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L’ultima volta che Maria potè vedere il marito Pacilio fu durante un’ora scarsa nella stazione di Milano Centrale, alla fine di marzo 1945. La città era stata bombardata parecchie volte, molti edifici erano sventrati o danneggiati assai, così come a Torino. Sofferenza, stanchezza, fame, povertà, sporcizia, pidocchi, desiderio generalizzato, giorno dopo giorno in aumento, di un punto finale, per ricominciare a vivere, dopo sei lunghi anni di guerra.
Ai bombardamenti angloamericani si erano sommati i francesi, con i pochi aerei ceduti a De Gaulle dagli Alleati. Avendo i cugini transalpini rovinosamente perduto la guerra contro i tedeschi nel giugno 1940, ed aver poi maggioritariamente collaborato con essi all’epoca di Pétain, ora l’Armée Française de Libération cercava ad ogni costo qualche ‘vittoriuzza’ per la République, un contributo simbolico che poteva rendere buoni frutti al tavolo di una futura Conferenza della Pace. I francesi avevano incontrato nel Nord Italia, praticamente senza difesa contraerea, un comodo e sicuro obiettivo per mietere briciole di postuma grandeur a basso costo… A causa di uno di tali attacchi, i danni provocati alla linea Torino-Milano, il viaggio tra le due città era durato circa otto ore. Così che per tornare a Torino prima del coprifuoco, con l’ultimo treno per Porta Nuova, le rimaneva a Maria meno di un’ora per stare con Pacilio. Non lo vedeva da due mesi.
Inguainato in un’uniforme troppo grande per il suo fisico minuto, con teschio e tibie incrociate, che solo con vederla avrebbe dovuto suscitare il terrore del nemico e che, al contrario, già si era convertita nell’obiettivo di numerosi attacchi dei ribelli partigiani, Pacilio apparve alla sposa più indifeso che mai. Dalla madre aveva ereditato una dolcezza tenera, virtù che in guerra non serve, dal padre una vocazione artistica che altrettanto non poteva valorizzarsi in quei tempi aspri di lotta e di morte.
– Perchè, Pacilio, sei nella Brigata Nera? Li ammazzano, tutti i giorni.
– Non ho avuto scelta. Quando i tedeschi ci hanno catturati in Grecia, dopo l’8 settembre, ci internarono in uno Stalag in Germania. L’unica forma di andarmento fu di arruolarmi nel neonato esercito di Graziani.
– Lo so, me l’hai già detto. Ma perchè non stai più nell’Esercito? Al Comando di Divisione
continuo a scriverti.
– Mi mandano le tue lettere. Avevano bisogno di militari con un po’ d’istruzione nell’Ufficio
Stampa e Propaganda della Brigata Nera, così che mi convinsero e finii per accettare. Per lo meno posso mangiare abbastanza bene ed avere uno stipendio, Ti mando lunedì un vaglia postale. Lavoro in un ufficio, non sparo a nessuno. Non ti preoccupare.
– Ma i partigiani comunisti dei GAP sparano a voi nelle vie, di notte, dalle biciclette.
– Io non esco mai di notte. Rimango nella caserma anche quando potrei uscire.
– Non farti uccidere adesso, Pacilio. Abbiamo bisogno di te.
– Un giorno, forse presto, la guerra finirà ed io tornerò… dai un forte abbraccio alle bambine, che devono essere grandi e belle. Dille che papà le vuole bene – fu il commiato del pittore-soldato a Marta, che gli lasciò una foto recente delle figlie, subito baciandola.
Attorno alla Stazione Centrale di Milano, esempio di sincretismo architettonico che Pacilio aveva smesso di ammirare nella sua monumentalità eccessiva, c’era un gran movimento di uomini, e qualche donna, in uniforme: italiani e tedeschi, soldati e poliziotti, ausiliari di Armi e Corpi differenti. I civili italiani erano magri, cenciosi spesso, gli abiti vecchi e troppo grandi. Tutti camminavano in fretta, senza guardarsi attorno, senza mai sbozzare un sorriso. Nell’aria l’odore pesante di soldato, sudore, cibi cattivi.
