Non conosco Carlo Fidanza, e non ho alcun debito di riconoscenza con lui. Li ebbi in certo qual modo, una ventina di anni fa, con un altro Fidanza, assessore alla Cultura del Comune di Foggia, che mi chiese di recarmi nella sua città per tenere una conferenza su Alessandro Manzoni. Era da poco avvenuta l’introduzione dell’Euro. Fidanza mi aveva offerto, ancora in lire, il compenso di un milione, più le spese di viaggio. La cifra parve iperbolica a me, abituato a parlare gratis, e a non vedermi spesso nemmeno rimborsato il biglietto del treno, per cui, quando si trattò di farmi pagare, arrotondai la cifra a cinquecento euro. Passai probabilmente per bischero, ma se tutti avessero arrotondato per difetto invece che convertire mille lire in un euro, come si affrettarono a fare tanti osti e tavernieri, forse staremmo un po’ tutti meglio.
Non conosco, ripeto, Fidanza e il suo curriculum non suscita in me particolare ammirazione. Maturità scientifica, studi in giurisprudenza e scienze politiche (una maniera elegante per dire che non si è mai laureato), nessuna lingua comunitaria conosciuta, a parte l’italiano (ma questo può essere anche un titolo di merito: gli interpreti, che ci stanno a fare?). mi pare uno di quei quarantenni cresciuti a pane e politica, con una lunga gavetta cominciata nelle organizzazioni giovanili e nei consigli circoscrizionali, che costituiscono l’ossatura di un partito come Fratelli d’Italia.
Assistere a un’ingiustizia, e ancor prima che a un’ingiustizia a una manifesta assurdità, è un qualcosa però che suscita in me un’istintiva repulsione. Fu per gli abusi dell’antifascismo militante e sicofante che non abbandonai l’impegno politico negli anni Settanta, precludendomi la carriera universitaria nella rossa facoltà di Lettere a Firenze. E oggi mi inducono a solidarizzare gli attacchi nei suoi confronti, cominciati con un’inchiesta giornalistica realizzata spiandone i rapporti con alcuni sostenitori e proseguiti con un avviso di garanzia per corruzione.
Ma di quale corruzione si tratta? A tutta prima, si potrebbe pensare che Fidanza abbia preteso una tangente, come parlamentare europeo, da uno dei tanti lobbisti che operano senza nemmeno troppo pudore fra Strasburgo e Bruxelles. Oppure abbia inquinato un concorso pubblico al Parlamento europeo per far assumere un suo seguace.
La realtà è invece molto diversa. La responsabilità dell’europarlamentare consisterebbe nell’aver assunto come assistente personale, con i fondi previsti dal Parlamento europeo, il figlio di un consigliere del Comune di Brescia, dimessosi per lasciare spazio al primo dei non eletti, vicino a quanto pare a Fidanza. Che fra dimissioni e assunzione esista un rapporto di causa effetto è tutto da dimostrare: non sempre post hoc significa propter hoc. Ma, anche nel caso tale rapporto vi fosse, non ci trovo nulla di penalmente rilevante.
La politica è sempre stata fatta di scambi ed è notorio che all’interno di ogni partito esista un meccanismo di compensazioni per cui si cerca di assicurare a chi vi lavora gratificazioni anche ma non solo morali. Perché, è onesto dirlo, se svolta seriamente, l’attività politica è un lavoro usurante più di molti altri e chi giudica l’impegno di un consigliere comunale o provinciale, di un parlamentare nazionale o europeo dalla mera presenza in assemblea o nelle commissioni si sbaglia di grosso. Il Pci, geniale nell’utilizzare al meglio le risorse fornite da quello Stato democratico che, almeno fino a tutti gli anni Sessanta, avrebbe voluto abbattere per instaurare una repubblica sovietica, era maestro in questo ambito. Imponeva per esempio ai deputati di devolvere una considerevole aliquota dell’onorario al partito, che così finanziava gli stipendi dei suoi funzionari e integrava le ridicole (un tempo) indennità dei sindaci di Comuni minori. I radicali, falsi maestri di moralismo, quando ancora i deputati guadagnavano il diritto immediato alla pensione anche a vent’anni dopo una frazione di legislatura (per tacere del “permanente” sulle Ferrovie e di altri benefici accessori) facevano eleggere e poi dimettere i loro primi parlamentarii, in modo da avere dei militanti a vita pagati dallo Stato.
