La determinazione di una parte cospicua della popolazione ucraina a battersi contro le armate di Mosca ha sorpreso quasi tutti, a cominciare dagli stessi russi che prevedevano una resistenza meno accanita. Questa intensa manifestazione di patriottismo messo in mostra da quanti si considerano, dal punto di vista etnico e culturale, come ucraini “puri” non era, in effetti, scontata se solo si considera quanto sia composita e storicamente problematica l’identità di questa nazione.
Per secoli, come a tutti è noto, gli ucraini hanno convissuto con i russi nella stessa unità statale e, nonostante alcuni periodici tentativi di affermare una specificità propria, si è a lungo faticato a distinguere le due popolazioni, tanto che il Paese poteva essere definito Piccola Russia così come la Bielorussia era la Russia Bianca. Il concetto di un’autonoma e indipendente nazionalità ucraina comincia a svilupparsi, con una certa consapevolezza, soltanto in epoca romantica come è accaduto per altri popoli europei. Ancora oggi, però, il russo rimane la lingua più conosciuta nell’intero Paese, mentre la cultura specificamente ucraina è rimasta, tutto sommato, un fenomeno “minore”: i due più grandi scrittori nati in territorio ucraino sono, imparagonabilmente, i russi Gogol e Bulgakov.
Persino in Galizia e in tutta la parte occidentale del Paese, dove oggi l’elemento ucraino è assolutamente dominante, fino ai primi decenni del Novecento a prevalere erano la popolazione e la cultura polacca: a Leopoli gli ucraini erano solo il 20% della popolazione. E non si creda che il cambiamento della situazione in quei territori sia stato indolore. Oggi, in tempi in cui tutto ciò che è ucraino viene angelicato, non va di moda ricordarlo, ma il nazionalismo ucraino, quando ha preso piede, è stato spesso di una ferocia impressionante. Durante l’occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale, scatenò la pulizia etnica dei polacchi, causando 100mila vittime. E forse non è un caso che, spesso, il nazionalismo di popoli dall’identità malcerta, nello scontro con identità culturali più solide, si dimostri particolarmente sanguinario. Si pensi, per esempio, a quello sloveno e croato contro gli italiani in Istria e Dalmazia.
La vera ragione dell’ostilità verso la Russia da parte degli ucraini, ben visibile da prima dell’attuale guerra, e di cui si doleva già Solzenicyn, deriva comunque dalla comune storia sovietica dei due popoli. In sintesi, l’odierno nazionalismo ucraino si alimenta soprattutto di quella terribile vicenda che a Kiev chiamano holodomor, ovvero lo sterminio per fame indotto dalle autorità comuniste. Tra il 1932 e l’anno seguente nelle campagne ucraine, ma in parte anche nelle città, morirono 4 milioni di persone a causa della grande carestia, anche se la cifra precisa è difficile da accertare e taluni storici tendono ad aumentarla. Si trattò dell’atto finale del processo di collettivizzazione delle campagne teso a statalizzare l’attività agricola all’interno dei sovchoz e dei kolchoz. Fu una durissima guerra sociale che il potere sovietico scatenò contro i contadini, a cominciare dai cosiddetti kulaki, qualificati con molta approssimazione come contadini ricchi, che fini col coinvolgere tutto il mondo rurale dell’Urss. A cominciare fu il “buonuomo Lenin”, come da ironica definizione di Curzio Malaparte, che nel 1918 creò i comitati dei contadini poveri per collaborare alla requisizione dei prodotti della terra degli agricoltori che si rifiutavano di entrare nelle fattorie collettive. Ciò avvenne per mezzo di grandi violenze da parte della polizia politica e degli attivisti comunisti che finirono col provocare numerose rivolte contadine poi stroncate nel sangue. Era l’inizio della guerra contro il proprio popolo decretata dal comunismo che dimostra come l’autore del colpo di Stato dell’Ottobre non sia stato quel personaggio umano e tutto sommato conciliante che spesso si dipinge in Occidente per scaricare tutte le colpe dei crimini sovietici sull’ “anomalia” Stalin. Tra i due, nella volontà di creare la società comunista, disinteressandosi totalmente dei costi umani e sociali, c’è solo una differenza di grado nella determinazione e nell’intensità.