Pacilio Adone Margherita non era nato per essere un eroe. Non solo per il suo nome, che non suggeriva una mascolinità coraggiosa o dionisiaca. L’ambiente familiare, quotidiano della sua fanciullezza e le sue prospettive non lasciavano indovinare per quel bambino magrolino, pallido e dagli occhi verdi, un destino da giramondo, ancor meno da uomo d’azione.
Suo padre, Virgilio Athenagora, era professore di Disegno al Liceo Cavour di Torino, innamorato della Grecia e dell’antichità classica. Così come lo era stato il nonno Ercole. Dalla più tenera infanzia tele, cartoni, fogli di carta di Fabriano, nature morte e ritratti, lapis, tubetti di colori ad olio, acquarelli, inchiostri di China, pastelli, compassi, carboncini, erano stati una presenza costante, essenziale. Occhi e mani che accarezzavano i contorni di un viso, di un vaso di fiori, di un paesaggio per riprodurli poi con grazia, quasi sempre abbellendo la realtà.
La madre, Carolina, era una casalinga dolce e di natura calma, con occhi grandi, sorridente, come chi transita per le contrade del mondo per spandere semi di armonia, semplicità, senso del bene e del buono. Il quadretto familiare era uscito senza traumi dalla Grande Guerra 1915-’18 e dall’agitato post guerra. Pacilio obbediva senza ribellioni ai suoi genitori. In casa nessuno alzava mai la voce. Egli rivelò precocemente un talento naturale per il ritratto, superando presto l’abilità del progenitore, assai orgoglioso, da parte sua, di una continuità familiare che forse, sperava, avrebbe al fine trasceso il piccolo mondo della docenza e delle esposizioni modeste.
Pacilio un nuovo Boldini? Perchè no?
Il ragazzo, brillante nel disegno e nella pittura, non lo era altrettanto per le scienze esatte, matematica e geometria, latino, francese. In quel tempo non era necessario un titolo universitario per insegnare Disegno e Pacilio seguì, senza alcuna frustrazione, il cammino del padre. Che aveva iniziato a dubitare dello spirito d’iniziativa, della curiosità, dell’intelligenza dell’unico figlio, disciplinato, ma non brillante. Aveva sognato, come la gran parte dei genitori, un gran futuro per il figlio e gli toccava, con la sua adolescenza, vedersi riflesso nella sua degna mediocrità. Anche la fanciulla che Pacilio sceglierà per moglie, Marta, sarà una brava ragazza, gradevole, assennata, di modi corretti, cha sa star bene a tavola, ma anche lei intellettualmente limitata. Come tutti i genitori, Virgilio finì col rassegnarsi. Comunque, egli godette assai dell’arrivo di due graziose nipotine, Aurora ed Alba. Purtroppo una polmonite se lo portò via ancor giovane. Due anni dopo le toccò a Carolina, allorché, durante un bombardamento notturno della R.A.F. su Torino, una brandbombe la raggiunse ed uccise, a pochi metri dal rifugio antiaereo.
Il sobrio benessere piccolo-borghese di Pacilio, Marta e bambine fu bruscamente scosso dalla guerra proclamata da Mussolini il 10 giugno 1940. L’uomo, a causa del suo fisico minuto e della miopia, non era stato, anni prima, considerato idoneo per il Servizio Militare. Adesso fu arruolato ed inviato al fronte greco-albanese. Nei conflitti armati si necessitano impiegati, quasi come combattenti. Pacilio apparve il soldato adeguato per un ufficio, con scrivania, sedia, una piccola stufa, caffettiera e surrogato di caffè, carta, matite, penne, inchiostro.
