Le dimissioni di papa Ratzinger sono legate per me a una singolare coincidenza: per una strana concomitanza la mattina dell’11 febbraio 2013 in cui rassegnò le dimissioni ero stato chiamato a commemorare la giornata del Ricordo nel Consiglio regionale toscano, un’incombenza onorevole ma un po’ rituale (e io non amo i ritualismi), che avevo cercato con cura di rendere meno scontata rammentando, nel bene e nel male, l’accoglienza ricevuta dai profughi adriatici nella mia terra. Circa a metà del discorso notai presso l’uditorio, composto da consiglieri e autorità, un’inusuale eccitazione, un brusio di cui non riuscii a capacitarmi sino al termine della commemorazione. Qualcuno aveva intercettato al cellulare la notizia delle dimissioni ed io, appena uscito dalla vesti istituzionali, capii di avere cominciato a parlare con un Papa, e di avere finito senza. Dagli scafati membri del Consiglio regionale, alcuni dei quali conosciuti da tempo , ricevetti le più diverse e a volte irriverenti spiegazioni del gesto, ma nessuna mi persuase. Debbo ammettere di non averne trovata tuttora alcuna davvero convincente, ammesso comunque che su una decisione personale, anche se presa da un personaggio pubblico, debba per forza pesare un unico fattore.
Ben diverso era stato lo spirito con cui un pomeriggio d’aprile, otto anni prima, avevo accolto la notizia dell’elezione di papa Ratzinger al soglio pontificio. Correva l’anno 2005, in cui m’illudevo che nella sfera delle politica, come della spiritualità e della cultura, vi fosse spazio per un ritorno all’ordine dopo gli eccessi che avevano fatto seguito, cadute le iniziali speranze, il termine della guerra fredda. Alla guida dell’Italia c’era il centrodestra, che governicchiava decorosamente, negli Stati Uniti proseguiva fra luci e ombre l’era di Bush Junior, in Francia Chirac era stato eletto al secondo turno dopo che al primo Jean-Marie Le Pen aveva umiliato il candidato della sinistra. Putin pareva in grado di affrancare la Russia dalla cleptocrazia insediatasi con Eltsin e non aveva ancora rotto i ponti con l’Occidente, né l’Occidente li aveva rotti con lui. In Italia il successo dei libri di Pansa sul “sangue dei vinti” pareva mettere in discussione anche presso il grande pubblico la vulgata resistenziale e il dirompente magistero di Oriana Fallaci induceva a riflettere sui pericoli comportati dalle politiche migratorie. Era in pieno corso, pur con le sue ambiguità, la stagione degli “atei devoti”, che in Italia aveva la sua incarnazione nell’allora presidente del Senato Marcello Pera.
L’ascesa al soglio di Pietro di papa Ratzinger, l’uomo che come prefetto per la dottrina per la fede aveva difeso i valori non negoziabili in materia di morale, sembrava escludere ogni strappo con il precedente pontificato.
Sul terreno politico le disillusioni non sarebbero mancate, parte per l’inadeguatezza di alcuni leader di centrodestra – a partire da uno Chirac, grande sindaco di Parigi negli anni Settanta quanto mediocre presidente della Repubblica, – sia per la sempre più pesante influenza di poteri forti planetari sui governi nazionali, e persino su istituzioni sovranazionali come la Chiesa cattolica. Proprio papa Ratzinger, sin dagli esordi del pontificato, fu oggetto di una guerra spietata, fatta di travisamenti, di accuse ingenerose, di grevi allusioni, di pseudorivelazioni minatorie. Papa Benedett9 XVI, che non aveva il carisma del suo predecessore, ma era nettamente superiore in lui per cultura teologica, fu subito bersaglio di un fuoco incrociato, e debbo dire che le battute del Manifesto sul nuovo pontefice, “pastore tedesco”, non furono le più cattive, come non lo era stata la locandina del “Male” che quando Giovanni Paolo I morì dopo pochi giorni di pontificato titolò “È rimorto il papa”.