Dopo che Lenin, in seguito alle rivolte e alla grave crisi economica provocate dalla sua politica, si risolse, nel 1921, a decretare la tregua rappresentata dalla Nep (Nuova politica economica) fu il suo successore a riprendere, nel ’29, l’immensa opera di statalizzazione dell’agricoltura, conducendola a un ritmo vertiginoso. E ricominciarono, dunque, con sempre maggiore intensità le deportazioni di quei contadini considerati nemici, le uccisioni a decine di migliaia e le requisizioni per condurre agli ammassi statali i prodotti di quegli agricoltori che si rifiutavano di entrare nelle fattorie collettive. Finché a loro non rimase nemmeno il sufficiente per alimentarsi. E’ così che si arrivò alla grande carestia: nelle strade dei villaggi i cadaveri dei morti per fame si accumulavano a mucchi, numerosi furono i casi di antropofagia. Un inferno in terra a cui il regime non pose alcun rimedio, continuando anzi ad aumentare sempre la quantità di prodotti richiesta per gli ammassi. Se probabilmente non si può addebitare a Stalin e ai suoi accoliti di avere provocato deliberatamente la carestia, è comunque assodato che quando essa incominciò a svilupparsi, ne approfittarono, incrementandola, per dare una lezione definitiva a quel mondo contadino che si rifiutava di abbandonare le sue tradizioni secolari.
Si è trattato di un crimine specificatamente rivolto contro il popolo ucraino, un esempio della prepotenza russa contro una nazione ribelle? Anche se in Ucraina lo sterminio per fame ebbe dimensioni particolarmente vaste, è difficile credere che lo si possa definire così perché furono tutte le campagne dell’Unione Sovietica a soffrirne, in particolare nella regione del Don, in quella del Volga, e nel Caucaso settentrionale. Sempre tenendo conto che è arduo fare numeri precisi per catastrofi di dimensioni bibliche come questa, si pensa che, al di fuori dell’Ucraina, morirono per fame almeno due milioni di contadini. Senza considerare la pochissima conosciuta ecatombe del Kazakistan, la più grave per percentuale di vittime rispetto al totale delle vittime, che si verificò nello stesso periodo di tempo, quando la carestia divampò a causa della politica di sedentarizzazione di quel popolo nomade e di collettivizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento.
Gli storici ucraini sostengono che, nella comune tragedia, esisterebbe però una specificità ucraina in quanto alla guerra sociale nelle campagne si sarebbe affiancata la “lotta contro il nazionalismo borghese” tesa a sradicare l’identità ucraina fra gli intellettuali, nella Chiesa e perfino nello stesso partito comunista di Kiev. E’ però altresì vero che campagne antinazionaliste di questo genere si verificarono, in varie fasi storiche, in altre parti del multietnico impero sovietico. Solzenicyn, che da russo riconosceva anche la propria parte di radici familiari ucraine, sosteneva, in opposizione al nazionalismo ucraino, che i due popoli hanno sofferto insieme a causa dello spietato esperimento di ingegneria sociale rappresentato dal comunismo. Nel momento dell’indipendenza dell’Ucraina nel’91, riconosceva ai cittadini di quella nazione il diritto di andarsene se lo desideravano, ma si chiedeva perché, nel momento in cui abbattevano le statue di Lenin, volessero rivendicare i confini inventati proprio da Lenin stesso che comprendono anche quei territori che, alla riva sinistra del Dnepr sono, etnicamente e storicamente, molto più russi che ucraini, per non parlare della Crimea ceduta arbitrariamente da Krusciov.
Che avesse ragione il grande scrittore lo si potrebbe constatare anche oggi se la grande stampa occidentale non fosse tutta allineata nel nascondere la verità, mentre chi frequenta anche fonti alternative ha potuto vedere come non siano infrequenti, nonostante decenni di ucrainizzazione forzata, le manifestazioni di simpatia verso le forze russe nelle regioni che hanno conquistato (liberato?). Quei confini fittizi potevano risultare accettabili fino a quando, nel 2014, l’Ucraina, con le conseguenze del golpe di Maidan non ha deciso di divenire una sorta di anti-Russia. Otto anni di ostilità verso Mosca, alla fine, hanno provocato conseguenze che erano ampiamente prevedibili.
Il nazionalismo ucraino e l’ostilità verso la Russia sono psicologicamente comprensibili alla luce della sedimentazione nella memoria popolare dell’holodomor. Anche se, come abbiamo visto quella tragedia è molto più un crimine del comunismo sovietico che un esempio di odio verso l’Ucraina, i cittadini di quella nazione comprensibilmente ricordano comunque che le brutali politiche attuate nei loro confronti venivano decise a Mosca, dimenticando però che Stalin era georgiano non russo. Quello che, invece, in Occidente bisognerebbe mettersi in testa è che la Russia attuale non è l’Unione Sovietica e se è vero che intende tutelare i suoi connazionali di quello che considera il russkij mir, il mondo russo fuori dai suoi confini, non coltiva certo l’ambizione di conquistare quelle nazioni dell’Europa dell’Est che furono satelliti dell’Urss, come si sente spesso farneticare (“l’Ucraina è solo la prima tappa”… ) in televisione e sui giornali. Ai fautori del mondo unipolare conviene però agitare queste fole per riaffermare che solo prosternandoci allo zio Sam possiamo difenderci dalle zanne dell’orso russo.
Bell’articolo