Poi venne la sconfitta d’Italia e l’occupazione della Penisola di eserciti stranieri, che poco o nulla rispettano e la guerra civile con le sue atrocità. La lotta armata ufficiale ebbe termine alla fine di aprile 1945: i soldati tedeschi se ne andarono, attraverso il Brennero, a casa loro, in base alle intese tra il Generale SS Wolff ed i Servizi Segreti americani dell’OSS. Venne con la pace la resa dei conti tra italiani. Migliaia, decine di migliaia di detenzioni, sevizie e feroci percosse, giudizi sommari, condizioni carcerarie inumane, molte fucilazioni. Uomini e donne trascinati dai capricci crudeli degli avvenimenti, che con frequenza non conoscono né giustizia, né pietà, quando la faccia di un torturatore vero può essere confusa con quella dell’ultimo impiegato d’una caserma o prefettura o con quella di un anonimo barbiere. Quando un dio distruttivo e spietato s’impossessa della ragione esplodono rabbie, odii, rancori e feroci istinti di vendetta, pubblica o privata; i peggiori sentono assicurata l’impunità, nel parallelo trionfo della delazione e della calunnia. Il male chiama il male, con forza sconfinata. Il professor Pacilio Adone Margherita non apparve più. Di lui si erano perse le tracce a Milano. Passarono i giorni, le settimane, i mesi, infine gli anni. Sembrava essere stato inghiottito dalla terra. Marta cercò, chiese aiuto, una e cento volte, domandò e scrisse a destra e manca, inutilmente, fino a convincersi che il marito aveva finito per pagare colpe di altri o il conto della storia.
Arrivò nel 1950 il Giubileo proclamato dal Papa Pio XII, il vero vincitore delle Elezioni Politiche del 1948. Quando il Santo Padre mobilitò a favore della Democrazia Cristiana tutte le Parrocchie d’Italia e le Sante Vergini miracolose… Roma venne invasa da milioni di pellegrini e turisti. Dopo aver visto morire tanta gente, aver odiato, accusato, non aver salvato per vigliaccheria chi poteva esserlo, molti sentivano ora la necessità di farsi perdonare da Dio. Non il Dio biblico, vendicativo e talora sanguinario, da un Dio evangelico di amore e compassione. Le chiese erano colme in tutti gli angoli d’Italia. Ognuno aveva perduto congiunti sotto le bombe, ai fronti di Africa, Russia, Balcani o nelle lotte e rappresaglie della guerra civile dal 1943 al ’45. In Russia c’erano ancora molti prigionieri italiani di guerra, detenuti in condizioni inumane. Le preghiere, le invocazioni, la devozione alla Vergine ed ai Santi sorgevano spontanee, intense.
Dei vicini di casa di Marta decisero di recarsi a Roma per l’Anno Santo in un viaggio organizzato dalla parrocchia, dal parroco don Viberti. Un pullman di prima della guerra, con tanti chilometri nel motore e sospensioni male in arnese, fu noleggiato ad un prezzo ragionevole, ma impiegò oltre venti ore a raggiungere la capitale. Al scendere i pellegrini avevano le ossa rotte per gli scrolloni e scossoni delle sospensioni del vecchio pullman malandato, su strade ancora con troppe buche. L’emozione di stare a Roma – per molti la prima volta nella vita, se non avevano approfittato della stagione del Dopolavoro – li fece sanare rapidamente.
Dopo visitare le quattro Arcibasiliche per la remissione di tutti i peccati ed ottenere l’indulgentia plenaria, il gruppo, sempre guidato dal parrocco, fu portato in passeggiata ai luoghi più famosi dell’urbe millenaria. Arrivati in Piazza Navona, con i suoi caffè, ritrattisti e caricaturisti ambulanti, ad una signora (le donne erano in netta maggioranza) parve di scorgere una faccia conosciuta. Un ritrattista, seduto di fronte a due bambini in posa, sembrava essere Pacilio, sebbene con capelli grigi e barba lunga di vari giorni.
– Maria, guarda quel signore che sta disegnando i due bambini. Non ti sembra il professor Margherita? – chiese la signora De Filippis.
Maria Bonifetto espresse dei dubbi:
– Ha qualcosa di somigliante, ma son tanti gli anni passati dall’ultima volta che lo vidi che non ne sono sicura.
