Seguo con un misto di simpatia e malinconia le dichiarazioni di alcuni autorevoli esponenti di Fratelli d’Italia in materia di spoil system, ovvero di nomine di dirigenti di fiducia del centrodestra in posizioni più o meno apicali della pubblica amministrazione. Dichiarazioni che la sinistra ovviamente stigmatizza come un tentativo di epurazione foriero di atroci conseguenze per la macchina dello Stato. L’aspetto paradossale della situazione è che la legge che ha introdotto ufficialmente in Italia lo spoil system non è stata opera del centrodestra, ma di Franco Bassanini, un esponente di spicco del Pds, già leader della sinistra socialista e parlamentare del Pci. In sostanza la sinistra si lamenta che vengano applicate nei confronti dei suoi esponenti le norme che essa stessa ha varato, quando non le fanno più comodo, anzi vanno contro i suoi interessi. Si parva licet, si comporta come quegli ex giacobini francesi che, dopo aver ghigliottinato mezzo mondo, durante la Restaurazione di dichiaravano contro la pena di morte. “Io posso ghigliottinare te, ma tu non puoi ghigliottinare me”: così Charles Baudelaire sintetizzava i loro ragionamento.
L’avvento del governo Meloni potrebbe condurre in questo caso a una svolta? Vorrei crederci, ma l’esperienza del passato m’induce a una certa cautela. Nelle dinamiche della pubblica amministrazione, intesa in senso lato, visto che il problema tange anche la Rai, si registra una costante: la destra le epurazioni le minaccia, la sinistra le pratica.
L’epurazione più sfacciata avvenne nel 2006, quando, dopo una risicata vittoria elettorale, il centrosinistra licenziò in tronco prima della scadenza del mandato i dirigenti di seconda fascia nominati in base alla legge Bassanini, con una norma (un collegato alla Finanziaria) che in seguito sarebbe stato dichiarata incostituzionale dalla Consulta. L’aspetto più paradossale in quest’ultimo caso fu che non solo il centrodestra non fece nulla per denunciare l’abuso, al di fuori delle strette sedi istituzionali, ma quando tornò al governo non reintegrò i dirigenti epurati, anzi lasciò che l’Avvocatura dello Stato continuasse a contrastare le loro richieste di reintegro. Questi così tornarono agli uffici di provenienza umiliati e sottoposti alle vendette trasversali di superiori e colleghi, e soprattutto convinti che sulla destra non si potesse contare. Dopo, oltre dieci anni di stabile nell’area di governo permisero al Pd di radicarsi stabilmente nell’alta dirigenza pubblica, a livello centrale e periferico, con nomine spesso sfacciate.
A rendere possibile tutto questo hanno contribuito molti fattori. In primo luogo congenito alla sinistra è un sentimento di superiorità morale e culturale, che la induce a ritenere una brutale violenza ogni attentato alla sua occupazione di posti di potere politico, burocratico, intellettuale. In secondo luogo c’è una perdurante eredità del Pci di Togliatti, che applicò con lucida spregiudicatezza una politica gramsciana di egemonia attraverso la progressiva conquista della società civile con l’appropriazione di posti cardine non solo nell’ambito didattico e culturale, ma anche in quello burocratico e giudiziario. In realtà, come osservò lucidamente un fine intellettuale come Fausto Gianfranceschi, Gramsci nei Quaderni dal Carcere si limitò a teorizzare una sorta di “bottaismo di sinistra”: il partito comunista avrebbe dovuto fare quello che negli anni Trenta stavano facendo il fascismo e in particolare il ministro dell’Educazione Nazionale (dicastero chiave, perché sovrintendeva anche all’Università e agli odierni Beni Culturali), cooptando nei ranghi della pubblica amministrazione, o valorizzando con le sue iniziative editoriali, alcuni fra i più brillanti ingegni del tempo. Non sono un ammiratore di Giuseppe Bottai come pedagogista: la sua pretesa di mettere Dewey in camicia nera con la sua riforma della scuola e i suoi flirt con la “corporazione proletaria” mi hanno sempre lasciato molto freddo. Resta il fatto che come ministro dell’Educazione Nazionale fu uno straordinario evocatore di talenti e che tanti giovani e meno giovani da lui messi in cattedra o cooptati ai vertici ministeriali “per alta fama” hanno illustrato l’Italia con i loro meriti. Ma questo è un tema complesso e affascinante, che meriterebbe un discorso a parte. La “lunga marcia” del Pci alla conquista dello Stato si ispirò molto alle metodiche di Bottai: non per nulla molti intellettuali organici comunisti avevano compiuto il loro esordio come collaboratori di “Primato”.
In terzo luogo c’è l’atteggiamento arrogante del centrodestra nei confronti del pubblico impiego, che larghi settori dell’ex Popolo delle Libertà consideravano un covo di “fannulloni”, nella convinzione di avere la propria base elettorale soprattutto nel cosiddetto popolo delle partite Iva. Tale atteggiamento tuttavia non tiene conto di un dato elementare: un idraulico, un capomastro, un ristoratore possono anche darti il voto, ma non fanno opinione e non collaborano all’azione di governo, non influenzano la formazione delle nuove generazioni né applicano le leggi. Con il loro voto puoi raggiungere una maggioranza parlamentare, ma il passaggio fondamentale dal “governare” al “comandare” nei vari dicasteri sarà sempre molto lento e faticoso. Molto più equilibrata, sotto questo profilo, era la posizione del vecchio Msi, che non contrapponeva lavoratori autonomi e dipendenti, privati e pubblici: partito interclassista, riscuoteva i maggiori consensi sia fra i funzionari statali, sia fra i commercianti.
C’è poi un altro motivo, se vogliamo per certi aspetti più nobile, che in certi casi può avere ostacolato in passato l’applicazione dello spoil system da parte dei ministri del centrodestra : la convinzione che ai vertici burocratici occorra accedere, per altro secondo il dettato costituzionale, attraverso pubblici concorsi trasparenti e non tramite “scorciatoie”. E questo soprattutto da parte di uno schieramento che ha posto il “merito” fra i suoi principi fondanti.
Il principio sarebbe giusto; peccato però che non sempre i pubblici concorsi siano trasparenti (basti pensare alle mafie accademiche, ma non solo) e soprattutto che i concorsi pubblici che si dovrebbero bandire oggi sarebbero comunque gestiti da dirigenti nominati in molti casi senza essere passati da un pubblico concorso, per cui nella sua azione riformatrice il governo di centrodestra rischierebbe di subire l’“attrito” di una dirigenza pubblica estranea se non ostile. La politica delle “mani nette” – come quella del ministro Benedetto Cairoli al congresso di Berlino – rischierebbe di rivelarsi una politica delle mani “inette”.
Per tutti questi motivi, rimango moderatamente pessimista sulla capacità dell’attuale governo di ridisegnare la mappa del potere reale nei ministeri, nel parastato, nella Rai, per tacere dell’ambito giudiziario. Alcuni segnali positivi mi sembrano provenire dalla presenza alla Minerva di un ministro come Valditara, che vent’anni fa, come responsabile Scuola di An, comprese l’opportunità di accompagnare la riforma Moratti a un rinnovamento della burocrazia ministeriale, o come la scelta di Gennaro Sangiuliano di “defranceschinizzare” la dirigenza dei grandi musei. Ma la strada da percorrere temosia ancora tutta in salita.
Non solo la destra sta effettivamente governando, ma neppure sta dando segnali di volerlo fare… Sulla questione ucraina Giorgia vale Stoltenberg ed è tutto dire…
Aspetta il 50%? Campa cavallo…