
Ho sempre nutrito molte riserve su quanti, persino a destra, imitando i “figiciotti” degli anni Sessanta, scandivano nei cortei “via l’Italia dalla Nato, via la Nato dall’Italia”. Con buona pace delle teorie di un Jean Thiriart e della sua “Giovane Europa”, che pure ha sedotto autentici enfants prodige della storiografia come Franco Cardini, in gioventù non ebbi difficoltà a convenire con la felice definizione di Adriano Romualdi, che bollava l’antiamericanismo come una malattia infantile del neofascismo. E, pur sentendomi sempre più distaccato dall’esperienza missina, non posso che ammirare la capacità di subordinare l’interesse nazionale ai risentimenti personali di quegli esponenti del Msi, reduci magari dai “fascist’s criminal camp” negli Stati Uniti in cui avevano fatto la fame, che accettarono lo stesso dopo un lungo e sofferto dibattito l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Con analogo amor patrio, tanti reduci dai campi di prigionia in Polonia e in Germania – in cui si faceva la fame e si moriva di più, anche se bisogna dire che alla fine della guerra il pane mancava pure ai tedeschi – accettarono l’ingresso del governo di Bonn nella Nato e nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio, primo germe del processo di unificazione continentale.
A più di settant’anni dalla stipula del Patto Atlantico, resto convinto che l’alleanza abbia presentato per l’Italia più vantaggi che oneri, come del resto li presentò un’altra alleanza, ancor più impopolare, per comprensibili motivi, come la Triplice. Con buona pace degli irredentisti che, con tutte le loro buoni ragioni, sfilavano con slogan come “a morte Franz, viva Oberdan”, avere le spalle coperte da un’alleanza difensiva ci consentì da un lato di vedere riconosciuto universalmente il nostro assetto territoriale, nonostante la questione romana ancora aperta che ci rendeva ostili le nazioni cattoliche, dall’altro di destinare risorse ed energie a una politica coloniale che oggi può apparirci infelice, ma all’epoca rispondeva alle aspettative di qualsiasi nazione desiderosa di vedersi riconosciuto lo status di media potenza.
Nel caso della Nato il rapporto costi/benefici è stato ancora più nettamente a nostro favore, tutelandoci, con l’ombrello nucleare statunitense e anche con le truppe americane stanziate nei nostri confini, dal rischio tutt’altro che aleatorio di un’invasione sovietica, invasione che oltre tutto sarebbe stata rovinosa anche per la presenza di una potenziale quinta colonna costituita dal partito comunista più forte di tutta l’Europa occidentale. È vero che le clausole dell’Alleanza prevedevano per noi, come ovvio, oneri militari, ma questi pesarono relativamente sui nostri bilanci, in termini reali. La leva obbligatoria, presente comunque già prima dell’ingresso nella Nato, svolse almeno fino agli anni Settanta un ruolo di grande pedagogia sociale, oltre ad assolvere compiti di alfabetizzazione e di formazione professionale; e le Forze Armate, dando lavoro a molti ufficiali, sottufficiali, operai civili e “arsenalotti”, hanno costituito a lungo un antidoto a volte clientelare alla disoccupazione. Mentre gli Stati Uniti si svenavano finanziariamente e non solo per contenere l’espansionismo comunista prima in Corea e poi nel Vietnam, le nostre perdite, incidenti durante le esercitazioni a parte, sono state dovute o al terrorismo interno, prima altoatesino, poi brigatista, o, come nel caso della strage di Kindu, alla partecipazione a missioni di pace sotto l’egida dell’Onu. A questo occorre aggiungere che i nostri governanti – da Gronchi a Craxi, passando per Moro – tennero in genere un atteggiamento leale ma non servile nei confronti dell’Alleanza, rivendicando margini di autonomia soprattutto nei rapporti col mondo arabo.
Non scorgo purtroppo la stessa capacità di rivendicare un ruolo critico all’interno della Nato da parte dei politici italiani della seconda repubblica. I motivi possono essere diversi, a parte lo scadimento sempre più marcato della nostra classe dirigente.