Ben presto, purtroppo, alle pasquinate seguirono le pugnalate. Il fuoco di fila cominciò con le insinuazioni di Franca Rame sul reclutamento del giovanissimo Ratzinger nell’artiglieria antiaerea nella Germania, cui rispose esemplarmente il grande storico del nazismo Joachim Fest. Ma proseguì con proiettili di ben maggior spessore: l’accusa di aver protetto sacerdoti pedofili, o di non aver comunque contribuito alla loro incriminazione, le presunte rivelazioni sul fratello, che, come usava all’epoca, da direttore del Coro della Cattedrale di Ratisbona, aveva dato qualche bacchettata ai ragazzi della sua Schola Cantorum. Non mancarono nemmeno considerazioni estetizzanti sul suo abbigliamento: come un “papa lezioso” lo bollò in una delle sue articolesse Eugenio Scalfari, convinto probabilmente il vero papa di esserlo lui, e da allora ogni suo silenzio od ogni sua affermazione, si trattasse anche di non presentare l’uso dei profilattici come antidoto del Covid (come se un pontefice dovesse fare il commesso viaggiatore della Hatù), divennero motivo di critica feroce. Il suo discorso di Ratisbona, che avrebbe voluto rappresentare un’apertura nei confronti dell’Islam, fu equivocato, per una citazione che non voleva essere consenziente (una sorta di replica della falsificazione dei dispacci di Ems) e nemmeno il tentativo di accogliere nuovamente nella Chiesa i seguaci di Lefebvre risultò fortunato. E questo non per colpa del pontefice, che mostrò la sua disponibilità, revocando in primo luogo la scomunica, ma per l’irrigidimento dottrinale delle nuove leve uscite dal seminario di Ecône, questo “Port Royal, l’intelligence en moin”, come lo definì, non del tutto a torto, un cardinale francese. La sortita antisemita di uno dei vescovi a suo tempo consacrati da monsignor Lefebvre, poco dopo la remissione della scomunica a lui come agli altri membri della Fraternità San Pio X, non aiutò una riconciliazione che avrebbe fatto il bene di una Chiesa oltre tutto drammaticamente a corto di vocazioni. Il resto è sin troppo noto, con lo scandalo delle finanze vaticane e, come ho già ricordato, le denunce di casi di pedofilia nella Chiesa.
Non voglio entrare nel merito di questioni drammatiche e dolorose che esigono rispetto, anche se diffido per istinto di denunce sporte a volte trent’anni dopo le presunte molestie e accompagnate da richieste di risarcimenti milionari. Molte accuse si sono rivelate infondate, come quelle che tuttavia, per una condanna in primo grado risultata poi infondata e persecutoria e annullata successivamente, hanno portato in prigione in Australia il cardinale George Pell. Mi limito a ipotizzare che papa Ratzinger sia stato vittima di un regolamento di conti all’interno del mondo anglosassone e protestante, un regolamento di conti a lungo rinviato finché alla guida della Chiesa romana era stato il suo predecessore, figura carismatica che aveva svolto un ruolo determinante nella crisi del blocco sovietico e aveva combattuto la teologia della liberazione in America Latina. Già dopo la caduta del Muro il papato non era più un insostituibile “braccio morale dell’Occidente”, ma il prestigio di Giovanni Paolo II e i suoi meriti storici avevano impedito attacchi frontali contro lui e la sua Chiesa. Con papa Ratzinger molte remore vennero meno. A lui toccò l’ingrato ruolo del parafulmine, nonostante fosse stato il primo a denunciare pubblicamente lo scandalo della pedofilia nella Chiesa e non fosse certo sua la colpa di una certa “finanza facile” all’ombra del soglio di Pietro. L’odio della lobby Lgtb, che proprio in quegli anni veniva imponendo la sua egemonia nei media, contro un papa che condannava il relativismo etico, fece il resto. E come se tutto questo non bastasse, ci si mise anche un maggiordomo fedifrago a danneggiare l’immagine del pontefice. Non perché avesse rivelato segreti inconfessabili, ma più semplicemente perché un capo di Stato (e il Papa è anche questo) circondato da servitori infedeli tradisce la propria debolezza.
