Il Carnevale di Viareggio “compie” centocinquanta anni. Un’occasione per ricordare uno degli eventi più spettacolari e grandiosi dell’immaginario italiano, ma non solo.
La sua storia ultracentenaria ha avuto inizio il giorno di Martedì Grasso del 1873. Secondo la tradizione attorno ai tavoli del caffè del Casinò, tra i giovani benestanti che si ritrovavano in quel luogo di aggregazione della Viareggio d’allora sbocciò l’idea di una sfilata di carrozze per festeggiare il Carnevale, all’aperto, fra la gente, un po’ come si faceva nelle città italiane e toscane in particolar modo.
Il successo e la partecipazione a quella prima sfilata lungo la via principale di Viareggio (via Regia) furono notevoli. Sul finire del secolo, comparvero i carri trionfali, costruiti in legno, scagliola e juta, modellati da scultori e messi insieme da carpentieri e fabbri che, in Darsena, sugli scali dei cantieri navali, sapevano creare straordinarie imbarcazioni. Neppure la prima guerra mondiale riuscì a distruggerlo, insieme al tramonto della belle époque europea, rinascendo a nuova vita nel 1921.
Fino alla “reinvenzione” del 1930, allorché Uberto Bonetti, pittore futurista viareggino, ideò Burlamacco: la maschera simbolo di Viareggio, che, nel manifesto del 1931, apparve in compagnia di Ondina, bagnante simbolo della stagione estiva, una maschera “nuovissima” che tuttavia derivava dall’identità letteraria toscana (il Buffalmacco di Boccaccio) e dal nome del canale viareggino, il Burlamacca.
Quello di Viareggio non è un esempio isolato. Da sempre il Carnevale ci consegna il valore di una Storia che, in Italia, è punteggiata dalle maschere della tradizione: da Gianduia (Piemonte) ad Arlecchino (Bergamo), da Pantalone e Colombina (Venezia) a Meneghino (Milano), da Stenterello (Toscana) a Sor Tartaglia (Roma) a Pulcinella (Napoli). Ed insieme il senso di una cultura popolare ampia e diffusa che, oggi più che mai, in tempi di facile omologazione, andrebbe rimessa al centro dell’immaginario collettivo, grazie al ritrovato valore della “festa” e del “sacro”.
Il Carnevale rappresenta infatti – se bene interpretato – un momento essenziale di questo “percorso”, certamente non il solo, ma uno dei più significativi, tradizionalmente finalizzato a rinnovare il ciclo della vita, il senso della “trasgressione” e della “rinascita”, con le sue radici ben piantate nella terra madre delle religioni: in Caldea, nell’antica teocrazia mesopotamica, verso il tremila avanti Cristo, esistono tracce di una festa in cui i ruoli sociali venivano ribaltati, l’ancella prendeva il posto della signora e lo schiavo del potente; e da lì l’irradiamento sintomatico per il mondo antico, nell’Ellade, in un lungo periodo di “libertà dello spirito”; a Roma, ai “Saturnali”, descritti da Macrobio, alla festa della religione degli astri, il Carnevale diventa “Festa dell’Anno Nuovo”, interregnum tra una abdicazione e un’ascesa al trono. Irrompe nella Storia, attraverso il “buco del disordine del calendario”, il corteo trionfale del dramma della straordinarietà. Esplode , nell’ebbrezza della passione, la soggettività. Ed è il pathos , la dionisiaca passione, a travolgere ed inebriare. E’ il tempo della Wille zum Raush, della volontà di ebbrezza, della quale – oggi – ci sfugge il senso, “pervasi” – come siamo – da una “ebbrezza” permanente, da una ubriacatura di massa, in cui il Sacro ha poco spazio ed il riso ha preso i tratti dell’ordinarietà.
Consapevoli di ciò, il senso del Carnevale può ancora aiutarci, su più piani, a riconsiderare le “ragioni” profonde del tempo festivo, del valore del Sacro, della sua straordinarietà, della “ricomposizione” di una visione organica della Vita. Da Viareggio a tutta l’Italia. Per tornare a “ritrovare” noi stessi, il senso delle nostre comunità, l’orgoglio di un’appartenenza.