Uno di essi è rappresentato dall’esigenza, per gli eredi politici di un partito che si era schierato nettamente contro la Nato, di acquisire credibilità nei confronti dell’alleato d’oltreoceano. Sotto questo profilo, si potrebbe sostenere che gli ex figiciotti arrivati all’età dei calzoni lunghi hanno convertito in zelo atlantista la trinariciuta ostilità alla Nato, in un epocale “contrordine compagni!” che avrebbe fatto la felicità di Guareschi. E lo stesso si potrebbe dire di molti ex “pesciolini rossi nell’acquasantiera”, democristiani di sinistra entrati nel Pd coronando in forme diverse il sogno moroteo del compromesso storico.
Un altro motivo è costituito dalla leggenda nera – una leggenda, che però sento ripetere da trent’anni – secondo cui le inchieste di Tangentopoli sarebbero state pilotate dalla Cia come una forma di vendetta per le eccessive libertà che i partiti moderati italiani – e in particolare il Psi di Craxi, primo bersaglio dell’inchiesta – si sarebbero prese ai tempi della guerra fredda. Non sarebbe un caso che mani pulite sia scoppiata l’anno dopo il definitivo crollo dell’Urss. Credo relativamente poco a questa ipotesi, ma credo molto alla vigliaccheria della nostra classe politica, per cui non escludo che il timore di ritorsioni abbia influito quanto il desiderio di legittimazione su una acquiescenza a volte servile.
La guerra alla Serbia
Il primo esempio di servilismo è stato rappresentato dalla guerra del Kosovo: un intervento a spese di uno Stato sovrano, di religione cristiana, per sostenere un movimento dichiarato dalla stessa Onu terroristico, l’Uck, che ha condotto alla nascita di uno Stato canaglia musulmano a pochi chilometri dalla penisola. Per gestire tale operazione fu condotto al governo un ex comunista come Massimo D’Alema, che concesse le nostre basi per i bombardamenti in Serbia. Lo stesso Cossiga, che pure aveva avuto un suo ruolo nella manovra, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, nel 2002, avrebbe definito l’aggressione alla Serbia “un assoluto stravolgimento del diritto internazionale” (cfr. http://www.vita.it/it/article/2002/06/14/cossiga-nato-in-kosovo-come-hitler/13723/). Maturò anche come reazione a questo intervento quel risentimento nei confronti dell’Occidente che avrebbe condotto poco dopo all’avvento al potere di Putin. La Serbia è un paese ortodosso come la Russia, che dai tempi della grande guerra si sente in dovere di proteggerla.
L’Iraq
Occorre aggiungere, per onestà, che una certa cupidigia di servilismo non fu esclusiva della sinistra. Quando, per combattere il fondamentalismo islamico, Bush Jr aggredì l’Iraq, ovvero uno dei pochi stati mediorientali in cui i cristiani erano rappresentati a livello di governo, Berlusconi gli diede il suo sostegno, pur mostrando la saggezza di limitarsi a un supporto se così può dirsi umanitario, il che non ci risparmiò la tragedia di Nassiria. A sua parziale attenuante occorre riconoscere che il suo sostegno agli Usa fu anche una conseguenza dell’atteggiamento sprezzante (lo chiamò “le bouffon”) tenuto nei suoi confronti dal presidente francese Chirac: si parva licet, si comportò come la sinistra storica quando, dopo “lo schiaffo di Tunisi”, abbandonò la tradizionale inclinazione filogallica per aderire alla Triplice. Ma l’errore ci fu, e grosso.
