Gli Stati Uniti, sul fronte dell’intervento in Siria, sono rimasti quasi del tutto isolati. Più si avvicina l’attacco (per lo meno l’annuncio) e più i paesi “amici” degli States declinano la propria responsabilità rispetto a un impegno pieno di incognite e di incongruenze. Solo la Francia di Francois Hollande, a questo punto, si posiziona come alleato di ferro di Obama. Ma in questo caso per il presidente francese trattasi di vera e propria gaffe: Hollande infatti, in piena crisi di consensi, ha gonfiato i muscoli fin da subito per ritrovarsi poi sovraesposto rispetto agli altri partner Ue molto più pragmatici. E quanto sia sconnesso il capo dell’Eliseo dalla Francia “profonda” lo dimostra il sondaggio di Le Parisien che testimonia come la stragrande maggioranza dei francesi stigmatizzi l’intervento in Siria.
Certo, Hollande non si aspettava l’atteggiamento d’Oltremanica. Ha creato scalpore – anche per lo stesso David Cameron – quel “no” del Parlamento inglese al coinvolgimento nell’eventuale conflitto: segno, questo, che l’opinione pubblica di Sua maestà non ha dimenticato il 2003, quando Tony Blair portò in guerra l’Inghilterra nonostante le imponenti manifestazioni di contrarietà da parte della società inglese. Il caos della Siria dunque, e l’incertezza sui possibili “interlocutori” nel caso di capitolazione di Assad, stanno facendo riflettere in molti sull’opportunità di replicare l’episodio Iraq in Siria.
Per Vladimir Putin, il grande “critico” della voglia americana di attaccare, gli Stati Uniti dovrebbero presentare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu le eventuali prove di un attacco chimico in Siria. Il presidente russo, che si è detto sorpreso dal voto contrario ad un attacco del parlamento britannico, ha definito infatti «insensate» le accuse contro Damasco. Per Putin, allora, deve il vertice del G20, che si terrà a San Pietroburgo la prossima settimana, l’appuntamento per discutere della crisi in Siria.
In questo frangente anche l’Italia è riuscita – almeno fino a questo momento – ad assumere una posizione personale rispetto Washington. Non hanno potuto che registrare con “diplomatico” disappunto dalla Casa Bianca l’uscita del ministro degli Esteri Emma Bonino che – proprio ieri – ha schierato l’Italia sul fronte degli scettici (il nodo per la Bonino è il coinvolgimento dell’Onu, quasi impossibile dato il veto della Russia). Una “sorpresa”, questa, che in qualche modo priverebbe gli Stati Uniti di una postazione strategica in caso di conflitto.
Da registrare, poi, il fatto che anche sui principali giornali italiani non sembra esserci grande convinzione sull’intervento militare. Angelo Panebianco sul Corriere è arrivato ad ammettere, ad esempio, come l’intervento in Libia sia stato compiuto da Inghilterra e Francia proprio «sottrarre agli italiani l’influenza sul Paese». Mentre adesso, secondo il politologo, non sembrano esserci “motivi” (nel momento in cui nemmeno l’utilizzo di armi chimiche non è stato provato oltre ogni ragionevole dubbio) per scagliare un’operazione invasiva e potenzialmente destabilizzante.
Al di là dell’aspetto logistico, poi, questa nuova geografia delle alleanze risulta essere una vera beffa per Obama, il presidente che intendeva qualificarsi come l’uomo dell’approccio “multilaterale”, dopo l’unilateralismo di Bush. E invece, proprio il “premio Nobel per la pace” sembra pronto a coinvolgere il suo Paese in un conflitto che si preannuncia pericoloso, soprattutto per il “dopo” che aspetta. Tutto ciò dimostra, allo stesso tempo, la debolezza della strategia e la vacuità del soft power con il quale Obama ha voluto marcare la propria distanza dalla “guerra preventiva” dei neocon americani: il risultato, infatti, potrebbe essere pressoché identico. Così come le scuse.