotesi di cessazione del conflitto a breve.
La Russia ribadisce che il territorio annesso nel 2014 rappresenta parte integrante della Federazione Russa. “Non ci sono condizioni per pace. Crimea non tornerà a Kiev”. Lo han detto Putin e tutto il cerchio di potere del Cremlino. La Crimea è una linea rossa invalicabile ed una regione dalla quale le forze russe non andranno più via. Una posizione ritenuta granitica anche da comandi ed osservatori occidentali, i quali hanno sottolineato che, rispetto ai territori invasi dal febbraio 2022, la percezione che si ha riguardo la Crimea è quella di un’area ormai impossibile da togliere a Mosca. Come parte del Donbass. Mosca non rinuncerà mai a rivendicare le 4 regioni annesse da Putin a settembre 2022, i ‘Nuovi Territori’: Zaporizhzhia, Kherson, Donetsk e Luhansk.
Per Kiev è, naturalmente, tutto il contrario. “Quella è la nostra terra, il nostro popolo. Riporteremo la nostra bandiera in ogni angolo dell’Ucraina”, afferma Zelensky. “Ci fermeremo solo quando ripristineremo il Paese entro i limiti del 1991”: le intenzioni di Kiev sono quelle di tornare in Crimea. Per molti già in primavera, con la controffensiva ucraina, che potrebbe puntare direttamente alla penisola del Mar Nero od ai territori occupati che uniscono la Crimea al Donbass, come per esempio la città di Mariupol e la regione circostante. Se si concorda nel ritenere legittima l’aspirazione ucraina nel riconquistare la Crimea, la divisione è nel considerare realistica o meno la riconquista della penisola e, soprattutto, se essa debba avvenire con il pieno sostegno occidentale. Molti frenano sulle possibilità concrete di vittoria. Altri ritengono invece che la Crimea sarebbe, forse, il colpo del ko definitivo per Putin, ripiegare da quella che era stata la sua più importante operazione bellica nella lunga stagione di potere. Sul punto, il dibattito è acceso, aperto, e coinvolge non solo Kiev, ma anche il principale alleato dell’Ucraina, gli USA. Da Oltreoceano, le dichiarazioni sono state per lo più improntate alla diplomazia, tuttavia.
Scriveva Lorenzo Vita su InsideOver dello scorso 27 febbraio che:
‘L’impressione, almeno in questa fase del conflitto, è che al momento la diplomazia non riesca a fare breccia nemmeno su come orientare i possibili sviluppi della guerra. Le armi si confermano l’unico verso strumento di comunicazione tra le parti e il futuro della guerra è sostanzialmente delegato esclusivamente alle vittorie sul campo ed alle forniture di mezzi e armi ai due eserciti. Washington ha bocciato il velleitario (e decisamente fumoso) “piano di pace” cinese per l’Ucraina ed ha anche accusato Pechino di voler sostenere militarmente Mosca. E se la Casa Bianca al momento frena sull’invio di F-16 all’Ucraina, è il Congresso, soprattutto attraverso il presidente della Commissione per gli affari esteri della Camera, Michael McCaul, a premere sull’amministrazione Biden affinché invii ancora più armi, carri e caccia agli uomini di Zelensky’.
Il recentissimo, breve incontro Blinken-Lavrov, a New Delhi per il G20, non pare aver mutato nulla di sostanziale. Per Alessandro Orsini a Cartabianca: “La guerra finirà con una grossa concessione territoriale alla Russia. A meno che non si finisca tutti quanti in un inferno nucleare. Non esiste la possibilità che Kiev spazzi via la Russia dall’Ucraina. Non ci sarà una soluzione militare alla guerra in Ucraina. La Russia non riuscirà a conquistare tutto il paese e Kiev non riuscirà a respingere i russi al di là del Donbass”, dice il professore di Sociologia del Terrorismo Internazionale. “La situazione peggiorerà: la Russia ha 360mila soldati in Ucraina e 150mila che si addestrano nelle caserme… C’è una chiara volontà, legittima, di Zelensky di colpire il territorio russo. Starà al blocco occidentale modulare dall’esterno il conflitto. Zelensky ha solo i droni, se avesse gli aerei userebbe gli F-16”.