L’Ucraina
Oggi l’errore potrebbe essere ancora più grave. La decisione del vertice Nato di rafforzare la presenza militare ai confini con l’Ucraina in sé non sarebbe sbagliata, da un punto di vista tattico. È sempre saggio rafforzare il limes, in momenti di crisi internazionali. Il guaio è che nel contesto strategico rischia di risultare rovinosa per almeno tre motivi. Il primo è che a torto o a ragione rischia di essere percepita da Putin come una provocazione, e provocare non più solo con parole avventate un capo di Stato che detiene il cifrario delle testate nucleari costituisce un grosso rischio. Il secondo è che allontana ulteriormente le possibilità di una tregua o di una pace, fondata magari su un trattamento per il Donbass analogo a quello ricevuto a suo tempo dal Kosovo. E così generando una sindrome da accerchiamento, da un lato può rafforzare il consenso interno per Putin, dall’altro rischia di provocare un ulteriore avvicinamento della Russia alla Cina, dalle conseguenze imprevedibili. Il terzo è che il prolungamento del conflitto e delle relative sanzioni, che puniscono più Roma e Berlino di Mosca, oltre che degli aiuti a fondo perduto all’Ucraina, mette in crisi la nostra economia con ripercussioni sociali imprevedibili. Ci siamo impegnati a portare al 2 per cento del Pil il nostro bilancio militare; ma se il Pil cala per una recessione senza precedenti, per raggiungere l’obiettivo potrebbe non bastare il 3.
Il vero problema è che all’attuale dirigenza Nato, cui si sono accodati i principali leader italiani ed europei, manca la capacità o la volontà di individuare il nemico principale, requisito fondamentale per l’uomo di Stato. Biden lo ha identificato nella Russia, che pure è una potenza declinante, come i risultati delle operazioni militari hanno confermato, senza capire che nel Risiko internazionale i veri rischi vengono da Pechino. Stato comunista, totalitario, in grado di reprimere ferocemente la dissidenza interna persino a Hong Kong, di arrestare cardinali, di isolare intere città col pretesto del Covid, la Cina è capace di accaparrarsi nell’indifferenza generale in costante espansione nell’accaparramento delle risorse dell’Africa ed è già proiettata verso la conquista di Taiwan. Avvicinando Russia e Cina, sessant’anni dopo la diplomazia del ping-pong, Biden rischia di distruggere quella che fu la straordinaria realizzazione di Kissinger, che non a caso è uno dei più convinti assertori della pace in Ucraina. Sono in pochi, purtroppo, ad ascoltarlo. Quando l’ascolteranno, temo che sarà troppo tardi.
Verissimo. Aggiungiamo che la situazione attuale degli equilibri mondiali risiede non solo nella suicida WWI, che ‘fece sbarcare gli USA’ in Europa da aspiranti padroni nel 1917, poi nel colossale errore geopolitico della Amministrazione Roosevelt nel 1939. Accecato dal suo odio antigermanico e dall’idea del ‘colpo grosso’ nell’Atlantico e Pacifico, senza soffrire la guerra in casa, quella Amministrazione, con parecchi ebrei nei posti-chiave, non capì che sostenere URSS e Cina, contro Germania e Giappone significava a medio termine gettare le basi della propria rovina. Germania e Giappone, Nazioni povere, piccole, sovrapopolate, senza risorse quasi, non avrebbero mai costituito una ‘minaccia globale’ a Washington, al contrario dei due giganti euroasiatici. Roosevelt era un tipico rapprsentante della gauche-caviar democratica del suo tempo, il rampollo d’una grande e potente famiglia statunitense massone che sembrava incarnare il ‘Destino Manifesto’ di Taft. Ma agli allori del 1945 doveva seguire quell’incertezza che, 77 dopo, fa gridare, non solo al vecchio e saggio Kissinger, che aver ignorato i cardini degli equilibrî mondiali, quelli del Congresso di Vienna, tanto per fare un riferimento storico-ideale, rischia ora di gettarci in un conflitto apocalittico o, ben che vada, in una condizione di blocco di Potenze declinanti ed asservite.