– Se fosse lui, ti pare che non si sarebbe posto in contatto con Marta in tutti questi anni? –
aggiunse Filomena Colla, un’amica intima di Marta e sua vicina di pianerottolo.
– Il povero professore sarà sicuramente morto, il suo corpo tirato in un fiume o sepolto in una fossa comune. Come migliaia di altri. Maledetti comunisti senza Dio, pagheranno per tutti i loro crimini, quaggiù o lassù! – aggiunse Agostina Portalupi, una vedova di forte carattere, con voce densa d’indignazione, con profondo rancore. Dopo un rapido conciliabolo tra donne, con molta paura di fare una figuraccia, nessuno osò rivolgere la parola, tanto meno chiedere l’identità, all’indaffarato ritrattista, che mai aveva alzato gli occhi dal suo cavalletto. Neppure esse si erano avvicinate. Il giorno seguente i pellegrini tornarono a Torino, stanchi come muli, ma pieni di pace interiore.
Chi non aveva pace interiore, nei giorni seguenti, era Ottavia De Filippis, la prima che in Piazza Navona sollevò il dubbio ed adesso si domandava, senza riposo o consolazione, se lo sconosciuto disegnatore fosse o meno lo scomparso Pacilio Adone Margherita. Marta non si era unita al gruppo per non lasciare sole le due figlie adolescenti.
Agostina Portalupi era rimasta vedova poco prima dello scoppio della guerra con un unico figlio, Alfredo, poi alpino della “Monterosa”, ucciso dai partigiani alla fine del conflitto. La Divisione Alpina Monterosa non era una milizia di partito e le autorità della RSI vi inviavano i giovani per compiere il servizio militare obbligatorio. Pertanto, nessuno avrebbe dovuto accanirsi contro di loro alla fine della guerra. Ma le regole della guerra sono liberamente o capricciosamente interpretate quando non si tratta di un esercito regolare, ma di bande ribelli, dove i fanatici e la teppa non mancano mai, ognuna con i suoi capi e gerarchie, riferimenti ideologici, programmi di azione: a volte l’estorsione, il saccheggio, violenze ed assassinii come priorità.
La disgraziata madre odiava ed in quell’odio smisurato trovava la forza per andare avanti. Un pomeriggio di quella calda estate, in compagnia della signora Ottavia, decise di far visita al parroco in canonica. In quell’epoca i preti ancor abbondavano, non era necessario farli arrivare dal Guatemala o dall’India e, prima di destinarli ad una parrocchia, i vescovi si preoccupavano che almeno comprendessero e parlottassero il dialetto del luogo. Molti anziani non si esprimevano bene in italiano. Ed una certa diffidenza ricadeva su tutti coloro che l’italiano parlassero. Nonostante gli sforzi del decaduto Regime, i dialetti persistevano tenaci. Univano e separavano.
Don Paolo Viberti era nato a Canale d’Alba e, sebbene con un accento e modi che rivelavano l’origine nella ‘Provincia Granda’ di Cuneo, si esprimeva alquanto fluidamente nel piemontese di Torino, quello antico e nobile della Corte sabauda. Era un parroco giovane, molto amato per la sua semplicità e senso comune, specie in quell’epoca, quando gli psicologi erano riservati ai ricchi, con tempo e soldi da spendere, Molti seguivano ancora la parola del prete per un aiuto non tanto spirituale, quanto per decisioni pratiche, per dubbi e consigli.
– Dobbiamo parlarvi, Reverendo – iniziò Agostina, in italiano, per deferenza – qualcosa che ci sembrò importante, ma che finora non abbiamo osato rivelare a nessuno.
– Ditemi, di che cosa si tratta? – le rispose il parroco in piemontese.
– Quando siamo state a Roma con voi, Reverendo, in Piazza Navona, parve ad Ottavia riconoscere il professor Margherita, del quale non si sa nulla dal 1945, in un ritrattista, lavorando.
– Un ritratto a chi? – aggiunse il parroco, ancora in dialetto.