(https://www.adnkronos.com/ucraina-russia-orsini-guerra-finira-con-concessioni-a-putin_7hv).
Da ultimo, proprio oggi 5 marzo, leggo della battaglia senza fine di Bakhmut, l’ “inferno” secondo Volodymyr Nazarenko, un vicecomandante della Guardia nazionale di Kiev, descrivendo la città diventata da settimane il fulcro della guerra tra Ucraina e Russia, dove centinaia e centinaia di combattenti son inghiottiti quotidianamente dalla morte, da ferite gravi, da mutilazioni, da sofferenze inaudite. Una nuova Stalingrado. Le forze russe stanno lanciando offensive anche verso Kupiansk, Limán, Avdiivka e Shakhtarsk, secondo lo Stato Maggiore ucraino.
La sera del 24 febbraio, decisi, dunque, di scaricare dal canale Netflix Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues), un film del 2022 diretto da Edward Berger. Basato sul bestseller omonimo dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque, del 1928 (1ª ed. italiana 1931), terzo adattamento cinematografico, dopo il film del 1930 – un classico dell’antimilitarismo – ed una versione del 1979, è una pellicola prodotta da Netflix, che è stata selezionata per rappresentare la Germania ai Premi Oscar 2023, nella sezione del miglior film internazionale, arrivando a ricevere 9 candidature. È la prima trasposizione cinematografica a produzione e cast interamente tedeschi di Niente di nuovo sul fronte occidentale, ne mantiene e rafforza il chiaro messaggio su inutilità e stupidità della guerra. Sceneggiatura: Edward Berger, Lesley Paterson e Ian Stokell; Cast: Felix Cammerer, Albrecht Schich, Aaron Hilmer, Moritz Claus, Adrian Grünewald, Daniel Brühl Thibault de Mantalembert. (Sito Ufficiale: https://www.imwestennichtsneues.net/gallery).
Erich Maria Remarque, pseudonimo di Erich Paul Remark (Osnabrück, Bassa Sassonia, 1898 – Locarno, 1970), nacque il 22 giugno 1898 in una famiglia operaia cattolica di Osnabrück, figlio di Peter Franz Remark e Anna Maria Stallknecht. Con origini francesi: il bisnonno Johann Adam Remarque, nato nel 1789, discendeva da una famiglia francese di Aquisgrana. Durante la Prima Guerra Mondiale, Remark fu chiamato alle armi nell’Esercito imperiale tedesco con la sua classe di leva, nel novembre 1916, ed inquadrato inizialmente come recluta nel 78º Reggimento di fanteria nella caserma “Caprivi” di Osnabrück. Il 12 giugno 1917 viene trasferito sul fronte occidentale con la 2ª Compagnia delle riserve, a Hem-Lenglet. Il 31 luglio 1917 egli rimane ferito da una scheggia alla gamba sinistra, al braccio ed al collo; curato dapprima all’ospedale da campo, quindi evacuato e rimpatriato, viene trasferito all’ospedale St.-Vincenz di Duisburg, per poi essere dimesso alla fine di ottobre 1918. Ritornato a Osnabrück, il 7 novembre Remark è giudicato idoneo per il servizio al fronte, ma l’11 novembre, con il termine del conflitto, è smobilitato, venendo congedato il 5 gennaio 1919.
Nel dopoguerra Erich Remark cambiò molti lavori, bibliotecario, uomo d’affari, insegnante. Poi si cimentò nel mestiere di giornalista, anche di sport, auto, costume. Dal 1924 collaborò alla rivista berlinese Sport im Bild, dove nel 1927-28 uscì a puntate il romanzo mondano Station am Horizont. Nel 1929 pubblicò l’opera che lo rese mondialmente famoso, Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues) con il nome Erich Maria Remarque: il romanzo descriveva la totale crudeltà della guerra attraverso la prospettiva di un soldato diciannovenne. Di Im Westen nichts Neues l’editore Propyläen-Verlag vendette nei primi mesi del ’29 un milione di copie. Il romanzo divenne un successo di proporzioni stupefacenti, tradotto in oltre 50 lingue.
