
L’ambientalismo è di gran moda. Tutti, aziende in testa, fanno a gara a tingersi di verde, o come suona meglio dire (per non dire nulla) di “green”. Perfino un evento obiettivamente distruttivo degli ecosistemi delle dune e della costa, come il Jova beach party, riceve il benestare di associazioni ambientaliste nazionali e viene contrabbandato come “verde”, magari solo perché dopo si raccolgono cataste di rifiuti gettati da decine di migliaia di persone sulla spiaggia già spianata. Addirittura ci sono politici che nella loro insipienza difendono la libertà dell’artista di fronte allo scempio ecologico.
Nell’attuale campagna elettorale anche i partiti pare che abbiano scoperto l’importanza della questione ambientale, soprattutto con riferimento al problema dell’energia. Complici la guerra in Ucraina, le posizioni filo atlantiste dell’Italia (e bisogna pur dirlo, da primi della classe per servilismo e piaggeria verso la Nato e la politica americana), le ritorsioni legittime e prevedibili della Russia che centellina il gas, i prezzi dell’energia stanno aumentando allarmando e mettendo in crisi aziende e famiglie.
Dal centrodestra al centrosinistra le ricette si assomigliano: più rinnovabili, più combustibili fossili (compreso il carbone), ritorno al nucleare. Tutti puntano la loro attenzione su come produrre, nessuno su quale uso è da farsi dell’energia. Nella cosiddetta transizione ecologica (da dove e verso dove? Booh!) c’è poi di tutto: l’idrogeno e il nucleare, l’inceneritore e il riciclaggio. È il classico gioco dei bussolotti. Manca una visione d’insieme. Nessuno che si ponga il problema di come ridurre i consumi di energia e gli sprechi, di quale modello di produzione adottare.
A questo proposito gli ecologisti più autorevoli, per illustrare il nostro modello economico, ricorrono all’efficace immagine di un secchio con i buchi: immettere energia in un sistema che ne spreca buona parte è come versare acqua in un secchio bucato. Non ce n’è mai a sufficienza. Prima di pensare alle quantità di energia da produrre bisogna, in verità, chiudere i buchi del secchio. E dunque, efficienza, risparmio energetico, riduzione dei rifiuti e dei consumi di energia.
Ma nessun politico ci sente da questo orecchio, si preferisce correre dietro alle emergenze, affidarsi di volta in volta alla tecnologia “salvifica”, usare l’ambientalismo in modo strumentale e parziale come una foglia di fico per nascondere ciò che al sistema sta veramente a cuore: il profitto, costi quel che costi.
Così, ad esempio, il nucleare – si dice – non produce emissioni e dunque va bene. E le scorie? E i costi? E l’acqua per raffreddare le centrali? E il degrado del territorio? Così gli inceneritori: servono per recuperare energia e dunque vanno bene. E le polveri prodotte dalla combustione? E i fumi inquinanti? E il riciclo dei materiali? Ci si concentra artatamente su un solo problema e ci si affida ciecamente alla tecnologia, che non ha sempre ragione.
Come scrive il filosofo Andrea Zhok: «L’ambientalismo può diventare facilmente un travestimento strumentale delle esigenze del capitale (…) dichiarare che l’energia nucleare – in quanto non contribuisce ai gas serra – d’un tratto è “energia verde” (e può beneficiare per ciò di innumerevoli agevolazioni), è un altro esempio di questo unilateralismo nel trattare il tema ambientale. Si rimuovono dallo sguardo tutti i problemi ambientali ad oggi irrisolti nell’uso del nucleare in modo da valorizzarne il solo aspetto funzionale a quello che i media a gettone dichiarano essere il “problema del giorno” (…) non si vuole, neanche lontanamente, prendere sul serio l’unica cosa che andrebbe presa mortalmente sul serio, ovvero l’incompatibilità di questo modello socioeconomico con gli equilibri ambientali (invero con ogni naturalità). Una volta che questa opzione sistemica viene esclusa, ci si concentra sempre solo su pseudosoluzioni parziali» (Ambientalismo sistemico versus ambientalismo strumentale, in rassegna stampa Arianna editrice, 21 agosto 2022).
In verità nessuno sembra cogliere, a destra come a sinistra, salvo forze che allo stato sembrano marginali, la vera posta in gioco, vale a dire che questo modello capitalistico è in rotta di collisione con la natura vivente.
Già un pensatore tradizionalista come Julius Evola aveva puntato il dito contro il meccanismo perverso dell’economia capitalistica: «La superproduzione esige che tutti i prodotti siano venduti, che i bisogni dei singoli, lungi dall’essere ridotti, siano mantenuti ed anzi moltiplicati, in modo che sempre più si consumi e si tenga sempre in moto il meccanismo, pena il giungere ad un ingorgo fatale destinato a far crollare il grande meccanismo economico-industriale, ovvero a condurre a una di queste conseguenze: la guerra (…), ovvero la disoccupazione» (Rivolta contro il mondo moderno, edizione del 1934).
La soluzione del dramma ambientale non è tecnica, ma politica.
Se manca questa consapevolezza, se non si denuncia il paradigma su cui si basa la nostra dissipativa civiltà industriale – dal PIL alla crescita illimitata dei consumi e dei rifiuti, dalla globalizzazione alla mercificazione della natura, che comprende pure la naturalità dei rapporti tra i sessi (e ci riferiamo all’utero in affitto, alle teorie gender, ecc.), la salvezza diventa un miraggio.
«La crescita illimitata (capitale), la liberazione da ogni limite (ragione liberale), e la perenne richiesta di superamento del dato (progressismo) sono altrettante forme di conflitto frontale con gli equilibri organici e ambientali.» (Andrea Zhok).
L’ambientalismo profondo, o come preferiamo dire noi, l’ecologia profonda, oggi più che mai, deve guardarsi da una sorta di concorrenza sleale, quella dell’ambientalismo strumentale e superficiale.
Anch’io sono da sempre contrario al consumismo, ma in questo mondo siamo, e in questo mondo dobbiamo vivere. Possiamo modificare molte abitudini, utilizzare di più i mezzi pubblici (magari, se costassero poco e avessero orari più diffusi come al tempo della Austerity degli anni Settanta), tornare a farci risuolare le scarpe (se le scarpe che si vendono oggi reggessero la risuolatura e se il costo della stessa non fosse superiore a quello di una scarpa nuova), evitare nei limiti del possibile l’usa e getta. Ma ridurci a un futuro agropastorale ci farebbe divenire preda dei nuovi imperialismi e finirebbe per renderci sudditi dell’impero cinese, la futura, vera superpotenza mondiale. Abbiamo bisogno di energia per scaldarci e soprattutto per scaldare pensionati per anziani e ospedali, per alimentare le nostre industrie, persino per far navigare i nostri pescherecci e per far funzionare i trattori. E anche per far funzionare i computer con cui stiamo scrivendo.
Per questo credo che il nucleare sia la soluzione più logica, anche se ha le sue controindicazioni. E le scorie? Le manderemo su Marte…
Il ‘Green’ è un grande affare e, quasi sempre, una maiuscola presa per i fondelli per un universo trasversale di gonzi emeriti.
Il green della raccolta differenziata (con una bustina usata di thè in 4 differenti contenitori), mentre il Terzo Mondo vive quasi tutto in un porcile demograficamente iperattivo…