– A due bambini, Reverendo, non sapete che buona mano aveva il professore marito della signora Marta!
– Lo immagino, ma altri lo videro anch’essi. Che cosa ne pensano?
– Questo è il punto, Reverendo. Solamente lo vedemmo in quattro, la qui presente signora Ottavia, Maria Bonifetto, Filomena Colli ed io, pare. Non eravamo sicure, per questo non domandammo nulla, né ne facemmo cenno ad altri. Ma adesso…
– Adesso che cosa?
– Siamo persone prudenti e discrete, ma abbiamo dubbi che non ci lasciano dormire – intervenne Ottavia – sappiamo che è una possibilità remota, ma se potesse trattarsi del professore,
non dovremmo avvisare, per scrupolo, la signora Marta? Abbiamo in sostanza bisogno di un consiglio, Reverendo.
Don Paolo si mise a riflettere sulla questione, prima di parlare:
– Per quanto ne so, come mi commentarono, l’ultima volta che la signora Marta vide il marito fu a Milano, nel marzo 1945.
– È vero. Così ci disse. La povera Marta mosse terra e mari. Nulla. Non seppe nulla di lui, dopo una lettera in data 23 aprile 1945. Adesso si è rassegnata, crediamo.
– A questo vado, signore, ringraziandovi per la fiducia. Che si tratti del professore scomparso mi pare estremamente difficile. Non ha senso. In tutti questi cinque anni e passa si sarebbe fatto vivo con la famiglia, che tanto amava, per quanto ne so. Anche se si fosse nascosto alla fine della guerra, se fosse sopravvissuto, perchè poi sparire? Una persona seria, equilibrata per come me l’hanno descritto…
– Ciò lo penso anch’io, Reverendo, i partigiani comunisti o i comunisti pur senza essere partigiani, sicuramente l’hanno ammazzato, come fecero con il mio povero Alfredo – intervenne
di botto la signora Portalupi, con una smorfia di collera.
– A meno che…
– Dica, signora De Filippis.
– Voi, Reverendo, avete visto tutto ciò che successe, le cose infami che sbocciano dalle guerre. Sapete che alcuni nostri soldati tornarono dalla Russia ed incontrarono le spose rimaritatesi, pensandoli caduti… E se il professor Margherita, per salvarsi dovette legarsi a qualcuno?
– Con una famiglia o, meglio, con una donna che magari lo protesse e che adesso lui non può lasciare, perchè tutto risulta assai complicato. Forse un nuovo focolare domestico – aggiunse l’altra donna, in dialetto.
– Bisogna essere molto prudenti. Non aggiungere delusioni ad amarezze. Ci sono anche due ragazzine senza padre. Che cosa potrebbero pensare? – disse il prete con voce grave.
– Scusi, Reverendo, voi sempre potete arrivare ovunque, sapere tutto.
– Noi, i preti? Magari, ma non è così, signora.
– Non desideriamo insinuare nulla, Reverendo. Però forse voi potreste, attraverso qualche sacerdote di Roma, svolgere una piccola indagine tra i venditori e ritrattisti della Piazza. Per evitare proprio altre sofferenze alla povera Marta. Probabilmente una semplice somiglianza o, chissà, la strana realtà di qualcuno che non osa tornare.
– Lo penserò. Chiamerò per telefono un teologo che studiò con me a Roma, anni fa. Sperando di rintracciarlo. Tornate fra tre giorni, a quest’ora. Dio sia con voi!
– Per porre un punto finale a questa triste storia o svelare un mistero… – terminò con enfasi la signora Portalupi.
– Scusi la seccatura e grazie ancora, Reverendo. Addio – lo salutò Ottavia.
Non fu necessario aspettare tre giorni. Maria Bonifetto, informata del colloquio con il parroco, rosa dalla curiosità, non ne potè più con i dubbi, i travagli interiori, le elucubrazioni ed informò sollecitamente Filomena. Due ore dopo quest’ultima trangugiò due volte la saliva prima di suonare alla porta della vicina e, cercando di dosare attentamente le parole da pronunciare, si tolse il peso morto, ormai insopportabile, di dosso:
– Marta, scusami. Ma ad alcune signore del gruppo che furono con me a Roma la settimana scorsa parve di riconoscere, in un ritrattista di Piazza Navona, Pacilio.
