Fabbrica e Comunità: un apparente ossimoro all’interno della visione che vuole – per usare l’immagine di Karl Polanyi (La Grande Trasformazione) – un “disinnesto” tra economia e relazioni sociali. Idea condivisa, in forma diversa, da Louis Dumond (Homo aequalis. Genesi e trionfo dell’ideologia economica ) – secondo il quale “nella maggior parte delle società e in primo luogo nelle civiltà superiori o nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose. Questo primato è capovolto nel tipo moderno di società, dove invece i rapporti fra gli uomini sono subordinati a quelli fra gli uomini e le cose”.
Bisogna riconoscere che nell’immaginario collettivo fabbrica e comunità sono viste spesso come realtà in contrasto, iconograficamente in contrasto tra loro. L’una ancora avvolta nei grigi fumi delle periferie urbane, ferrigna, meccanica, massificante; l’altra bucolica, rassicurante, solare. L’una segnata dal piatto, orizzontale incedere del tempo produttivo; l’altra organica allo scorrere ciclico delle stagioni, inclusiva, armonica.
In realtà alla luce delle più aggiornate ricerche sociologiche non è arbitrario iniziare a leggere simultaneamente fabbrica (come luogo della produzione) e comunità (in quanto spazio relazionale), laddove la prima (sia essa uno stabilimento industriale, un supermercato o un ufficio) nomina molto di più di un luogo fisico: è una galassia produttiva fatta di persone e fitta di relazioni, un’organizzazione sociale in stretto dialogo con il territorio, un organismo economico in grado di generare valore condiviso. Non solo profitto, perciò, ma una Fabbrica-comunità capace di aprire spazi d’incontro e di inclusione.
E’ quanto sollecita a fare la ricerca di Maurizio Zipponi, esperto di politiche industriali, con la ricerca Fabbrica-comunità. Le nuove imprese tra profitto giusto e valore condiviso (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2022).
Zipponi pone l’accento, in premessa, sulla necessità di dare risposta alla “frantumazione sociale” determinata, negli ultimi anni, dalla crisi dei rapporti tra le generazioni, tra i generi, tra le etnie e le religioni. Per rispondere a questa necessità i luoghi di lavoro possono rappresentare dei punti di riferimento essenziali, nei quali declinare produzione/profitto e condivisione di valori/obiettivi che vadano oltre la mera produzione.
In realtà – come ricorda l’autore – l’idea “comunità” non è nuova. Ne fecero oggetto di progetti concreti Adriano Olivetti, la Fondazione Zeiss, Luisa Spagnoli. Olivetti, agli inizi degli Anni Cinquanta del ‘900, arrivò a teorizzare la fabbrica-comunità, parlando di un’idea di convivenza civile fondata su un sentimento di solidarietà e ricomposizione di tutti i fattori umani e di tutela dell’integrità dei dipendenti (“accomunati” , con imprenditori e dirigenti, nella difesa di un patrimonio della comunità di cui la fabbrica è un elemento costitutivo). Su queste basi l’imprenditore di Biella cercò di equilibrare, all’interno della sua azienda, tempi di lavoro e tempi extra lavorativi, puntando a realizzare un sistema partecipativo, ispirato all’equità ed al mutuo risarcimento.
L’esperienza olivettiana trovò nella Fondazione Zeiss di Jena, in Germania, un esempio da imitare, laddove l’impresa tedesca – scriveva Olivetti – “era mossa dall’ambizione di realizzare un’opera di alto valore sociale o tecnico o che soddisfi entrambe le esigenze”, tutto questo “codificato” nello Statuto della Fondazione, in cui erano fissati indirizzi sull’uso dei profitti realizzati, sulle politiche sociali a favore dei dipendenti, sullo stipendio minimo dei dipendenti e su quello massimo dei dirigenti, sulla polizza sanitaria.
Altra Storia significativa quella della Società Perugina e di Luisa Spagnoli, vera artefice dell’impresa, che fece dell’attenzione al personale, in gran parte donne (visto il richiamo alle armi, durante la guerra 1915-18, degli uomini) il suo punto di forza (con gli asili aziendali, la cassa mutua per la dipendente in malattia, l’assistenza sociale).
E’ a partire da queste esperienze “pionieristiche” che Zipponi pone l’attenzione su tre realtà produttive contemporanee: il Gruppo Volpi, la G. Mondini e il Gruppo Camozzi. Ad unire queste tre diverse esperienze produttive, operanti in ambiti diversi, la consapevolezza rispetto agli esempi di Olivetti, Fondazione Zeiss e Luisa Spagnoli, sintetizzata nel progetto Fabbrica-comunità. Alla base: la conoscenza dei bisogni dei lavoratori, l’attenzione verso i servizi alla persona, ai figli e ai familiari, la conciliazione lavoro/famiglia (orari flessibili, lavoro da casa), il comfort sul luogo di lavoro, la solidarietà tra i lavoratori, il legame con la famiglia dell’imprenditore, il bisogno di meritocrazia, il miglioramento della comunicazione aziendale, le forme interne di aggregazione, una più alta formazione professionale,
A sintesi di questi orientamenti gli strumenti contrattuali, in grado di dare risposta concreta alle aspettative espresse dai lavoratori in sede di consultazione, a conferma della fattibilità dell’idea e della sua applicabilità a diverse realtà produttive ed economiche. Su tutto la presa d’atto del sostanziale cambiamento del modello economico novecentesco incentrato sul rapporto capitale-lavoro, laddove ad emergere è un’aspettativa nuova, fondata su nuovi valori e base di un più compiuto progetto d’integrazione sociale.