Nel 1931, dopo aver terminato Der Weg zurück, lo scrittore comprò una villa a Ronco su Ascona, Canton Ticino, grazie ai cospicui guadagni ottenuti, pensando di alternare soggiorni nel sud della Francia ed in Svizzera. In una conversazione con Griffith ‘Griff’ Borgeson, un giornalista americano che nel 1963 gli comprò, in Svizzera, la vecchia Lancia Dilambda, Remarque gli racconterà di aver lavorato come giornalista specializzato per la società tedesca di pneumatici Continental AG, dove conobbe i corridori del team Mercedes degli anni ’20, tra i quali Caracciola, del quale divenne amico. Guidò, tra altre supercar dell’epoca, una Lancia Lambda, a carrozzeria portante, della quale apprezzò assai la sospensione a ruote indipendenti, giudicandola una formidabile routière. Poi, nel 1932, desiderando una vettura più potente, egli acquistò dall’agente Lancia di Berlino il chassis della Dilambda e commissionò al carrozziere Voll & Rohrbeck un Cabriolet Royal. La Dilambda fu fabbricata a Torino tra il 1928 e il 1935 per il mercato d’esportazione, soprattutto. Mossa da un poderoso 8 cilindri a V di 4 litri, la Dilambda erogava 100 cavalli e fu prodotta in 1.685 unità.
Due volte la vettura salvò Remarque. Il suo pacifismo, definito disfattismo ed antipatriottismo, lo condannò. Nel 1933, assunto il governo, i nazisti bruciarono e misero subito al bando le sue opere, mentre la propaganda di regime faceva circolare la voce ch’egli discendesse da ebrei francesi e che il suo cognome fosse Kramer, cioè il suo vero nome al contrario. Un amico lo avvisò che entro 24 ore sarebbe stato arrestato. Al volante della Lancia lo scrittore raggiunse Antibes, sulla Costa Azzurra. Nel 1939 un’altra telefonata, dell’Ambasciatore statunitense a Londra in persona, Joseph Kennedy, lo avvisò che la Germania stava per invadere la Francia e che correva il rischio di essere arrestato come traditore del Reich. Rimessosi al volante del Cabriolet raggiunse la villa di Ascona. Da lì, si trasferì poi negli Stati Uniti con la prima moglie, la danzatrice tedesca Ilse Jutta Zambona, che sposò e dalla quale si separò due volte (il secondo matrimonio per consentire alla donna di poter risiedere in Svizzera); i due divennero cittadini statunitensi nel 1947. Comunque, Remarque continuò una burrascosa relazione sentimentale con l’attrice Marlene Dietrich, ch’era iniziata nel 1937 al Lido di Venezia, pare ignorando la natura bisessuale della famosa star. A New York lo scrittore ebbe anche una complicata liaison con la principessa Natalie ‘Natasha’ Paley, figlia del granduca Paolo Romanov, assassinato dai bolscevichi, figlio dello zar Alessandro III e zio di Nicola II. Nel 1938 gli viene tolta la cittadinanza tedesca.
Nel 1948 Erich Remarque, dopo ricorrenti problemi di depressione e dipendenza dall’alcol, tornò in Svizzera. Nel 1958 sposò l’attrice Paulette Goddard (1910-1990) ex moglie di Charlie Chaplin, che rimase al suo fianco fino alla morte, sopraggiunta ad Ascona (o a Locarno) nel 1970, all’età di 72 anni per patologie cardiache. In La notte di Lisbona (Die Nacht von Lissabon, 1963) lo scrittore aveva narrato le drammatiche vicende di un antinazista tedesco costretto a fuggire negli Stati Uniti via nave, il tema dello sradicamento personale, della tensione tra la nostalgia della patria e lo spirito democratico-pacifista cui rimase sempre fedele. Sua sorella maggiore, Elfriede Scholz, rimasta in Germania, fu arrestata nel 1943 per dichiarazioni contro la guerra ed Hitler, dichiarata colpevole ed il 16 dicembre 1943 ghigliottinata nel carcere berlinese di Plötzensee. Lo seppe solo nel ’45. (A Dilambda in a Cave! originariamente pubblicato, maggio 1972, in Wheels da Griffith Borgeson, https://www.whichcar.com.au/features/classic-wheels/classic-wheels-a-dilambda-in-a-cave; https://it.wikipedia.org/wiki/Erich_Maria_Remarque).