– Pacilio?
– Negai al momento tale possibilità, ma adesso sento essere un dovere di amica informarti al riguardo. Sai quanto ti stimo e ti voglio bene.
– Tu l’hai visto? – incalzò Marta.
– Sì e no. Ho visto un uomo con i tratti simili a tuo marito. Ma son passati tanti anni ed escluderei, in linea di principio, tale eventualità. Perchè non si sarebbe mai fatto vivo?
– Chi altri lo ha visto?
– Ottavia De Filippi, Agostina Portalupi, Maria Bonifetto… Tutte e tre dubbiose. Non so di altri. Per discrezione non abbiamo commentato nulla a nessuno.
– Adesso non posso rimanere qui senza saperne di più. Grazie.
Marta fu a parlare con le altre tre donne ed insieme le cinque signore furono a conferire con don Paolo Viberti, che naturalmente le conosceva bene tutte.
– Avanti, signore, è un piacere vedervi. Ditemi.
– La signora Margherita sa che ieri siamo state qui da voi. Adesso, come può confermare, desidera recarsi al più presto a Roma, vedere pure lei questo ritrattista – iniziò a parlare con tono fermo Agostina Portalupi.
Il parroco le guardò tutte negli occhi, trangugiò anch’egli la saliva, passò la lingua sulle labbra e soppesò le parole, sapendo ch’esse possono essere balsamo o veleno:
– Credo sia comunque un diritto della signora Margherita recarsi a Roma e cercare l’uomo che potrebbe, sebbene appaia difficile, essere il marito a lungo pianto. Finora non ho potuto verificare nulla e non credo riuscirci. L’Italia è ancora piena di gente spostandosi da un luogo all’altro, la casa perduta, il lavoro pure, i legami familiari affievoliti. Possiamo solo pregare Dio misericordioso che l’accompagni, ora e sempre – concluse il prete.
Marta, tornata a casa, prese le figlie per mano, si sedettero sul sofà del soggiorno e cercando pure lei le parole con attenzione, disse loro:
– Voi sapete che vostro padre, Pacilio, scomparve a fine aprile ’45 e ricordate quanto lo cercai, tutta la gente che visitai, pure le umiliazioni che dovetti subire dagli ex partigiani. Tutto difficile ed inutile. Successe.
– Perchè, mamma, ci racconti questo? – domandò Aurora, Tita, con un po’ di timore.
– Alcune signore che furono a Roma in un viaggio della parrocchia mi hanno raccontato di aver visto un uomo somigliante a papà.
– Davvero? – pronunciò Alba, Beba, sgranando i suoi grandi occhi verdi di meraviglia.
– Non c’è nulla di certo e neppure probabile, bambine. A delle signore è sembrato riconoscerlo, forse. Ci sono soldati che hanno perso la memoria per lo scoppio vicino di una bomba o altro. Papà potrebbe aver dimenticato e per questo non si è fatto vivo in tutti questi anni. Devo andare a Roma e verificare. Anche se non ci credo molto.
– Sì, mamma, vai subito!
– Parto col treno domani. Siete grandi, voi dovrete comportarvi bene in mia assenza. Per qualsiasi cosa c’è la signora Colla, zia Filomena. Mangerete a casa sua. Obbeditele sempre.
– Porta papà con te a Torino, abbiamo nostalgia di lui. Con memoria o senza!