Non tutto – sia chiaro – appare scontato. A cominciare dal nodo, a nostro parere non-sciolto, sulla reale partecipazione dei lavoratori alle più dirette scelte aziendali, dal diritto all’informazione alla distribuzione degli utili, alla consultazione rispetto alle decisioni aziendali in merito al lavoro nell’impresa. Da salvare comunque – in linea di principio – la ricerca di nuovi modi di fare impresa e di formule organizzative che rimettano al centro la dignità e la creatività umana, ripensando il lavoro, a partire dai suoi luoghi e dagli usuali meccanismi produttivi. Per immaginare la fabbrica-comunità al di là degli spazi della funzionalità produttiva, quale strumento di mediazione sociale e di reale partecipazione. Anche a tutela della prosperità e della competitività delle aziende, con le relative “ricadute” sui dipendenti.
La Comunità di Adriano Olivetti, ancorché bene intenzionata, era un progetto limitato, provinciale, utopico, senza possibilità di vero successo e sviluppo. Infatti fu sostanzialmente un fallimento, non imitato, mi pare, da nessuno. La fabbrica faccia la fabbrica, il capitalista il capitalista, con la necessaria durezza. Così si renderanno veramente utili alla comunità, non con ‘pastrocchi inclusivi’. E lo Stato vigili, fissi le ‘cornici’, le regole, pensi alle infrastrutture, non metta direttamente soldi nell’economia, se non in particolarissimi momenti.
Semmai Valletta faceva di più per i suoi dipendenti della Fiat…
La partecipazione è una bubbola… Come i Consigli di Gestione…
Credo poco alla fabbrica sociale, come non ho mai creduto alla socializzazione, trovata fra il nostalgico e il demagogico dell’ultimo Mussolini, lo stesso che voleva passare le consegne del suo Stato al Psi. La maggior parte dei filantropi ha fatto fallimento. Olivetti fondò persino un partito politico, che andò incontro a un clamoroso insuccesso. La statua del conte Marzotto, che aveva fondato Valdagno facendone un villaggio modello, con tanto di abitazioni e orti per i dipendenti, fu abbattuta dagli operai in rivolta il 19 aprile 1968. Ricordo ancora come il diario di Lotta Continua che portava a scuola un mio compagno di classe “rosso” esaltasse l’evento come una sorta di presa della Bastiglia.
L’imprenditore faccia l’imprenditore, il sindacato il sindacato, lo Stato vigili sia sull’ordine pubblico sia sull’osservanza dei contratti. Certo, è nell’interesse stesso dell’imprenditore fare del luogo di lavoro un luogo piacevole o comunque non patogeno (si riduce anche l’assenteismo), assicurare ritmi di lavoro meno stressanti, prevenire il mobbing, nelle grandi imprese aprire asili nido per i figli delle lavoratrici madri. Ma non si aspetti mai troppa riconoscenza. In Italia sono stati più rispettati dei Marzotto gli Agnelli, che non fecero nemmeno le case per gli operai, degradando una città come Torino.
Case la Fiat ne fece parecchie a Torino, in locazione o a riscatto. In un appartamento ci vissi per quasi 20 anni. Questo durante la gestione Valletta. Poi con Agnelli jr. i sindacati cominciarono a ‘rompere le balle’ e la Fiat poco per volta rinunciò a tutta la sua politica sociale.
Nel 1994 fui destinato Console Generale a Porto Alegre, in Brasile. I vari stabilimenti Tramontina già producevano 1 milione di posate al giorno, tra altre cose! Con mia sorpresa nei cortili, ben visibili dai reparti produttivi, si muovevano pavoni, bianchi e colorati. Mi venne spiegato che esperti svedesi avevano consigliato di farlo, perchè l’operaio lavorasse più rilassato e contento!
La politica sociale della Fiat, fino al 1969-’70, fu enorme, anche se i sindacalisti grulli la tacciavano di paternalismo. Ma è sempre il solito problrema. I sindacati, in Italia essenzialmente di sinistra e comunisti, non possono lavorare per il benessere dell’azienda (e quindi dei lavoratori), ma per abbatterla, per miraggi pseudo-rivoluzionari, marx-leninisti ecc. Tanto peggio, tanto meglio. Ci sono purtroppo riusciti. L’Italia ha perso le sue industrie, in tutti i settori, possiamo giusto fare la pizza… e scendere in piazza con la movida…