Ha scritto giorni fa Ada Guglielmino in www.nonsolocinema, Niente di nuovo sul fronte occidentale:
‘Racconta la guerra in modo disperato e terrificante. Nel 1917 il diciassettenne Paul Bäumes (Felix Kammerer) si unisce all’esercito tedesco con tre compagni di scuola e contro il parere dei suoi genitori. Entusiasmo, patriottismo e cameratismo che lo hanno convinto ad arruolarsi sono il frutto della propaganda dei professori. Appena arrivato sul fronte Occidentale, in Francia, i sorrisi, le canzoni cantate a squarciagola lasciano presto il posto al rumore delle granate, al gas, al fango ed alla brutalità della guerra di trincea, che dal 1914 al 1918 fece complessivamente 16 milioni di morti. Paul vede cadere uno dopo l’altro i suoi compagni nelle violente battaglie che seguono le lunghissime attese in trincea, dove i soldati vengono ritratti dalla sensazionale fotografia di James Friend (candidato all’Oscar) che ci porta dentro le luride trincee, mentre la inquietante, a tratti ipnotica colonna sonora di Volker Bertelmann (una delle nove candidature agli Oscar), e un lavoro sul suono rendono l’esperienza dello spettatore di totale immersione. Berger non edulcora la realtà e soprattutto la rende poco eroica: soldati sempre più giovani venivano mandati al macello per conquistare, a volte, poche decine di metri. Costretti in spazi angusti e infestati da topi e parassiti, infreddoliti e coperti di fango, un’intera generazione di giovani tedeschi venne spazzata via sul fronte occidentale. Berger ricrea l’angoscia e la sofferenza spingendosi oltre l’operazione fatta da Sam Mendes con 1917. La lezione è chiara: alla fine della guerra, alle 11 dell’ 11.11,1918, non ci sono vincitori, ma solo vinti e vittime. Il paesaggio distrutto sembra extraterrestre, i morti hanno gli occhi spalancati e sono coperti dal fango. La guerra è un inferno, e questo film lo mostra in dettaglio’.
(https://www.nonsolocinema.com/niente-di-nuovo-sul-fronte-occidentale-di-edward-berger.html).
Intorno alle 5:00 dell’11 novembre, la delegazione tedesca guidata dal centrista Matthias Erzberger firma l’armistizio che entrerà in vigore alle 11:00 (per questo sarà assassinato nel ’21). Dopo aver appreso del cessate il fuoco, Paul ed il commilitone amico Kat rubano cibo da una fattoria, ma Kat viene colpito dal giovanissimo figlio del contadino. Portato a spalle da Paul muore in ospedale. Il generale (immaginario) Friedrichs vuole porre fine alla guerra con una vittoria tedesca e ordina che l’attacco inizi alle 10:45. Un Paul scoraggiato e indurito dalla battaglia (uno dei suoi amici, nonostante si fosse arreso, viene bruciato vivo da alcuni soldati francesi) uccide molti poilu francesi prima di essere trafitto al petto da una baionetta, pochi secondi prima delle 11:00, quando i combattimenti si fermano ed il fronte tace. Poco dopo, una recluta tedesca, appena arrivata, già messa in salvo da Paul, ne trova il corpo incrostato di fango.
Edward Berger (Wolfsburg, Bassa Sassonia, 1970), regista e sceneggiatore, ha frequentato la Hochschule für Bildende Künste Braunschweig dal 1990 al 1991 e poi si è trasferito alla Tisch School of the Arts della Università di New York, dove ha terminato i suoi studi sulla regia nel 1994. Il suo primo film basato sulla sua propria sceneggiatura è stato Gomez-Kopf oder Zahl (1998). Ha anche lavorato come sceneggiatore e regista ad alcuni episodi della serie televisiva KDD-Kriminaldauerdienst. Dall’agosto 2014, Berger ha diretto i primi cinque episodi della miniserie televisiva Deutschland 83, presentata in anteprima al Festival di Berlino 2015. Nel 2022 Berger è il co-sceneggiatore e il regista del film Niente di nuovo sul fronte occidentale per il quale riceve una candidatura al premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. Realizzato e filmato prima del conflitto russo-ucraino. (https://en.wikipedia.org/wiki/Edward_Berger).