Arrivata a Roma Termini, Marta prese subito un filobus per il Corso del Rinascimento, presso Piazza Navona. Affacciatasi alla Piazza lo vide da lontano, ma non ebbe dubbi. Con gli anni, la guerra, le sofferenze quotidiane, la donna si era indurita. Aveva appreso a sopravvivere senza gli appoggi conosciuti, le piccole certezze. Già non era una giovane sposa timida ed un po’ tonta. E non era lì per gioco, il suo era suo, e quel pittore ambulante in maniche di camicia… era sicuramente Pacilio! Nell’antica piazza meravigliosa – già stadio di Domiziano, dove gli antichi romani accorrevano per vedere i giochi – accarezzata dalla luce del tramonto, le ombre lunghe dei pomeriggi estivi, quando comincia a soffiare il ponentino, il venticello dell’Ovest, la brezza che porta refrigerio e voglia di vivere, la donna si avvicinò al ritrattista. L’uomo si alzò. La coppia si osservò senza dire una parola, per lunghi secondi. L’uomo alla fine ruppe un silenzio divenuto insopportabile:
– Marta, che cosa fai qui?
– Tu devi dirmelo, Pacilio. Mi fa piacere che non abbia smarrito la memoria. Da più di cinque anni ti sto cercando, ovunque. Tutti ti credono morto. Dove sei stato?
– Perdonami. Dovetti scappare da Milano perchè ci ammazzavano tutti. Lo avevano promesso e lo facevano. No so come son riuscito a sopravvivere. Avevamo buttato le armi. Ci catturarono in un paesino e ci condannarono tutti a morte in un quarto d’ora, leggendo una pagina al ciclostile. In quindici contro una parete, fucilati alla schiena come traditori. Poi i partigiani, ubriachi, salirono sui camion e via, cantando ‘Bella Ciao!’ Caddi con gli altri, ferito superficialmente, tutta la notte sotto il mucchio dei cadaveri, fingendomi morto.
– Ti avevo detto che fu un grave errore mettersi con le Brigate Nere…
– Lo so, Ma non feci nulla di male. Verso la mattina, con la luna, riuscii a vedere qualcosa, spogliare il cadavere di un civile fucilato con noi e scappare dall’orrore. Verso il sud, lontano da quell’inferno, Qualcuno indovinò la mia identità e mi disse:
– Vada al Sud, là non ci sono partigiani. Dopo settimane, mangiando erba come le capre, muovendomi per i campi, senza soldi, dormendo in una stalla o sotto un albero, rifiutato dai conventi, mi trasformai in un cencioso fuorilegge, in pelle ed ossa, i piedi che sanguinavano, rischiando ad ogni minuto di essere catturato. Arrivai infine a Roma, più morto che vivo, senza documenti, nulla. Non ero più un uomo, ero un animale affamato e disperato.
– Perchè non ci hai cercato? Non mi dire che sei stato nascosto per cinque anni, senza farci sapere nulla.
– Ho avuto paura. Dicevano che i partigiani aspettavano il ritorno a casa dei fascisti per assassinarli. Durante anni. Ed ebbi poi vergogna: non sapevo che dire, come giustificarmi.
– Potevi provarci.
– Lo fecero alla fine le vicine di Torino. Mi resi conto che mi avevano riconosciuto.
– E non ne approfittasti neppure allora per farti riconoscere, dire chi eri.
– Indovinai che qualcosa sarebbe successo, Marta. Sono contento di vederti. Come stanno le bambine?
– Le tue care Tita e Beba? Piangendo il padre morto che sicuramente starà vivendo con una troja, disegnando a Roma, in questo magnifico posto, senza freddo in inverno, dimenticandosi dei suoi doveri, della sua famiglia… Che schifezza umana!
– Non parlare così di Carmen. Una buona, compassionevole donna che mi ha curato, accompagnato sempre. Una Ausiliaria della X MAS che rischiò anch’essa la pelle. Senza di lei, della sua protezione io sarei morto. Mi procurò documenti falsi e non fu facile. La polizia è piena di ex partigiani, i peggiori.
– Lo sapevo, disgraziato…
Pacilio vide il mondo dar due volte, a causa del forte schiaffo che Marta scaricò, con tutte le sue forze, sulla faccia del marito. Mentre si stava toccando, silenzioso, la guancia dolorante con la mano destra, un altro violento ceffone non gli risparmiò la guancia ancora indenne. Tutta la Piazza li stava osservando, senza intervenire.