Nessuno si è mai sognato di criminalizzare questi comportamenti; tutt’al più possono essere stati oggetto di critiche moralistiche. Il gioco delle dimissioni da un incarico elettivo, per favorire il subentrante, fa parte anch’esso della normale dialettica politica, come la scelta dei candidati al Parlamento eletti in più circoscrizioni di optare per questa o quella, favorendo un primo dei non eletti della propria corrente.
Nel caso del Parlamento Europeo, è giusto aggiungere qualche altra considerazione. La campagna elettorale costa in Italia moltissimo, perché le circoscrizioni sono vastissime, per cui il candidato è costretto a un dispendio di denaro spropositato per raggiungere tutti i potenziali elettori. Se e quando viene eletto, però, l’eurodeputato dispone di poco potere, perché in realtà la stanza dei bottoni è altrove; il suo grande vantaggio consiste in una larga disponibilità di fondi, che in genere utilizza per assumere durante il mandato persone di sua fiducia, con criteri di ampia discrezionalità, utilizzandole per svolgere attività politica più nel suo collegio di appartenenza che a Bruxelles, o anche per finanziare attività di partito in patria.
Tutto ciò è di una moralità discutibile? Può darsi. Ma ben più immorali e discutibili sono i giganteschi sprechi delle strutture europee, gli enormi costi di traduzione di ogni atto, gli stipendi e i privilegi degli eurocrati, il sovrapporsi di competenze fra Parlamento, Commissione e Consiglio d’Europa, le pressioni delle lobby, l’inutilità e l’immoralità di un’istituzione che, mentre la guerra in Ucraina era alle porte, discuteva – come ha ricordato a suo tempo Tremonti – del femminile e del maschile sui documenti ufficiali e che ora – nonostante una robusta presenza di deputati popolari – approva documenti critici sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in materia di aborto, compiendo oltre tutto un’indebita ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano.
Resta però un fatto: la criminalizzazione di comportamenti opportunistici si verifica solo quando si tratta di sanzionare personaggi scomodi. Tanto per fare un esempio, Françoia Fillon, il candidato gollista alle primarie delle presidenziali del 2017, favorito dai sondaggi, fu “bruciato” dal cosiddetto Penelopegate, dal nome proprio della consorte, che aveva assunto come assistente al Parlamento Europeo; in realtà la sua vera colpa erano i buoni rapporti con Mosca. Fu così che un algoritmo aprì la strada alla candidatura Macron. Analoghi rilievi sono stati mossi dai moralisti a corrente alternata anche contro il partito di Marine Le Pen e ora tocca a Carlo Fidanza. Il cui caso presenta però un particolare inquietante. L’inchiesta dei magistrati milanesi (perché Milano e non Brescia? La questione è molto sottile) è partita da un esposto anonimo. Una volta le lettere anonime si stracciavano; ora ci si costruisce sopra un caso giudiziario; ma su questo il discorso darebbe lungo. Voglio sperare però che la denuncia sia partita da un avversario politico di Fidanza, non da un suo collega di partito, ostile a lui per motivi magari correntizi. Capii che con la politica avrei dovuto rompere quando vidi che in Alleanza Nazionale le diverse correnti si davano battaglia a suon di comunicati sui giornali, invece di dirimere eventuali contenziosi a porte chiuse, come prevedrebbe l’ethos di qualsiasi club privato, partito, magari società bocciofila. Non vorrei che l’eredità avvelenata del correntismo minasse, come avvenne con An, le radici di quello che secondo i sondaggi se si andasse al voto potrebbe essere il primo partito italiano.