Per capire che il ministro Valditara, con la sua proposta di diversificare per regioni gli stipendi degli insegnanti, ha sollevato un problema reale, basta aver preso in questi giorni la metropolitana a Napoli e poi a Milano. All’ombra del Vesuvio il biglietto costa un euro e venti, sotto la Madonnina un euro di più. Non si tratta di un caso limite: la vita al Sud costa in buona parte di meno. Si tratti di cenare in pizzeria, di prendere in affitto un appartamento, di fare la spesa al mercato, la differenza dei prezzi appare evidente. Esistono, naturalmente, eccezioni, in località turistiche particolarmente rinomate, ma non c’è dubbio che un impiegato pubblico o anche un lavoratore dipendente tutelato dai contratti nazionali goda di un potere d’acquisto, e di conseguenza di un prestigio sociale, superiore a quello di un suo omologo del Nord. È vero che l’introduzione dell’euro a suo tempo ha provocato un livellamento verso l’alto dei prezzi, ma il divario persiste, ed è uno dei motivi per cui molti meridionali sono restii a trasferirsi al Nord, o, quando vi si trasferiscono, fanno di tutto per tornare a casa.
Se le premesse non sono infondate, è onesto riconoscere che la sortita di Valditara si è prestata a un facile e interessato fraintendimento. Invece che come proposta di un bonus per chi accetta di lavorare in realtà locali dove il costo della vita è più elevato, è stata interpretata come un tentativo di riportare all’indietro le lancette della storia, reintroducendo le “gabbie salariali” in vigore sino a oltre mezzo secolo fa. E la levata di scudi non ha coinvolto solo quel ridotto di docenti ostili a priori al governo, che criticherebbero Valditara anche se proponesse di raddoppiare lo stipendio a maestri e professori, ma anche i sindacati moderati che avevano tenuto sinora un atteggiamento interlocutorio nei confronti del governo.
In realtà, bisogna premettere che il diverso costo della vita nelle varie regioni non coinvolge solo gli insegnanti, ma tutte le categorie, a parte forse i militari, che, beneficiando spesso di alloggi di servizio e di mense interne, avvertono meno il problema. Per quanto riguarda gli insegnanti, però, il problema è particolarmente sentito. In primo luogo al Nord, nelle aree in cui l’economia è più dinamica, si incomincia ad avvertire la carenza di docenti soprattutto nelle discipline scientifiche. Il fenomeno è dovuto a due fattori. Uno è l’impegno sempre maggiore richiesto dall’insegnamento, che rende problematico, come era frequente in passato, abbinare all’impegno didattico l’esercizio della libera professione (tipico il caso degli ingegneri), e il crollo della richiesta di lezioni private. L’altro è il fatto che l’alto numero di docenti, conseguenza anche della scelta ormai semisecolare di far carico alla scuola di funzioni più assistenziali che educative, più sociali che culturali, rende problematico un aumento significativo del monte salari. Detto in altri termini, concedere compensi più alti a chi insegna al Nord rischierebbe di comportare un calo delle risorse destinate ai docenti che vivono nelle altre regioni, e questo suscita un ovvio vittimismo meridionalista, cavalcato da chi ha tutto l’interesse a porre il governo in cattiva luce.
Non so se una soluzione al problema possa provenire dall’afflusso di finanziamenti privati alle scuole, sul modello anglosassone. L’esperienza insegna che chi paga compra e chi compra pretende di comandare. Meglio sarebbe semmai un “dimagrimento” dell’apparato dell’istruzione pubblica, in cui il dogma dell’inclusione a tutti i costi ha comportato un aumento delle spese piuttosto che una crescita dell’efficienza del sistema. La scelta, cara alla sinistra, di prorogare l’obbligo scolastico sino a 16 anni ha comportato da un lato un aumento dei frequentanti e di conseguenza delle cattedre, dall’altro ha riempito soprattutto gli istituti tecnici e professionali di alunni poco interessati alle materie teoriche, oggi ormai prevalenti anche in questi ordini di studio: alunni spesso insofferenti alla disciplina, fonte di problemi per gli insegnanti e soprattutto per i compagni desiderosi di studiare. Avviarli verso percorsi di apprendistato oltre a fare il loro bene consentirebbe notevoli risparmi per il sistema. E lo stesso vale per la pretesa di portare sino alle soglie della maturità alunni portatori di insuperabili problematiche intellettive o psichiche, che – fra insegnanti di sostegno, educatori, psicologi, magari mediatori culturali – costano moltissimo e dopo tredici anni di scuola pubblica ricevono un diploma che non ha nessun valore, perché ad esso non corrisponde a una seria preparazione e il possesso di adeguate competenze.
Tutto questo naturalmente va contro al coacervo d’interessi che ruota intorno alla retorica dell’inclusione a ogni costo e anche alle aspettative dei precari che contano su una continua dilatazione degli organici. Aspettative comprensibili, fin quando gli aspiranti a un posto nella scuola erano molti, anche perché la cattedra garantiva ancora un certo status. Ora che sono sempre meno i docenti disposti a vivere in camere d’affitto come eterni studenti perché con lo stipendio non possono pagarsi un appartamento e magari a farsi impallinare da studenti refrattari a ogni disciplina, è giunto forse il momento di chiedersi se non sarebbe opportuno una sana cura dimagrante non della qualità dell’istruzione, ma di un uso distorto dell’inclusione che spesso comporta invece l’esclusione dei più meritevoli. Senza naturalmente creare guerra fra poveri.
Da docente di Lettere in pensione,confermo quanto dice Nistri in merito alla strumentalizzazione della sinistra fatta sull’ideologia della “inclusione” demagogica di ragazzi portatori di insuperabili e congeniti problemi intellettivi o psichici, condotti fino ad un esame di matura,ovviamente, privo di qualsiasi valore valutativo. Spesso i cosiddetti “insegnanti di sostegno” sono privi di qualsiasi attestazione specifica di carattere pedagogico e psicologico idonea ad assistere questi ragazzi che il mio preside (ovviamente comunista) chiamava “diversamente abili”. Aggiungo, insegnando nel Triennio delle Superiori, che avevamo l’obbligo di riunire il consiglio di classe ,in presenza dei genitori ,per ascoltare le relazioni-del tutto fantasiose- dell’insegnante di sostegno. Il quale svolgeva il suo compito con solo due alunni,semplicemente seduto accanto a questi ragazzi,mentre gli insegnanti titolari della materia svolgevano la loro regolare lezione . Dirò di più , ogni ragazzo disabile avrebbe dovuto essere seguito da uno psicologo (ovviamente regolarmente pagato dal Provveditorato agli Studi) il quale in queste riunioni bimensili avrebbe dovuto “illuminarci” per la nostra attività didattica. Ebbene, in 6 anni non ne ho mai incontrato alcuno .Ancora,mentre io avevo per le tre classi un totale minimo di 60 allievi l’insegnante di sostegno ne aveva solo due ,ma perceviva il mio medesimo stipendio .Ora non è una lamentela personale ma riguarda tutti , perchè gli insegnanti di sostegno sono 300mila : dunque quasi un terzo del totale di tutti i docenti italiani (esclusi i docenti universitari) .
La solita truffa all’italiana