Ernst Jünger è stato, per usare un’espressione che Giuseppe Prezzolini coniò per se stesso, un “figlio del secolo” ventesimo. Lo è stato, non solo in termini anagrafici, ma quale attento sismografo degli sconvolgimenti esistenziali e spirituali dell’uomo europeo del secolo scorso. In particolare, il suo complesso iter teorico è profondamente segnato dall’esegesi della tecnica. A ricordarlo, in un testo organico e persuasivo, è un giovane studioso, Michele Iozzino, nel volume, Ernst Jünger. Il volto della tecnica, nelle librerie per i tipi di Altaforte Edizioni (per ordini: info@altafortedizioni.it, pp. 195, euro 15,00). Il libro è impreziosito dalla prefazione di Luca Siniscalco, non solo esegeta di cose jüngeriane, ma attento conoscitore del pensiero tedesco novecentesco.
Inutile ricordare che il pensatore ebbe il suo primo incontro con la tecnica moderna, nelle trincee del primo conflitto mondiale. Lo testimoniano mirabilmente le pagine, drammatiche e coinvolgenti, dei suoi diari bellici. Il tema della mobilitazione totale, proprio del moderno, fu compiutamente colto e presentato da Jünger in, Der Arbeiter, nel 1932. Da allora tale tematica è tornata a mostrarsi in più di un’occasione, nelle ulteriori fasi della produzione del tedesco. Siniscalco rileva che, l’intenzione di Iozzino, è presentare: «un efficace e completo compendio delle tesi del primo Jünger […] in dialogo con la fase più matura del suo pensiero e della sua teoria della soggettività» (p. 10). L’autore fa emergere, in queste pagine, tanto il momento destrutturante delle tesi del pensatore indagato, quanto la loro pars construens. In sintesi, nel Lavoratore lo spirito della tecnica forgia una seconda natura, che gli consente di controllare ogni aspetto dell’apparato tecnico. Per tale ragione, compito prioritario di tale soggetto della storia, è dare “forma” al mondo. Suo tratto costitutivo, la “magia” demiurgica.
Nel percorso jüngeriano, il Lavoratore darà luogo ad altre “figure”, modificazioni profonde di questa prima incarnazione di una nuova tipologia umana, sempre, stando a Iozzino, in continuità con essa. Due di esse hanno assoluto rilievo: il Ribelle, colui che passa al bosco, e l’Anarca, capace di praticare, di fronte all’erompere della potenza tecnica supportata dagli apparati dello Stato Leviatano, un’apolitìa metafisica in forza della libertà custodita dal suo “cuore avventuroso”. Queste tre “figure” sono, in modalità diversa, radicate nella dimensione dell’elementare. Il primordiale rende i riferimenti antropologici dello scrittore, totalmente alieni dall’individuo della società borghese. Questi ha tacitato in sé la voce della physis, delle potenze che la abitano. Il suo tempo è linearità progressiva, immemore del “destino stellare”, alla ricerca del quale si muovono le tre “figure” ricordate, che solo può fondarsi sulla ricorsività ciclica. La medesima, lo ricorda Siniscalco, che Jünger visse sulla propria pelle quando a Kuala Lampur, assistette, per la seconda volta al passaggio della cometa di Halley. Una temporalità che prefigura un possibile Nuovo Inizio, sotto il segno del mito e dell’astrologia tradizionale, cui Jünger alluse in modalità esemplare nella pagine di, Al muro del tempo.
In fondo, come mostra l’intera produzione del tedesco, egli ambì indicare all’uomo contemporaneo una via d’uscita dal dis-astro della modernità e ricondurlo alla dimensione cosmica. In tal senso va letta anche l’esperienza della rivista Antaios, indirizzata a riproporre l’ancestrale fedeltà alla Terra. Solo l’incontro con l’elementare è atto a far emergere nell’uomo la dimensione profonda, il Sé, il legame olistico con il Tutto. Nell’Arbeiter tale incontro era indotto dalla mobilitazione: la potenza dell’Impianto, se controllata da un tipo umano aperto alla “trascendenza immanente”, alla distruttività nichilista, mostratasi sui campi di battaglia, poteva trasformarsi in forza plastica, in apertura sulla “forma”: «dato che oggi quanto manca “è proprio la forma” […] è quella vera grandezza che non si ottiene mediante sforzi, né con la volontà di potenza» (p. 14). Quest’aspetto sarà proprio anche del Ribelle e dell’Anarca, che tenteranno di affermare l’essere nel divenire.
Le tre figure jüngeriane sono dei compossibili, che possono manifestarsi sotto la spinta di date tendenze spirituali o di differenti contingenze storiche. Iozzino si sofferma, sviluppandone un’esegesi doviziosa, sul testo, Maxima-minima, nel quale il pensatore si confrontò, un trentennio dopo, con le tesi del Lavoratore, rilevando come la sua essenza fosse riducibile alla ricerca di: «un’altra potenza» (p. 15). Una potenza capace di conciliare Prometeo con Orfeo, al fine di limitare, del primo, gli eccessi impositivi nei confronti del reale. In quel frangente storico era necessario rinvenire, nella catastrofe apocalittica coniugata all’uso prometeico della tecnica, una “forza ordinatrice”, atta a sintonizzare uomini e origine. Oggi, tale questione, ha assunto il tratto dell’imprescindibilità. La tecnica ha natura ambigua, da un lato rinvia all’Indistinto, dall’altro può condurre, all’Ineffabile del neoplatonismo.
A noi pare che una continuità tra figure e fasi nello scrittore, come rilevato dall’autore, sia evidente, d’altro lato tra l’Arbeiter, il Ribelle e l’Anarca vi è anche una sostanziale differenza. La seconda e la terza figura hanno stemperato, in una sorta di filosofia della coscienza, la volontà d’azione storico-politica che emergeva dalle pagine del Lavoratore. Ciò accadde perché il riferimento jüngeriano, più che sulla “trascendenza immanente”, faceva ormai aggio sulla trascendenza, su una posizione “religiosa”. Lo aveva ben compreso Evola che, per questo, valorizzò soprattutto il primo Jünger.
È vero. Il primo Jünger poteva non piacere, ma almeno era chiaro. Il secondo un gran papocchio fumoso e verboso…