Interessano ancora a qualcuno i destini del nostro acciaccato sistema democratico ? La domanda ci viene spontanea di fronte alle disarmanti percentuali dell’astensionismo al voto, rese drammatiche dall’ultimo appuntamento referendario e dalle contestuali scadenze amministrative. Di fronte a questi numeri ci saremmo aspettati non solo qualche cenno preoccupato, ma inchieste, analisi approfondite, magari più di un’autocritica. Niente di tutto questo. Meglio tacere, illudendosi, di vivere in una democrazia matura. Purtroppo non è così. E non solo per una stanchezza occasionale da parte degli elettori. La questione è ben più complessa, rendendo palesi le criticità “strutturali” di un sistema che, da decenni, è malato, ma che non sembra destare particolare interesse da parte del mondo dell’informazione e della politica. Magari preoccupati più della difesa formale della democrazia che del suo concreto dispiegarsi, fino ad arrivare a una parte del mondo politico, genericamente di sinistra, spesso distratto rispetto ai veri interessi dei cittadini, alla domanda di sicurezza e di giustizia sociale che sale dal Paese reale.
Sul fronte culturale sono numerosi gli studi che, nell’ultimo decennio, si sono interrogati sulla crisi del sistema democratico, fino a parlare di democrazia illiberale e di “demos assente”, cioè di una democrazia senza popolo, di un potere del popolo che non ha potere, di un popolo sovrano senza sovranità.
A mancare sono però le contromisure, le proposte “ricostruttive” rispetto ad un sistema che pare inamovibile nei suoi meccanismi “rappresentativi”, fermi ad ottant’ anni fa, laddove oggi il tramonto delle ideologie ha lasciato il campo libero alla politica-del-giorno-per-giorno, sempre più piccola, minimalista potremmo dire, non solo nelle elaborazioni, ma anche nel linguaggio, con il risultato di ridurre tutto a slogan, a messaggio immediato, ma depotenziato dal punto di vista dei contenuti, delle capacità evocative e quindi del coinvolgimento del popolo, oggi ridotto ad essere una mera comparsa.
A fare da sfondo una “democrazia recitativa” nella quale il “demos” appare presente solo al momento del voto (ridotto ad una sorta di sondaggio su larga scala), per essere subito dopo messo da parte. Il risultato è che l’impressione collettiva è l’ininfluenza di fronte ad un mondo politico sempre più “fluido”, privo di vincoli ideologici e “di mandato” (esemplare da questo punto di vista la recente vicenda del Movimento 5 Stelle).
A venire meno è la democrazia nel suo senso più profondo e compiuto, la democrazia, vissuta come “partecipazione di un popolo al proprio destino” – per dirla con Arthur Moeller van den Bruck, segno di una politica vissuta come aspettativa collettiva sul piano dei valori civili ed insieme come buona amministrazione. L’una cosa deve andare a braccetto con l’altra, perché è partendo dalle scelte “di valore” che poi è possibile realizzare buoni programmi in grado di incidere sulla vita dei cittadini, sempre preoccupati – come ci dicono i sondaggi – del lavoro, della sicurezza, della salute, della qualità dell’ambiente.
In un sistema “normale” il confronto sulle idee (una volta si sarebbe detto pomposamente sulla Weltanschauung, sulla visione della vita e del mondo) e sulle scelte amministrative dovrebbe stare alla base del dibattito politico e delle scadenze elettorali: espressione della “normalità” della democrazia e dunque di una volontà di partecipazione reale e non moralistica, segno delle passioni civili e della visione strategica di un Paese che dovrebbe sapere scegliere sui grandi temi della vita, della famiglia, dell’identità nazionale, della sovranità, della geopolitica, temi concatenati l’uno agli altri.
Al contrario siamo al “commissariamento della politica” prodotto del minimalismo culturale e del trionfo di quelli che Max Weber definiva i “partiti di patronato”, fondati sulla spartizione degli uffici pubblici, contrapposti ai partiti basati su “una intuizione del mondo”, portatori cioè di una identità forte.
Senza volere ripercorrere strade già battute, magari rincantucciandosi nel beato-tempo-che-fu, la responsabilità di chi si sente portatore di “un’intuizione del mondo” è di impegnarsi al fine di coniugare le stringenti, quotidiane domande della gente con quelle “visioni lunghe” che danno il senso di una politica capace di affrontare gli elementi strutturali dell’attuale crisi, ponendo delle discriminanti forti, diciamo “di valore”, in grado di rendere plasticamente visibili le ragioni di una scelta e su queste attivando il coinvolgimento popolare.
La sfida “democratica” passa, oggi, attraverso una nuova coscienza collettiva ed un’aspettativa ricostruttiva, in grado di “promuovere l’interesse del Popolo all’opera del proprio ordinamento costituzionale” – come ebbe a scrivere, agli albori della Repubblica, Carlo Costamagna.
Si tratta di una battaglia culturale necessaria per qualsiasi azione politica. Da qui può nascere un’autentica spinta in grado di ricostruire l’Italia dalle fondamenta, per poi rispondere alle tante emergenze sul tappeto: quelle relative all’economia, al funzionamento della macchina pubblica, alla giustizia sociale, alla modernizzazione del sistema produttivo, alla selezione delle classi dirigenti, all’avvenire delle giovani generazioni.
Senza partire dai fondamentali, dal sistema rappresentativo, e da una nuova stagione autenticamente “partecipativa” non si uscirà dalla crisi. E a forza di galleggiare senza una rotta il rischio è l’affondamento.
‘L’ autorità viene dall’alto, il consenso dal basso’, sosteneva un famoso rivoluzionario…