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Jean-Luc Godard ovvero il cinema come opera d’arte totale

La storia del cineasta francese è il racconto di un'indipendenza artistica ottenuta cercando di rispondere a nient'altro che alla propria coscienza al costo di mettersi di traverso allo spirito del tempo

by Andrea Piran
15 Settembre 2022
in Cinema
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Jean-Luc Godard

Non è un’iperbole affermare che Jean-Luc Godard faccia parte di quella categoria di cineasti, composta da una manciata di nomi, che hanno forgiato la grammatica della settima arte elevandone il rango da attrazione circense a disciplina degna di studi accademici. L’inizio della sua carriera è però nei panni di critico cinematografico per varie riviste con particolare interesse per il cinema americano e cercando di elaborare un’idea alta di questa disciplina al punto di scrivere: “alla domanda ‘cos’è il Cinema?’ risponderei innanzitutto: l’espressione di nobili sentimenti”.

Quest’impostazione lo porterà nel corso della sua filmografia a ripensare le forme del Cinema al fine di risolvere la contraddizione che esiste per il fatto che il film è contemporaneamente sia un prodotto industriale che un’opera d’arte. Il principale problema teorico della nozione di Autore nel Cinema è legata al fatto che, per ragioni produttive, il numero di persone coinvolte nella realizzazione di un film è talmente elevato da non rendere individuabile di primo acchito il responsabile dell’esito artistico. Non a caso la definizione del regista come autore è legata all’esistenza di elementi estetici che rendano possibile la definizione di uno stile e che siano consistenti nella sua produzione. Non casualmente, l’interesse di Godard per le tecnologie e le tecniche cinematografiche è legata alla convinzione che l’indipendenza economica del regista sia essenziale per ottenere il controllo estetico del film.

La sua produzione cinematografica può essere suddivisa essenzialmente in tre fasi: la prima fase, che dura da Fino all’ultimo respiro del 1959 a La cinese del 1967, è quella più nota in quanto legata al movimento nouvelle vague e la sua assodata importanza storica nonché quella di più semplice fruizione. Nella cornice delle innovazioni formali di quei film: l’assenza di teatri di posa e il montaggio sconnesso i.e., una scena viene tagliata in parti divisi da un’ellissi temporale invece che da un raccordo, l’utilizzo di una sceneggiatura di tipo tradizionale, benché soggetta a riscritture e modifiche durante la lavorazione, è il legame con una forma di cinema a carattere anche popolare, tenendo conto che Godard non ha mai nascosto la sua considerazione critica del cinema di genere sopratutto americano e, non a caso, molti topos di queste forme popolari sono presenti seppur filtrati della poetica personale dell’autore. In questa fase, il progetto autoriale è il rinnovamento di una forma comunque legata, o consequenziale, ai maestri del passato ma da modernizzare eliminando i tratti più marcatamente teatrali ed inserendo un elemento di realtà di matrice eminentemente fotografica.

La seconda fase, che dura da British sound del 1969 fino a Crepa padrone, tutto va bene del 1972, è legata all’idea di poter arrivare un cinema marxista i.e., Godard comincia una riflessione sul rapporto tra condizioni economiche della realizzazione di un film e la sua forma estetica, e di conseguenza sulle modalità in cui il cinema possa avere un ruolo politico nella costruzione di una coscienza di classe. Molti dei film di questo periodo sono firmati come “Gruppo Dziga Vertov”, e realizzati assieme ad altri registi ed in particolare con Jean-Pierre Gorin, in sussiego alle tendenze di quel periodo che propugnavano la centralità dell’azione collettiva in contrasto con quella individuale. L’omaggio al maestro sovietico è rispecchiata nell’utilizzo di forme di natura documentaristica, specialmente in Un film comme les autres, e nella capacità di fare un cinema lontano dalla bieca propaganda pur essendo ideologicamente orientato in virtù di un programmatico distacco dall’artificio. In questa fase comincia a emergere la tendenza al passaggio da un cinema che deve raccontare una storia ad un cinema che deve rappresentare un pensiero e, pertanto, comincia un utilizzo marcato delle voci fuori campo che hanno il compito di creare un rapporto dialettico tra suono ed immagine nonché spezzare l’usuale coerenza cinematografica tra questi due elementi. Al termine di questa fase c’è un silenzio artistico legato essenzialmente all’esaurirsi di una stagione politica ed alla crisi pratica di un progetto estetico (il “Gruppo Dziga Vertov” si scioglie per contrasti tra i suoi componenti) dove l’aspetto estetico è relegato all’aspetto funzionale.

Dopo una fase intermedia di opere realizzate con Anne-Marie Miéville nel 1980 comincia la terza fase, che dura da Si salvi chi può (la vita) fino a Le livre d’image del 2018, che è, a giudizio di chi scrive, la più importante della sua opera. In questa fase, attraverso l’emancipazione da una coerenza narrativa di tipo letterario i.e., raccontare una storia, il cinema diventa un vero e proprio Gesamtkunstwerk in cui convergono influenze e suggestioni da tutte le arti tenute insieme da una coerenza formale di tipo filosofico i.e., sviluppare un pensiero. Una delle opere simbolo di questo periodo è Histoire(s) du cinéma nella quale frammenti provenienti da tutta la storia del cinema vengono articolati in una complessa riflessione sulla forma mostrando gli elementi che si ripetono e si modificano nel tempo, e in cui lo spettatore viene chiamato ad un’analisi ed una interpretazione nell’ambito della fruizione; opera resa possibile dall’utilizzo della videocassetta dato che questo mezzo consente un’estrazione dei contenuti ed una duplicazione molto più semplice rispetto alla pellicola, e sopratutto consente di non dipendere terze figure.

In definitiva, la storia di Jean-Luc Godard è il racconto di un’indipendenza artistica ottenuta cercando di rispondere a nient’altro che alla propria coscienza al costo di mettersi di traverso allo spirito del tempo: si ricorderà la rinuncia ad andare a ritirare l’oscar alla carriera a Los Angeles, una delle patrie del salutismo politicamente corretto, con la scusa che il viaggio è lungo e sull’aereo non si può fumare. Ai posteri tentare di rispondere al quesito alla base del suo ultimo film: è possibile scrivere un libro i.e., ottenere lo stesso livello di discorsività della parola scritta, utilizzando le immagini? Quali sono le implicazioni sulle tecniche di montaggio? L’alternativa è rimanere ancorati pervicacemente alla tradizione ed ai suoi codici estetici, ma questo vuol dire essere persuasi della fine della Storia.

@barbadilloit

Andrea Piran

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Tags: andrea pirancinemajean-luc godard

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