– Adesso vai a casa, a salutare la puttana. Ti aspetto alle 10 alla biglietteria della Stazione Termini. Torniamo a casa questa sera. Non sono venuta a visitare la nostra capitale. I particolari, o le menzogne, di questi cinque anni non mi interessano. Affari tuoi, della tua coscienza.
– Ma Marta, non posso lasciare tutto così, in poche ore…
– Puoi. E pensa a che cosa raccontare a Tita e Beba, che non sembri troppo ridicola.
– Che cosa le dirò?
– Qualcosa penserai, sei un uomo di fantasia creativa, no? A loro tutti faranno molte domande – gli rispose Marta, con un tono che non ammetteva replica.
Carmen lasciò la vita di Pacilio quel tardo pomeriggio, nella quale era entrata casualmente. Indovinando che quell’uomo emaciato, sporco ed indifeso, abbastanza più vecchio di lei, era qualcuno che stava condividendo il suo stesso destino di vittima della storia, che era sopravvissuto fino a quel momento chissà come, che aveva assolutamente bisogno del suo aiuto per non sprofondare del tutto. La sua tenerezza ed il tratto delicato poi la conquistarono. Egli corrispose aiutandola ad andare avanti, oltre tutte le difficoltà di esuli braccati in patria. Carmen gli voleva realmente bene, ma comprese, dopo cinque anni, che doveva lasciarlo andare, senza porre ostacoli a ciò che era doloroso, ma giusto.
– È venuta mia moglie Marta, da Torino a cercarmi, vuole che io torni a casa con lei questa notte stessa – comunicò, pieno di vergogna malcelata Pacilio a Carmen, senza guardarla in viso.
– Sapevo che un giorno o l’altro sarebbe successo, Pacilio. Hai due figlie che hanno bisogno di un padre. Non ti trattengo. Soffrirò molto, ma lascerò la tua vita per sempre.
– Tu mi hai salvato, Carmen, mi hai dato la tua gioventù. Non potrò dimenticarlo.
– Anche tu. Mi hai insegnato tante cose, a godere l’arte della mia città, ad apprezzare il bello senza rimanere consumata dall’odio, senza pensare ossessivamente al nostro destino: ragazze ingenue che volevano salvare l’onore della patria sconfitta e tradita, quando gli Alleati avevano già aperto il cammino e gli avvoltoi si gettarono su di noi come bestie, stuprando ed uccidendo…
– Voi eravate il meglio, il più puro di questo disgraziato Paese, Mi vergogno come uomo.
– Già è passato. Tu sei un brav’uomo, Pacilio. Dicono alcuni che la donna è un ‘animale cattivo’, ma non è la verità. Vattene tranquillo, torna ad essere il professor Margherita. Per troppo tempo sei stato un fuggiasco.
– Grazie, Carmen.
– Buona fortuna, Pacilio.
L’uomo afferrò una scalcagnata valigia di cartone e la riempì di poche cose, assicurandola con una cinghia di cuoio dei pantaloni, senza poter contenere le lacrime. Pensava, un’altra volta, ch’egli era il passeggero d’un treno sul quale doveva salire, senza porsi altre domande. Nella confusione del mondo, regole antiche e persino pregiudizi illuminano il cammino.
Marta e Pacilio ebbero altre due figlie e vissero insieme fino alla morte dell’uomo, ‘il pittore smarrito’, come lo soprannominarono i vicini di Torino, 54 anni più tardi. Tempo per ricordare la sua incredibile storia realmente ebbe. Marta lo aveva perdonato, tuttavia non del tutto, giacché spesso lo trattava male, a cattive parole. Marta gli sopravvisse e si spense ai 97 anni compiuti.
(*La storia è vera, di persone ben conosciute. L’ho raccontata, con poche licenze…).
sù, è vero, il vero vincitore del 18 aprile fu il Papa, e un po’ magari anche Gedda e Guareschi