Quando avevo 20 anni, in piena guerra del Vietnam, non potevo apprezzare il pacifismo ed antimilitarismo della nostra sinistra comunista, tutto strumentale, in chiave anti-nordamericana. Semmai mi identificavo con Berretti Verdi con John Wayne! Assieme a Gianfranco Fini, pare. Ovviamente Remarque e l’Hemingway di Addio alle armi, e cinematografia derivata, neppure.
Oggi sono, naturalmente, invecchiato, un po’ infrollito, e diventato quasi un ‘pacifista di destra’, tanto per affibiarmi una etichetta. Concordo, semmai, con Nico Piro, giornalista del TG3, Maledetti pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra (People, 2022):
“Non sono un medico, non sono un politico, sono un giornalista. Il mio pezzettino, la mia gocciolina, è provare a raccontare la guerra per quello che è: merda, sangue, morte e dolore. Mentre l’Ucraina brucia, Nico Piro, inviato di guerra, ragiona e scrive in queste pagine, con penna affilata, della vendita del ‘prodotto-guerra’ da parte dei politici e del loro apparato mediatico, disperatamente impegnati a piazzare il conflitto a un’opinione pubblica che non ne vuole sapere nulla ed è schierata con la pace. Di fronte alla violenza verbale degli opinionisti con l’elmetto, al sorgere di un pensiero unico bellicista, lo scopo di questo pamphlet è smontare la narrazione della guerra che ci stanno spacciando come male necessario dall’alto valore morale”. (https://www.ibs.it/maledetti-pacifisti-come-difendersi-dal-libro-nico-piro/e/979125979).
Ciò detto, il bel film di Berger (a tratti angosciante) risente di alcuni ‘vizi teutonici’. Non solo la pesantezza, per l’ideologia assai antimilitarista di chi ha perso due Guerre Mondiali e da decenni viene sempre indicato come il cattivo, il perfido, il nemico dell’umanità. Fino ad ingigantire il masochismo insito in certa sessualità germanica (assieme alla bisessualità), l’autoritarismo ottuso, farne colonne portanti dell’edificio narrativo di oggi. Americani, inglesi, francesi (mai guariti dalla loro propaganda, quella della prospettiva dell’eroe positivo, che ha vinto la guerra con onore e orgoglio, la positività di chi sta dalla parte giusta della storia) non avrebbero scritto e diretto una pellicola simile. Che finisce, al solito, e sia pure con qualche sottilezza drammatica, col caricare le colpe sulla Germania, quella del Kaiser prima, del Führer poi, diremmo. Come se la Germania del 1914 fosse stata colpevole più di altri dello scoppio della WWI. Stereotipato, retorico poi, a mio avviso, il ritratto dell’immaginario generale Friedrichs, per il quale l’arrivo della pace non era qualcosa di cui essere felici, ma anzi la prova del tradimento dei politici socialdemocratici, la necessità di mostrare un atto di coraggio un’ultima volta, vincere un’ultima battaglia o, semplicemente, cogliere l’occasione per uccidere il nemico un’ultima volta.
Un americano avrebbe osato così descrivere il (reale) generale John Pershing (1860-1948), il comandante dell’American Expeditionary Force, che rigettò gli ordini relativi all’armistizio? Egli non lo approvava, quindi non inoltrò il comando ai suoi uomini di sospendere qualsiasi ulteriore azione all’ora stabilita per cessare il fuoco. Quando la notizia fu trasmessa a tutti i fronti della guerra per assicurarsi che tutti ne fossero a conoscenza, e che la guerra fosse interrotta ovunque allo stesso tempo, ciò ha lasciato un tempo di riserva tra la firma del documento e l’effettiva applicazione dei termini. Molti si aspettavano che la dichiarazione di pace potesse fermare le battaglie in corso, un inutile spargimento di sangue. Ma la situazione reale era diversa. Combattendo per quattro anni l’una contro l’altra, tre milioni di caduti in pochi chilometri fangosi, conquistati o persi, entrambe le parti avevano maturato un forte senso di odio. Ai soldati, ai quali era stato ordinato di non mostrare pietà per i nemici per tutto il tempo trascorso in trincea, ora è stato improvvisamente detto di rinunciare alle armi e prepararsi per tornare a casa. Quando la polvere si è posata, secondo quanto riferito, quasi 11 mila soldati avevano perso la vita negli ultimi minuti del conflitto (o persino dopo la sua cessazione formale). Furono aperte indagini per scoprire perché così tante vite erano andate perdute con la pace dietro l’angolo, ma nulla poteva spiegare il vano spargimento di tanto sangue. Per nascondere l’imbarazzo della morte dell’11 novembre, si ritiene che il decesso di molti soldati sia stata registrato il 10 novembre.
