Tra i personaggi che hanno animato la vita culturale del Ventennio, un ruolo centrale, finora non riconosciuto se non da uno sparuto drappello di storici, spetta a Margherita Sarfatti. Personaggio eclettico, moderno, influì non poco sulla formazione e le scelte di Mussolini. Il cliché interpretativo al quale la sua azione politico-culturale, sagace e dinamica, è stata ridotta, è quello di “amante” del Duce. Fa luce, al contrario, su vari aspetti che compongono la biografia di una donna intelligente e complessa, un recente volume di Claudio Siniscalchi, Novecento. Fascismo, America e arte in Margherita Sarfatti, nelle librerie per Altaforte Edizioni, con prefazione di Francesco Borgonovo (pp. 156, euro 13,00).
Margherita Grassini nacque a Venezia nel 1880 da una facoltosa famiglia ebraica. Nel 1898 sposò l’avvocato Sarfatti, convinto mazziniano. Con lui si trasferì a Milano, città nella quale, non solo maturò il suo distacco dall’ebraismo, ma iniziò la frequenza degli ambienti socialisti. Divenne intima di Filippo Turati frequentando abitualmente il salotto politico-letterario che questi, assieme alla compagna, Anna Kuliscioff, teneva nell’appartamento di Piazza Duomo. Qui conobbe il geniale Marinetti, mentre procedeva, infiammata dalla lettura di Ruskin, nello studio dell’arte. Maturò ferma convinzione che la creatività estetica avesse: «funzione morale» (p. 37). Forte di tale certezza, fu tra le prime donne italiane a occuparsi di critica artistica. Ben presto entrò in contatto con Prezzolini e il gruppo vociano. La lettura di Fogazzaro la convinse, peraltro, che il cattolicesimo modernista poteva coniugarsi con il socialismo. Sulle colonne de L’Avanti! comparvero, a partire dal 1812, suoi articoli di contenuto estetico.
Con la conquista della guida del Partito socialista da parte di Mussolini, ebbe inizio la fascinazione mussoliniana della Sarfatti: considerò, da allora, il futuro Duce un demiurgo della parola. Mussolini, al contrario, nel momento in cui assunse la direzione del quotidiano socialista, volle accanto a sé Angelica Balbanoff, esule rivoluzionaria russa conosciuta in Svizzera. La liaison sorta tra i due si interruppe bruscamente: il leader socialista aveva bisogno di altra Musa accanto a sé. Ne scorse i tratti in Margherita. Lo colpirono tanto gli aspetti propri della donna fatale, elegante, qualità che non mancavano alla donna, quanto la raffinatezza dei modi, che discendeva da una formazione intellettuale profonda. Poliglotta, Margherita, sapeva essere anche ostinata, secondo i malevoli, perfino cinica e approfittatrice. Quando, nel 1913, Mussolini fondò a Milano la rivista Utopia, chiese la collaborazione alla Sarfatti, che iniziò a scrivere per quel periodico a partire dall’anno successivo.
Il percorso della donna fu in qualche modo sintonico e contemporaneo a quello di Mussolini. Dapprima attratta dal nascente femminismo e dal socialismo turatiano, maturò le proprie scelte rivoluzionarie durante le battaglie per l’interventismo. Amò, come Mussolini, Nietzsche e Bergson e presto fu considerata vera e propria “Dittatrice” del mondo culturale. Divenne, in un lasso di tempo assai breve, il punto di riferimento dell’arte italiana. La definitiva consacrazione si realizzò con la mostra degli artisti di Novecento a Milano, il 26 marzo 1923. Tre anni dopo, nel capoluogo lombardo, si tenne la prima mostra d’arte del Novecento italiano. La Sarfatti fu ispiratrice e protettrice di tale movimento: «che si sforza(va) di rinnovare il moderno attraverso la classicità» (p. 81). Era convinta, infatti, che le avanguardie avessero esaurito la loro spinta innovatrice e che fosse necessario un ritorno all’espressione formale, il cui riferimento paradigmatico doveva essere rintracciato nell’arte classica. L’egemonia sarfattiana sulla cultura italiana durò un decennio. La sua uscita di scena è ascrivibile al 1932, con l’inaugurazione della Mostra della rivoluzione fascista: «l’impostazione dell’esposizione è(ra) marcatamente sarfattiana» (p. 92), eppure la donna non fu invitata alla cerimonia d’apertura. Ci furono, sulla stampa, diversi attacchi nei suoi confronti che, presto, misero in crisi la stabilità del suo trust. Anche artisti del valore di Soffici sostennero che Novecento: «era espressione della decadenza straniera» (p. 94). Il quotidiano, Il regime fascista, l’accusò di nutrire eccessive ambizioni personali e politiche.
Eppure, quest’attiva animatrice culturale, nel 1927 si era prodigata affinché Mussolini potesse aver voce sulla stampa d’oltreoceano. Anzi, aveva ottenuto per il Duce, ma anche per se stessa, lauti proventi, grazie agli ottimi rapporti instaurati con William Randolph Herast, magnate della carta stampata statunitense. Con le leggi razziali del 1938, Margherita andò in esilio negli USA: «Ma quando rientra in Italia nel 1947 non può far scomparire il passato» (p. 33). Da allora su di lei ha gravato la damnatio memoriae. Merito indubbio di questo lavoro di Siniscalchi è l’aver portato l’attenzione sulla sua figura e la sua opera. Cosa rilevante: De Felice sostenne, a più riprese, che per capire il fenomeno fascista risulta imprescindibile la comprensione di quanto nel Ventennio avvenne nel mondo della cultura. Essere tornati a parlare, sine ira et studio, della Sarfatti, ci spinge a credere che finalmente si possa giungere a quell’interpretazione trans-politica, vale a dire filosofica, della storia contemporanea, auspicata da Augusto Del Noce alcuni decenni fa.
Nel 1938 la Sarfatti se ne venne dapprima in Uruguay. Mal vista da ebrei ed antifascisti locali che la consideravano una sorta di ‘spia del Duce’ e la emarginarono, la calunniarono, la attaccarono con durezza, anche perchè convertita al cattolicesimo. Me lo disse personalmente Luce Fabbri che da buona anrchica, dopo decenni, non riusciva a contenere la sua estrema antipatia e contrarietà verso Margherita Sarfatti, madre di un caduto nella grande Guerra, ispiratrice del culto della romanità. Da Montevideo si trasferì a Buenos Aires e poi negli USA.