‘La leva obbligatoria, presente comunque già prima dell’ingresso nella Nato, svolse almeno fino agli anni Settanta un ruolo di grande pedagogia sociale, oltre ad assolvere compiti di alfabetizzazione e di formazione professionale…’. Magari fosse stato così. Nelle trincee insanguinate della WWI avevamo il 40% circa di giovani analfabeti ed anche dopo i soldati semplici erano in prevalenza attendenti di ufficiali, personale delle pulizie e manovalanza dell’Esercito a bassissimo costo, anche quando non direttamente ‘carne da macello’. Gli ufficiali della Wehrmacht si scandalizzanobo al vedere, anche in zone di combattimento, tre mense per gli italiani, soldati, sottoufficiali, ufficiali! Ovviamente, trattati da ‘coglioni’ ed insultati in continuazione dai superiori, senza neppure i calzini ancora ai tempi della WWII, i soldati italiani si difendevano con la ‘resa facile’…. L’Esercito di Leva era una solenne porcheria, almeno in Italia.
A parte che Berlusconi ve ne giustamente constato da belgi e francesi perché parlò di superiorità occidentale,mi interessa sapere da dove ha tratto l affermazione di Adriano Romualdi sulla antiamericanismo malattia infantile del neofascismo.grazie.
(copia corretta)
Verissimo. Aggiungiamo che la situazione attuale degli equilibri/squilibrî mondiali risiede non solo nella suicida WWI, che ‘fece sbarcare gli USA’ in Europa, per mano di Londra, da aspiranti padroni nel 1917; poi nel colossale errore geopolitico della Amministrazione Roosevelt nel 1939. Accecato dal suo odio antigermanico e dall’idea del ‘colpo grosso’ nell’Atlantico e Pacifico – dominare in modo egemonico i due teatri senza soffrire la guerra in casa – quella Amministrazione (con parecchi ebrei logicamente antinazisti in posti-chiave), non capì che sostenere URSS e Cina, contro Germania e Giappone significava a medio termine gettare le basi della propria rovina. Germania e Giappone, nazioni in fondo povere, piccole, sovrappopolate, con poche risorse, non avrebbero mai costituito una ‘minaccia globale’ per Washington, al contrario dei due giganti euroasiatici. Roosevelt era un tipico rappresentante della gauche-caviar del Partito Democratico del suo tempo (Stati del Sud a parte), il rampollo d’una grande e potente famiglia statunitense, massone, che sembrava incarnare nella sua persona il ‘Destino Manifesto’ di Taft. Ma agli allori (ed orrori) del 1945 doveva seguire quell’incertezza velleitaria che, 77 dopo, fa gridare, non solo al vecchio e saggio Kissinger, che aver ignorato i cardini degli equilibrî mondiali, quelli consacrati dal Congresso di Vienna, del Metternich, tanto per abbozzare un riferimento storico-ideale, rischia ora di gettarci in un conflitto apocalittico o, ben che vada, in una condizione di blocco di ex Potenze declinanti, impoverite ed asservite, vassalle di un Impero statunitense anch’esso gravemente decadente, in primis dal punto di vista etico e della coesione interna. A meno di pensare che siano valori universali e fondanti quelli LGBTQI+ o della cancel & woke culture…
Caro Gallarò, ho la memoria presbite dei sessantenni e, con grande disperazione di mia moglie, senza portarmi dietro un biglietto non mi ricordo cosa devo comprare al supermercato, ma ricordo benissimo articoli e libri letti più di cinquanta anni fa. Ho citato a memoria la frase di Adriano Romualdi, che avevo letto diciassettenne su “Ordine Nuovo”, numero del maggio-giugno 1970. Sono andato a controllare con una rapida ricerca su internet e l’ho trovata citata nel saggio di
Nella mia citazione a memoria c’era solo una piccola inesattezza, di cui spero i lettori vorranno perdonarmi: parafrasando la celebre frase di Lenin, Adriano Romualdi parlava di “antiamericanismo, malattia infantile del movimento nazionale europeo”, non del neofascismo. Ma la sostanza non cambia. Troverà come me la citazione all’indirizzo internet file:///C:/Users/utente/Downloads/LAmerica_a_Destra._L_antiamericanismo_ne%20(1).pdf
a pagina 45 del saggio di Luca Tedesco, L’America a destra. L’antiamericanismo nella stampa neofascista, edito da Le Lettere nella “Biblioteca di Storia Contemporanea” diretta da uno studioso serio come Francesco Perfetti.
Grazie per l’attenzione e buona lettura.