(https://ita.cm-ob.pt/where-is-matthew-barnett-now; https://www.corriere.it/index.html).
Ha dichiarato il regista Berger:
‘Non volevo fare un remake del film del 1930, ma un adattamento del romanzo. L’ho rivisto e per un paio di settimane sono andato in crisi temendo di non essere all’altezza. Ho trovato la strada dalle pagine di Remarque. Il suo è un diario di guerra molto soggettivo. Era anche un giornalista, la sua prosa è meravigliosamente laconica. Offre descrizioni senza troppa emozione, il che lo rende ancora più potente e commovente per il lettore. Volevo replicare quell’esperienza con la macchina fotografica, vedere le cose attraverso gli occhi e lo stomaco di Paul Bäumer. È il viaggio di un ragazzo che è stato manipolato da una propaganda ufficiale che gli diceva che la guerra sarebbe stata un’avventura. Presto si rende conto che erano tutte bugie, assistiamo alla sua perdita dell’innocenza. Diventa una macchina per uccidere che cerca solo di sopravvivere. Ma sopravvivere significa uccidere gli altri. La terribile scena dell’incontro con il soldato francese lo riassume bene. I soldati nelle trincee sono indistinguibili l’uno dall’altro’.
Su questo, alla luce dell’inferno odierno di Bakhmut e di altri luoghi d’Ucraina (per limitarsi a quel conflitto), credo difficile non concordare con Berger: ‘Il film è un monito pacifista anche per i ragazzi che combattono oggi’. Ma esistono, infine e veramente, le parti giuste della storia?
Bell’articolo. Anch’io rischio di diventare un pacifista di destra, non so se per colpa dell’età o del declino della politica estera statunitense, a partire dalla guerra del Kosovo. Un declino anche culturale: gli Stati Uniti hanno dovuto anche in diplomazia la loro grandezza all’immigrazione degli intellettuali europei. Kissinger nella diplomazia è stato un po’ quello che è stato Lubitsch nella cinematografia. Mi sembra sempre più evidente che Biden non hanessuna voglia di arrivare non dico a una pace ma a un armistizio. Quando afferma che il piano di pace cinese non va bene perché piace a Putin si comporta nel migliore dei casi in maniera bambinesca: se gli piacciono solo i piani di pace che non vanno bene a Mosca, è ovvio che vuole che la guerra continui. Questo non vuol dire naturalmente che Putin abbia ragione.
Quanto a Niente di nuovo sul fronte occidentale, ricordo di averlo letto da ragazzo in francese, in una copia di A l’ouest rien de nouveau comprata da uno dei miei genitori sotto il regime, che aveva in un primo tempo autorizzato la traduzione alla Mondadori, ma poi, su denuncia del quotidiano Il Tevere, aveva bloccato la vendita in Italia del libro, per la sua propaganda pacifista. Un libro crudo, di cui ancora ricordo ancora nitidamente certi passaggi e personaggi, come il professore che fa entusiasmare per la guerra gli studenti che partono volontari, e poi viene richiamato alle armi anche lui, o il caporale che si fa lucidare e ingrassare gli stivali. E sono passati almeno cinquantacinque anni….
Sarebbe ora che gli ucraini, in luogo di farsi ammazzare dai cugini russi, si rendessero conto che stan solo preparando il terreno agli interessi di Soros, BlackRock, JP Morgan, Goldman Sachs ed altri marchi americani…
Bellissimo pezzo! un caro saluto
Grazie! E meno male che Ron DeSantis ha detto una delle prime verità di parte USA: la guerra in Ucraina è “una disputa territoriale” che non ha nessuna rilevanza per “gli interessi nazionali vitali” degli Stati Uniti. Speriamo che cacci via lo scorreggione e la sua corte dei miracoli…