Con tutto questo, l’enigma Ratzinger rimane e rimarrà credo a lungo senza soluzione, salvo una fuga di documenti dagli Archivi Segreti vaticani: ormai c’è da aspettarsi di tutto. Tante spiegazioni non fanno la spiegazione e non è facile comprendere i motivi che indussero a compiere una scelta dirompente come le dimissioni un uomo saldo delle sue convinzioni, provato nel fisico ma non più, all’epoca, dell’odierno pontefice, non certo fautore di novità nell’esercizio del pontificato, anzi fedele alla tradizione nella liturgia come nell’abbigliamento, Che papa Ratzinger non avesse la tempra del combattente come il suo predecessore è indiscutibile, che fosse un professore e non, in senso buono, un grande attore, che avesse accettato a malincuore i risultati del conclave che l’aveva fatto successore di Pietro è altrettanto indubbio. Ed è probabile che al momento dell’accettazione, quando sarebbe stato in tempo per rinunciare nel rispetto della tradizione, non si sarebbe mai aspettato l’attacco concentrico da lui subito sin dall’inizio del pontificato. Ma il fattore decisivo per cui può avere fatto il “gran rifiuto” quest’uomo buono, onesto, amante delle buone letture e delle buone maniere, dotato di una cultura d’altri tempi e di un esprit de finesse estraneo ai suoi avversari, possiamo soltanto immaginarcelo. Potrebbe essere stato la consapevolezza dell’esistenza di un soft power sovranazionale superiore ai conclavi, ai parlamenti, ai governi democraticamente eletti, e capace d’impallinare persino lo Spirito Santo. Un potere che da soft è capace di trasformarsi all’occorrenza in hard, come è successo in occasione della pandemia. Ma più in là non vado: non vorrei essere accusato di cospirazionismo, perché non sono (per fortuna) come Pasolini e non mi posso permettere di scrivere “Io so, ma non ho le prove”.
Nel frattempo non posso fare a meno di rendere un umile e devoto omaggio all’uomo che forse avrebbe potuto salvare la Chiesa cattolica, non trasformandola in una Ong (e magari in un Ogm), come a volte sembra fare il suo successore, ma radicandola nella sua tradizione. I suoi valori sono nel suo testamento spirituale ormai diffuso in tutto il mondo. I suoi funerali saranno celebrati il 5 gennaio prossimo: esequie di un pontefice o funerali della Chiesa?
Giovanni Paolo II ereditò una Chiesa sfasciata da Paolo VI. Ma aveva attributi al tungsteno ed andò sempre per la sua strada, senza concessioni al sinistrume ed alla Teologia della Liberazione.
Non esistono gli “archivi segreti vaticani”: esisteva l’Archivio Segreto Vaticano, ora Archivio Apostolico, accessibile a tutti gli studiosi di tutti i Paesi e religioni sin dai tempi di Leone XIII, e dove “segreto” stava per “riservato”, non perché ci fossero nascoste chissà che nefandezze.
Confermo. Il mio maestro Luigi Firpo fu autorizzato negli anni ’50 ad accedere a tale Archivio Segreto per il libro, che poi pubblicò che stava scrivendo sul processo a Giordano Bruno. In ogni caso è bene non dimenticare che esso fu portato a Parigi al tempo dell’occupazione napolenica e quando tornò a Roma era gravemente mutilato. Molte carte antiche si persero ed adesso la maggioranza del fondo archivistico si riferisce al periodo successivo alla Restaurazione del 1814.